Do you believe in life after love?

Boris Battaglia | If I Can't Dance, It's Not My Revolution, Pantomime del Calisota |

Nel marzo del 2014 (vado a memoria e potrei sbagliarmi) il teatro Smeraldo è diventato un supermercato di lusso. Nessuna nostalgia, intendiamoci: Milano è un organismo vivente che cambia in continuazione e non puoi restare lì a rimpiangere quello che non c’è più. Figurati, io da Eataly ci vado pure volentieri.
Confesso che in questi giorni ho guardato Sanremo. Lo faccio tutti gli anni. Distrattamente. La serata che preferisco è quella dei duetti e delle cover. Sarà stato probabilmente per questa mia personale preferenza tra tutte le cinque serate di superficiale immersione nella musica televisiva – e non per nostalgia, ne sono immune, ribadisco – che sabato, passando per piazza XXV Aprile, mi è tornato in mente un ricordo.
Credo fosse il marzo del 2007. Ero seduto nella platea dello Smeraldo, ad ascoltare un incredibile concerto di Enzo Jannacci.
A un certo punto, solo al piano, Enzo attacca Via del campo.

Una delle versioni più belle e strazianti che abbia mai ascoltato. E mi è tornata in mente proprio perché venerdì sera ne avevo sentita un’altra altrettanto bella: quella di Madame e Izi.

Un gioiello in cui lei ribalta le parti e lui, con quel suo stile atonale modulato dall’autotune, le fa da delicato contrappunto. Sinceramente non me ne frega niente se Fabrizio De André avrebbe apprezzato o meno. Non mi sono mai chiesto se avrebbe apprezzato la versione con cui Jannacci si riappropriava di quella canzone, non vedo perché dovrei preoccuparmi se avrebbe apprezzato l’uso dell’autotune. Ho apprezzato io, e questo mi basta.
Però. Viviamo in un tempo in cui è stata lanciata l’allerta AI. Ho sentito i nostalgici del canto naturale (che cazzo vorrà mai dire?), quelli che sostengono che Ornella Vanoni canti ancora bene – a me a dirti la verità, lo sciacquettio della dentiera che a ogni parola ormai bofonchiata rischia di staccarlesi dal palato, amplificato dal microfono, dà molto più fastidio dell’autotune –, affermare che quel software diabolico ci ha preparato all’intelligenza artificiale, da cui presto saremo sottomessi.
Boh. Sull’autotune io la penso esattamente come Alessio Lega, che ha scritto questa cosa che riporto integralmente (gli ho chiesto il permesso):

«Autotune è uno strumento.
Autotune è un programma che fa un certo lavoro sulla voce. Un modo meccanico di ottenere degli effetti, paragonabili – fra l’altro – anche a tecniche vocali come quelle dei cantanti lirici o dei monaci tibetani. Per esempio, io adoro Verdi e non sopporto i cantanti lirici che fanno Gershwin. Gusti e coerenza.
L’autotune è uno strumento elettronico, come il riverbero, come l’eco. Dire “canta con l’autotune” è una pura esternazione di totale inconsapevolezza. Uno canta con le corde vocali, col corpo, con lo spazio, con il microfono, ecc. Lamentarsi dell’autotune è come lamentarsi perché un chitarrista elettrico usa il distorsore. Non è che sei solo ignorante, hai proprio l’arroganza degli scemi.
Il punto, come sempre, è come e perché lo si usa, semmai. Ma questo riguarda ogni scoperta: dal fuoco, alla ruota, alla polvere pirica.
E comunque è peggio l’ukulele.»

Condivido tutto, persino il disprezzo per l’ukulele (pensa che dal 2011, cioè da quella fucilata nei coglioni che è Ukulele Songs, faccio fatica a tollerare Eddie Vedder!)
Considerare l’autotune il prodotto di una congiura reazionaria che ci sta portando all’asservimento, o nel migliore dei casi a far cantare anche chi non ne è capace, è una sciocchezza di dimensioni smisurate, figlia di un luddismo informatico ed elettronico destinato (come tutti i luddismi) al fallimento.
L’autotune non è un rimpiazzo e non è una scorciatoia. È un mezzo per usare e modulare quello strumento che è la voce. Se proprio non riesci a tollerare che ti tocchino il tuo santino deandreiano, beh, prova ad ascoltarti come lo usa T-Pain. E poi mi dici.

Ah, non c’entra con l’autotune, ma comunque, secondo me il Festival lo ha stravinto Elodie.

Post-scriptum: il titolo di questo pezzo è un verso di Believe, splendida canzone in cui Cher faceva già uso (siamo nel 1998) dell’autotune.

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