Sedici piccole canzoni d’amore: Instant Song di Volontré

Boris e Paolo | Facoltà di cazzeggio |

Paolo: Ieri sera mi hanno messo in difficoltà. Mi hanno chiesto qual è la linea editoriale di QUASI.

Boris: Uh? Che domanda demodé… e chi ti ha posto la questione?

P.: Quanto avevi bevuto? C’eri anche tu. Comunque chi me (e ce) lo ha chiesto non è importante. S. stava facendo chiaramente riferimento alla nostra volontà di non avere spazi pubblicitari. Ha detto: «Sempre a menarvela sulla solidità della struttura di QUASI, sul suo essere una rivista quasi ottocentesca messa in rete, in forma di blog… però non sapete dire la linea editoriale. Fedeli alla linea, anche quando non c’è?» Tu biascicavi con T. e io mi sono trovato solo soletto. Ho ripetuto il manifesto di QUASI a pappagallo, ma non mi soddisfa più.

B.: Io manco mi ricordavo che avevamo un manifesto, figurati se può soddisfarmi! Allora, che fare?

P.: Siccome devo fare di OCD virtù, mi sono messo a controllare chi ha pubblicato più articoli in assoluto su QUASI. Anche più di me, che oltre ad avere un disturbo ossessivo-compulsivo sono pure incontinente verbale… Indovina?

B.: Beh… è facile. Quattro sabati in media al mese, tutti i mesi e tutti i sabati da quando abbiamo iniziato: Alessandra Falca, ci scommetto.

P.: Proprio lei. QUASI è la rivista costruita intorno a “View-master”, la rubrica degli sguardi di Alessandra. Otto foto scelte tutte le settimane che sembrano fare il verso alle gallerie cattura click che presentano tutti i siti. Ma noi non abbiamo pubblicità sulle nostre pagine e, allora, è chiaro che quelle otto immagini non servono a quello. Io le guardo e cerco di leggere la storia che Alessandra mi racconta e, tutte le volte, mi sento orgoglioso di partecipare alla rivista costruita intorno a “View-master”.

B.: A pensarci è vero. È un po’ come se “View-master” fosse il tema portante o principale su cui si sviluppano poi, durante la settimana successiva, tutte le variazioni delle altre rubriche. Come se fosse la frase melodica che dà la struttura a QUASI.

P.: C’è, nelle scelte di immagini di Alessandra, un’immediatezza, un’istintività, che forza il passo di QUASI. Una rivista che nasce per definire una cartografia dei racconti che mescolano parole e immagini, lasciata solo a noi due, avrebbe potuto essere una parete di testo su cui appendere qualche disegno preso da fumetti e libri illustrati. “View-master” ci obbliga a scartare di lato: ci costringe a prendere coscienza del fatto che «senza dialoghi né figure», come insegna Alice, la storia e la critica delle storie che amiamo non serve a niente.

B.: Sono convinto che quell’immediatezza le derivi soprattutto dal suo essere musicista… Una canzone, attraverso la sua invenzione armonica, ti predispone a uno stato d’animo e poi ci costruisce su una storia contrapponendo parole. In “View-master”, Ale fa la stessa cosa: costruisce un’armonia contrapponendo immagini. Però non credo che ci sia istintività: è tutto calcolato, costruito secondo una logica ferrea, appunto come in una canzone di Instant Songs, il suo ultimo disco, quello che ha fatto con Emiliano Dominici e Marina Peloso, firmandolo Volontré.

P.: A proposito… lo hai ascoltato? Tu, Boris, parli di progettualità, che sicuramente c’è, ma c’è anche la ricerca dell’immediatezza. Mi pare che, registrando le sedici canzoni di Instant songs, non volessero solo un disco di canzoni istantanee, desideravano fossero anche istintive. Canzoni scritte, eseguite e registrate, magari con qualche ospite, nel giro di poche ore.
Guarda quella copertina: un’immagine, un po’ alterata, a chiudere il cerchio con il nome, nella tradizione di “View-master”. Siccome non riconoscevo quel volto, ho chiesto ad Alessandra e mi ha detto che è Carla Gravina, per molti anni compagna di vita di Gian Maria Volonté. Le ho chiesto perché hanno dedicato il progetto proprio a Volonté e mi ha copiato un pezzo di intervista all’attore: «Essere un attore è una questione di scelta che si pone innanzitutto a livello esistenziale: o si esprimono le strutture conservatrici della società e ci si accontenta di essere un robot nelle mani del potere, oppure ci si rivolge verso le componenti progressive di questa società per tentare di stabilire un rapporto rivoluzionario fra l’arte e la vita».

B.: Certo che l’ho ascoltato. È un disco immediato, ovvio: lo dichiarano nel titolo dell’album. È registrato in diretta e senza postproduzione. Ma questo non vuol dire che sia istintivo. Non credo assolutamente all’istinto nei processi creativi. C’è un sacco di mestiere e di lavoro di sottrazione sul quale devono avere riflettuto a lungo. Ascolta la seconda traccia, Pas Toujours. Da pezzo tenchiano si trasforma in una canzone tra Georges Moustaki e ZAZ, per cambiare di nuovo registro, un po’ alla Giuni Russo, e ridiventare un pezzo di ZAZ.
Magari L’hanno anche scritta di getto, ma usando fraseggi che fanno parte del loro immaginario, più o meno con lo stesso metodo con cui Alessandra mette insieme i “View-master”.

P.: Boris! Pas Toujours è la decima traccia. Mi hai saltato le prime nove.

B.: Cazzo, è vero! Ma è colpa di spoticoso che me la proponeva come seconda, forse perché va a caso o forse perché le mette in ordine di numero di ascolti. E poi ha il titolo in francese, mi ci sono buttato su, come su quella che segue, Fiche moi la paix, così piena di riferimenti alla chanson delle boite parigine… vedi, usano tre lingue: l’italiano, quella della canzone melodica e dei canti popolari; il francese, quella della canzone colta; l’inglese, quella della popular music…

P.: Non sono in grado di riconoscere alcuna influenza. La musica mi fa ballare e cantare, ma la ascolto con un’ignoranza beata e disinvolta tale da potermi permettere di godere di cose molto pop. Ecco… mi pare che questo disco, che si riallaccia a chi voleva «stabilire un rapporto rivoluzionario fra l’arte e la vita» e che, quindi, ha una pulsione all’impegno, sia fortemente innervato di pop. Inizia dicendo «No», quasi volesse qualificarsi come opposizione, ma quel «No» diventa subito un «No no no» ritmatissimo, di quelli che ti fanno ballare come «De Do Do Do De Da Da Da». E la seconda traccia – con quel titolo che inneggia al rimpianto, Quello che è stato – si chiude con una citazione che più pop non si può: «E lo senti che batte più forte di Fantaghirò».

B.: Già. la seconda traccia, quella vera, è proprio programmatica. Con quel suo andamento tra la ballata folk e il canto popolare per accompagnare un testo poppissimo. Ecco, chiariamolo però: musicalmente il disco non ha nulla a che spartire con quel micro genere della popular music che è il pop come lo intendiamo noi (insomma, quella roba che nasce con Abba e Bee Gees… roba che mi piace eh!, ma che qui non c’entra); è un disco folk (e in questo senso impegnato), la cui rivoluzione volonteiana si realizza in un gioco critico  sul nostro immaginario pop. Sai cosa? Mi fa venire in mente, in parte, il lavoro di Stefano Rosso. per questo dico che secondo me non è istintivo ma molto meditato. Quell’immaginario devi conoscerlo bene per scardinarlo con il grimaldello di soluzioni musicali che non gli sono propri. Ma è un discorso che vale anche all’incontrario. Devi conoscere bene quella musica per problematizzarla attraverso l’imaginario pop.

P.: Cosa? Scusami mi sono distratto… Sono certo che stai dicendo cose belle e importati che mi permetterebbero di capire meglio le cose che ascolto. Ma mi sono messo ad ascoltare il disco ed ero là che muovevo il mio sederone e canticchiavo: «Chiuso in casa da solo / come un superalcolico / non si può». E mentre canticchiavo sono arrivato a quello che hanno scelto come brano per il lancio del disco (si può dire “il primo singolo”?), Questa non è una città.
La cosa che ho notato, ascoltando i gruppi in cui ci sono due cantanti è che stanno sul palco con una presenza che è più noiosa della struttura narrativa di un porno: cantante uno fa la sua strofa; poi tocca al cantante due; e infine il ritornello – o i versi con il significato vero e profondo della canzone – cantati insieme. Quando poi i cantanti sono tre, l’effetto Qui Quo Qua è garantito. Mi pare che i Volontré cerchino di cantare le loro canzoni senza sopraffarsi, senza confrontarsi mai, spesso giocando alla doppia e alla tripla voce. Ci sono le foto della registrazione: sono seduti sul divano e cantano. È una cosa molto conviviale. Mi piace un sacco. (Ale: invitaci a cena!)

B.: A proposito di cena, non è un caso che il disco si chiuda con una canzone intitolata La catena alimentare, che riprende in modo rigoroso, per tema e stilemi, la tradizione dei canti del lavoro, quelli delle mondine in particolare, che usavano il canto, secondo quello schema che hai definito effetto Qui Quo Qua, per comunicare tra loro senza essere accusate di perdere tempo a chiacchierare. È come se chiudessero il cerchio (ahahah, bella forza, è un disco!) che avevano aperto con l’opposizione di NO NO NO, con una canzone che è al contempo di fortissima opposizione alla tirannia del lavoro, ma anche di estrema apertura comunicativa. «Ma dove sta la bellezza della mia libertà / quando non ho più la forza d’amar?».
E a quella domanda, la canzone risponde che quella bellezza sta nel canto che – folk, pop o quello che è – vale e sposta concetti più delle chiacchiere e quasi quanto le immagini.

P.: Sento quella canzone e mi torna in mente un disco frammentario di canzoni istantanee che ho molto amato: 69 Love Songs dei Magnetic Fields. Un sacco di canzoni brevissime, infilate fitte fitte in un disco (in quel caso tre) da ascoltare canticchiando e ballando. E poi c’è quella domanda, politicissima, che fa da ritornello e che citi. Quella frase che in cerca di bellezza, mostra lo schifo dello stronzissimo equilibrio tra libertà e sicurezza. Se si è continuamente alla ricerca di stabilità, come si fa ad amare?
Non pare anche a te che Alessandra Falca, questa volta con i suoi compagni dei Volontré, ci stia spiegando, ancora una volta, perché facciamo QUASI?.

B.: Certo. Solo che domani, come l’altra volta, me lo sarò dimenticato. Ho paura che a saperlo, perché facciamo QUASI, poi mi passi la voglia di farlo.

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