Incontrare gli scrittori che amo non è mai stato un feticcio, per me. Per questo non vado quasi mai ai festival. Credo che siano divertenti se incontri la gente che conosci ma vedi una volta all’anno, solo in quelle occasioni, con i finalisti dei premi Così e Cosà che fanno da tappezzeria colorata alla stanza in cui vi ritrovate.
Certo, quando non mi hanno dato un permesso, al lavoro, e Sancho a Mantova ha incontrato Jonathan Stroud che mi ha disegnato il djinni Bartimeus su un libro, mi sono mangiata le mani fino al gomito, ma in altre situazioni ho detto «Peccato» e ho continuato a seguire l’autore o l’autrice sulle pagine dei loro libri, senza rimpianti. Anche perché Reina Telgemeier è una persona che se la intervisti ti inonda di allegria e attenzione, Shaun Tan mi ha firmato il poster de L’Approdo e mi ha disegnato una bestiolina con l’entusiasmo di un geometra del Catasto. E io lo amo, lo amo così tanto che se avesse perso i pantaloni a Bologna e gli fossero serviti degli altri pantaloni gli avrei prestato i miei senza esitare e sarei tornata a Brescia in mutande. Ma incontrarlo non ha aggiunto niente al mio amore per la sua opera. Certo, era una firma e via camminare, che la coda alla Fiera di Bologna per il suo stand era lunghissima, ma qualche tempo dopo David Sedaris mi ha firmato un libro, disegnato un raviolo, e scritto «Sono felice di averti fatta piangere!», perché Sedaris è considerato un comico, lo è, scintillante di bravura, ma quando parla dei rapporti familiari devi essere disponibile a tagliarti con i piccoli oggetti affilati che mescola alla trama dei suoi racconti. Ecco, il raviolo di Sedaris era più memorabile della bestiola di Shaun Tan, io ho tutto di Shaun Tan, tranne Il re degli uccelli, ma tutto il resto si, eppure.
MI sembra di ricordare che Proust abbia scritto copiosamente di quanto sia pericoloso incontrare un autore che ammiri. Se ti chiedono di intervistarlo, tu esulti e poi ti dai dei pugni in testa, perché se è un pacco, è un pacco che rischia di portarsi via un pezzo di vita. In questo caso, i miei vent’anni.
La compa a cui ero finalmente approdata a 23 anni era quella che aspettavo per diventare un essere umano intero. Un gruppo di persone che se si innamoravano o diventavano amici lo facevano in un groviglio di connessioni con quel che leggevano, ascoltavano, guardavano. L’accumulo di libri, dischi, film che crepitava nella banca dati allora perfetta della mia mente aveva trovato uno sfogo. Non ho mai più avuto conversazioni così appassionate con un gruppo di persone. Con singoli amici sì, ma con un intero gruppo, per poi alzarsi e andare a sentire un concerto al CTM o vedere un film al cinema Metropol, mai più.
È giusto così. Fuck. Però in maggio, mentre ero in Radio, uno dei giornalisti mi ha detto: «All’inizio di luglio viene Jonathan Coe alla Libreria Rinascita, ti va di intervistarlo tu?» E io bam sono tornata alle discussioni al tavolo della birreria, prima del cinema e del concerto, perché i suoi libri li avevamo letti, sezionati, prestati ad altri amici per poterne discutere, alla fine, con chiunque, chiunque frequentassimo, cioè, allora, il mondo.
Ho detto sì.
Mi sono pentita, passato lo stordimento, perché era troppo difficile.
Ho letto un paio di libri nuovi. Ho visto che stava presentando in giro Bournville, il suo ultimo lavoro, mi sono concentrata su quello anche se dal fondo della mia mente arrivavano degli aeroplanini di carta con scritto La casa del sonno, La famiglia Winshaw, La banda dei brocchi…
Jonathan Coe è entrato in libreria verso le due. Era il 10 Luglio e la climatizzazione arrancava. Aveva una camicia blu a maniche lunghe, una faccia chiara e arrossata, inglese. Sapevo che la sera avrebbe fatto un concertone con la Artchipel Orchestra, suonando composizioni sue: «Rock strumentale, con una forte enfasi sulla melodia. Un po’ come facevano le band britanniche della scena di Canterbury degli anni Settanta.»
Ho già incontrato la traduttrice, è bravissima, traduce in diretta le domande all’autore, parlandogli a voce bassa, poi al termine della sua risposta la traduce per intero. Io sono emozionatissima. L’ansia passerà a mano a mano che mi rendo conto che Jonathan Coe è un gentleman, è attento, rispettoso, interessato, gentile, non si risparmia, nemmeno in una piccola libreria che adesso è piena di gente seduta e in piedi, e la climatizzazione non ce la fa più, dopo pochi minuti siamo tutti sudati e si soffoca, ma nessuno accenna ad andarsene.
Arabella: Sono molto emozionata di incontrarti, Jonathan. I tuoi libri, specie i primi, hanno un posto speciale nella mia vita. C’è stato un momento in cui io e tutti i miei amici li leggevamo e li rileggevamo e addirittura tra di noi ci chiamavamo “la banda dei Brocchi”, The Rotter’s Club.
Ora, però, mi vorrei concentrare sull’ultimo tuo libro, Bournville. Come già hai fatto in passato racconti una vicenda corale, con tanti personaggi. Però ce n’è uno che spicca in particolare: Mary. Ho ascoltato alcune tue interviste, e mi sembra di capire che il personaggio è ispirato a tua madre, che ti ha lasciato da qualche anno. È lei che nel libro finisce per rappresentare l’inglese che si muove nella storia, sullo sfondo di avvenimenti particolarmente importanti della storia del suo paese.
Jonathan Coe: Ok, allora innanzitutto la tecnologia, ve lo dico, non è mai stata il mio forte [dice cercando di accendere il microfono, che è già acceso, e si spegne]. Vi ringrazio per essere qui, per essere venuti numerosi in questo pomeriggio evidentemente un po’ caldo. Decisamente a Londra è un altro tipo di estate, al momento piove e c’è molto vento, quindi è stato un po’ uno shock, però ecco, ora prendo questo libro, [prende una copia di Bournville] finalmente ho trovato un buon utilizzo, lo utilizzerò come ventaglio.
Sono qui in parte per il concerto di questa sera, spero verrete numerosi. Si tratta un po’ della mia seconda vita da compositore e musicista, che per molto tempo è rimasta segreta, ma ora, grazie anche all’Artchipel Orchestra, è venuta allo scoperto. L’altro motivo per cui sono qui è per presentare il mio libro più recente, Bournville. Hai ragione quando dici che il personaggio principale, Mary, è basato per buona parte sulla figura di mia madre, Janet, che è venuta a mancare ormai circa tre anni fa, nell’estate del 2020. Non è morta di Covid, ma a causa di circostanze complicate dal Covid e noi, come molte altre famiglie nel Regno Unito e anche in altri paesi, abbiamo sofferto un po’ questo trauma dei nostri cari che sono morti da soli, in solitudine.
Durante l’anno del lockdown, il primo lockdown del 2020, nella prima metà di quell’anno stavo lavorando su due progetti. Stavo terminando il mio romanzo Io e Mr. Wilder e stavo già pensando al romanzo successivo, quello che sarebbe diventato Bournville. Quindi il progetto era un parzialmente simile a un altro dei miei libri, Middle England: ma questa volta non avrei parlato della Brexit, un tema che ho già esplorato in Middle England, avrei invece scavato un pochino più a fondo nella storia britannica recente per cercare di capire le forze o le ragioni che hanno portato a quell’evento, la Brexit.
Come dicevo, mia mamma è mancata e quindi io mi trovavo chiuso per via del lockdown, lontano come d’altronde tutti gli altri familiari. Come sapete, quando manca uno dei nostri familiari c’è molto lavoro da fare, mio padre ci aveva già lasciati, quindi mi sono ritrovato a dover liberare, svuotare la casa in cui mia madre aveva vissuto per molti anni. E quindi mi sono ritrovato, con un po’ di sorpresa, a scoprire la vita di mia madre da giovane: non sapevo molto di quella parte della sua vita quando mi sono ritrovato in una soffitta con piena di scatoloni colmi di lettere e fotografie che risalivano fino agli anni Quaranta. A quel punto il progetto che avevo è un po’ cambiato, ho deciso di scrivere qualcosa su mia madre, in particolare sulla sua giovinezza, e lì ho capito che forse avrei potuto combinarlo con il mio nuovo romanzo: ovvero scrivere della vita di mia madre dalla sua giovinezza ad oggi e allo stesso tempo scrivere della storia britannica negli stessi anni, secondo la stessa linea temporale, più o meno dalla seconda guerra mondiale a oggi.
A: In una intervista hai detto che il tuo primo romanzo era stato rifiutato dagli editori in quanto too british, troppo inglese, poi invece è uscito quello che in Italia conosciamo come La famiglia Winshaw, è piaciuto tantissimo in tutta Europa e il motivo era che era so british, così inglese.
Si può tracciare una linea di confine tra quello che è too british e quello che è so british, secondo te?
JC: Un’ottima domanda, grazie. Non ho mai veramente capito perché ma di
solito quando mi vengono poste domande che iniziano con “quanto hai detto in un’intervista” il mio cuore fa un sussulto, perché il più delle volte non l’ho mai detto! Però questa volta è vero, il mio primo libro, Donna per caso, è stato effettivamente giudicato troppo inglese. Tutti e tre i miei primi romanzi non sono stati tradotti, all’inizio, e non ho mai capito veramente perché. Scrivevo in un certo modo quasi per scusarmi di essere inglese. Mi ero fatto l’idea che per riuscire a raggiungere un pubblico internazionale fosse necessario scrivere slegandosi dalla propria cultura, nella maniera più generale possibile, per esempio evitando di scrivere storie troppo legate alla storia del proprio paese. Di fatto però è vero il contrario, e l’ho capito quando ho scritto La famiglia Winshaw, per me è stata una specie di reazione a questa idea, mi sono detto ok, questo sarà il mio libro assolutamente più britannico, il più britannico in assoluto, scriverò della storia, della politica, della cultura, della musica, dei film britannici.
Effettivamente sono riuscito ad entrare in contatto con un livello della mia scrittura molto più profondo, ho scritto in maniera più autentica, più sincera e credo che sia stato questo che mi ha permesso di entrare in connessione anche con un pubblico internazionale.
Perciò il mio consiglio, diciamo, è di non vergognarvi del vostro background, della vostra provenienza, di quello che siete, dei luoghi da dove venite, anzi usateli, è importante usarli perché vi darà un tono di voce più sincero, più autentico.
Un esempio lampante in questo senso è Elena Ferrante, non è che è letta in tutto il mondo solo perché scrive di se stessa, ma soprattutto perché usa una voce sincera ed entra così in connessione con il pubblico.
A: Hai citato La famiglia Winshaw: ci sono molti momenti, nei tuoi romanzi, in cui si avverte una forte critica dello stato delle cose, una forte critica sociale: in particolare nella storia della ricchissima famiglia Winshaw il concetto di lotta di classe esplode. E anche quando hai parlato di momenti importanti nella vita della Gran Bretagna, come in Bournville, si avverte una forma di critica Anche quando tutti si radunano davanti al televisore, o alla radio o nel caso del discorso del re, per ascoltare le stesse cose, la tua voce è sempre molto critica, sbaglio?
JC: Penso che il tono de La famiglia Winshaw sia diverso da quello che ho utilizzato in Bournville e forse è, in generale, una tendenza che si è sviluppata nei miei romanzi negli ultimi 30-40 anni. Forse è dovuto al fatto che sto cambiando come persona, forse sto anche invecchiando e direi che il tono attuale è decisamente più gentile, meno critico e meno satirico rispetto a quello che ho utilizzato ne La famiglia Winshaw. Tuttavia i miei sentimenti nei confronti della società britannica sono più o meno gli stesso, anzi forse sono ancora più arrabbiato, più innervosito. Ho scritto La famiglia Winshaw negli anni ’90 e allora non avrei mai potuto anticipare che le cose sarebbero andate in questa direzione, Scrivendo La famiglia Winshaw credevo davvero che un romanzo potesse essere una forza che cambia la società, cioè che se un autore fosse riuscito a scrivere un romanzo sufficientemente critico, sufficientemente polemico, allora molte persone sarebbero state d’accordo. Quindi io scrivevo pensando che avrei davvero potuto cambiare il pensiero delle persone, avrei potuto cambiare i loro cuori attraverso un romanzo. E invece il risultato è stato che quei cuori, quei pensieri che avrei voluto cambiare non sono stato in grado di cambiarli perché moltissime delle persone a cui io pensavo non hanno letto il libro. Quindi di recente sto cercando di scrivere i miei romanzi in un modo nuovo, con l’obiettivo, magari non in Italia, ma sicuramente nel Regno Unito, di raggiungere un pubblico più ampio, di essere in qualche modo più inclusivo, perché le persone che leggono il mio libro e che hanno opinioni e idee diverse possano essere raggiunte. Quindi non cerco di litigare con quelli che non la pensano come me, cerco invece di arrivare anche a loro, in modo che possano anche loro trovare qualcosa nei miei libri. Credo che una delle cose che abbiamo imparato negli ultimi anni sia che non si fanno passi avanti, non si promuovono le proprie idee gridando in faccia a chi non è d’accordo con noi, insultando, bensì cercando un dialogo, cercando un modo per parlare: questo è quello che sto cercando di fare.
A: Bournville ci fa scoprire una cittadina costruita da capitalisti illuminati che vogliono far vivere gli operai in condizioni dignitose, dentro case belle, con il giardino, l’orto. C’è un senso di declino che attraversa, col passare del tempo, tutto il libro: un certo punto fai dire a qualcuno che Bournville è una città modello che cerca di fermare il tempo ma non ci riesce.
JC: Nei miei romanzi ho scritto sempre del posto in cui sono cresciuto, che è Birmingham, e in particolare dei quartieri più assurdi Birmingham, ed è questo il paesaggio della mia infanzia, che è cambiato negli ultimi decenni, a partire dal 1980, con l’industrializzazione. Birmingham era una grande città industriale, in particolare c’era a Longridge un’importante industria automobilistica, centinaia di chilometri coperti da questi massicci edifici che davano impiego a migliaia di persone. Nella fine degli anni ‘80 è iniziato una sorta di declino e ad oggi non è rimasto nulla di tutto ciò, solo alcuni degli edifici che sono stati convertiti in centri commerciali, oppure alloggi… e questo processo ho iniziato a descriverlo nella mia trilogia, La Banda dei Brocchi, Il Circolo Chiuso e Middle England. Io vivevo vicino alla fabbrica di cioccolato Cadbury, che era anche vicina al Village Bournville, dove lavoravano mio nonno e moltissimi altri miei parenti, miei zii e alcuni cugini. Questa marca di cioccolato, per intenderci, se prima ho detto che l’industria automobilistica era un po’ il paesaggio della mia infanzia, beh questa marca di cioccolato è decisamente il gusto della mia infanzia. Sono rimasto molto affascinato quando di recente quando ho appreso qualcosa che molti dei britannici stessi non conoscono, perché non viene raccontato. Il cioccolato della fabbrica Cadbury è stato per tanto tempo vietato in Unione Europea e in Europa perché alcuni paesi che producevano cioccolata dicevano che il nostro non era vero cioccolato e quindi come tale non poteva essere commercializzato. Tra questi paesi che si auguravano e quindi promuovevano una guerra economica contro il cioccolato inglese – che è poi stata chiamata proprio The Chocolate War – c’erano la Francia, il Belgio, la Germania, la Spagna e sì purtroppo anche l’Italia. Dal 2016, quando in Gran Bretagna abbiamo votato per la Brexit, sono ossessionato dalle relazioni tra Regno Unito e l’Unione Europea e il resto dell’Europa.
Mi chiedo perché queste relazioni sono così complicate, così ambivalenti e quindi era chiaro per me che Bournville avrebbe avuto come tra i suoi temi principali queste relazioni. Ed è stato inevitabile parlare di questa storia, una storia di guerra, la guerra del cioccolato che non si è combattuta sui campi di battaglia con le armi ma nei dibattiti, nelle discussioni tra gente ben vestita.
A: Un’altra delle relazioni difficili di cui si parla in Bournville è quella dei due vecchi nemici Inghilterra-Germania, rappresentata anche dal momento in cui i cugini inglesi e tedeschi si riuniscono e scoppia una rissa a partire proprio da una tavoletta di cioccolato. Il cioccolato tedesco che portato in dono dal cugino viene bollato come velenoso da uno dei fratelli, scatenando addirittura una rissa, con grande tristezza del fratellino minore che trova questo cioccolato tedesco meraviglioso e avrebbe voluto solo mangiarselo in pace.
JC: Ho deciso di parlare della vita di mia madre ma non dell’intera storia della mia famiglia. Gli elementi di storia familiare che ho utilizzati sono stati, ovviamente, sviluppati, esagerati, rielaborati. E’ vero che il mio bisnonno era tedesco e c’è un’eco dell’influenza tedesca sulla mia famiglia che con le generazioni è andata sempre più scomparendo, tuttavia spesso capitava che mio padre e mia madre cucinassero piatti tipici della cucina tedesca che io trovavo strano. Quindi sicuramente ho dei cugini tedeschi ma non li ho mai incontrati e, quindi, la scena a Banfield dove i tre fratelli inglesi ricevono in visita i cugini tedeschi nel 1966, anno dei Mondiali di Calcio è inventata, è fittizia. Volevo tuttavia narrare quel momento per diverse ragioni, e una di queste è che ricordo molto bene quel momento, quell’anno. Avevo cinque anni quando si è giocata la finale dei Mondiali del 1966, non ricordo bene la partita in sé ma ricordo molto bene le emozioni che giravano intorno a quella partita. Un’altra è una conversazione durante un festival con uno scrittore francese. Eravamo a cena insieme, lui aveva appena letto Middle England e mi ha detto: “Sai, mi colpisce un po’ il tuo romanzo perché tu parli molto della tua nazione, addirittura parli dello stato della tua nazione, sei uno scrittore che parla dello stato della nazione ma non parla mai di calcio, di football.
A me il calcio non piace, vivo a pochi chilometri di distanza dallo stadio di Chelsea e non sono mai stata a una partita, tuttavia sono molto affascinato dal ricordo di quella partita, di come sia vivo questo ricordo nei fan, negli sportivi britannici ma anche nelle persone in generale, anche se non sono tifose. E’ una partita che si è giocata ormai 50 anni fa. Spesso si è detto che è stata la nostra ora migliore, questa retorica dell’ora migliore, tutta la retorica attorno a questa partita mi fa molto pensare: è stata una partita giocata solo 20 anni dopo la fine della guerra mondiale, una partita tra Germania Ovest e Gran Bretagna che ha portato con sé una retorica veramente importante. Inoltre rivela anche molto del modo in cui i britannici sono soliti dividere le persone in due categorie, vincitori e perdenti, ma vincitori assoluti e perdenti assoluti senza alcuna via di mezzo, senza alcuna sfumatura!
Lo si può riscontrare anche nel sistema politico della Gran Bretagna, dove il partito più votato è il partito vincitore, non c’è un conteggio dei voti, il partito che vince è quello che rimarrà in carica per i futuri 5 anni. E lo vediamo anche nel modo in cui è stata descritta la Brexit nel momento subito successivo al voto: di fatto è stata una vittoria molto sottile, per pochi punti percentuali, il 52% dei britannici hanno votato per lasciare l’Unione Europea e il 48% per restare, e invece nella retorica è stata presentata come una vittoria decisiva, schiacciante. E poi lo vediamo nel modo in cui si parla di questa finale dei mondiali, gli inglesi dicono “Abbiamo distrutto i tedeschi, è stata una vittoria decisiva 4 a 2”, ma in realtà, se andiamo a vedere i fatti. se potessimo rivedere oggi uno dei gol al replay del V.A.R. (Video Assistent Referee ndt) non sarebbe gol, perché la palla non aveva passato la linea. E un altro dei gol è stato segnato dopo il fischio di fine partita e quindi, di fatto, sarebbe un pareggio 2 a 2.
A: Una delle cose che ho trovato più interessanti in Bournville è l’inizio. È forse il primo romanzo che leggo che racconta il Covid; come forse sai questa città, Brescia, insieme a Bergamo ha pagato il tributo più alto di morti durante il Covid e leggere il racconto dell’inizio della pandemia e dei due i musicisti che riescono a fare le prime date e poi perdono l’ultima perché vengono raggiunti dal lockdown che chiude i locali, che sentono le notizie dall’Italia e dalla Cina, mi ha fatto riflettere sul fatto che io non ho letto nient’altro, ancora, che narrasse il Covid. Allora volevo chiederti, secondo te, nella tua opinione personale, è che è stata una cosa così surreale che non riusciamo ancora a metabolizzarla, a capirla e non siamo ancora in grado di scriverne oppure semplicemente è ancora troppo presto e arriveranno dei romanzi sul Covid?
JC: Penso che sia effettivamente troppo presto, penso che ci saranno dei romanzi che parlano magari non del Covid come tematica principale, ma che saranno ambientate durante gli anni del Covid 2020-2021. In Regno Unito è già stato pubblicato qualche libro ambientato nel lockdown oppure che si focalizza in maniera più intensa su questa tematica. In Bourneville è un po’ una cornice, all’inizio e alla fine. Tuttavia io penso che tu abbia ragione, è stato un momento difficile da elaborare per gli scrittori e per le persone in generale. Non so com’è in Italia, in particolare in questa parte d’Italia, so che avete avuto un’esperienza con il Covid molto intensa, siete stati colpiti tra i primi in maniera molto forte. Sicuramente nel Regno Unito trovo sorprendente come ancora non ci sia una narrazione unitaria condivisa su cosa era e che cosa è il Covid, su quali sono state le responsabilità: e questo perché è un tema molto complicato e anche molto politicizzato. Una cosa mi ha colpito: ho scritto delle sequenze forse troppo lunghe di eventi che ricordo molto bene, il matrimonio del Principe Carlo e Lady Diana nell’81 e poi la morte e i funerali di Diana nel 97. Mi sono reso conto che ricordavo questi momenti storici così bene, così chiaramente che non era necessaria alcuna ricerca; invece quando mi sono trovato a scrivere del lockdown della prima metà del 2020, ed erano passati solo due anni, mi sono reso conto che non riuscivo a ricordare molto di quel tempo, delle restrizioni, di come venivano gestite, di come vivevamo, l’avevo quasi cancellato dalla memoria.
Quindi ho cercato di descrivere la realtà in maniera semplice, in maniera fattuale, molto veritiera, non ho una teoria su quale fosse la cosa giusta o sbagliata da fare, non ho una teoria su come è stato il lockdown deciso da Boris Johnson, se troppo leggero o troppo pesante, sicuramente è stato diverso da quello in Italia, ho solo voluto descrivere ciò che il Governo ci ha detto di fare e come ci siamo sentiti a riguardo.
A: In questo libro spesso si parla di televisione: il discorso del re alla fine della guerra ovviamente viene trasmesso per radio, però tutto il resto che ci racconti viene visto sul televisore. Hai descritto in un modo che mi è piaciuto molto l’arrivo del primo televisore in casa, questa specie di mobile altare che troneggia in salotto. In un altro dei tuoi libri, credo Middle England racconti di quando è stata trasmessa la cerimonia d’inizio delle Olimpiadi in Inghilterra. In un altro libro ancora, che se non sbaglio è La banda dei brocchi, ricordi uno sketch televisivo natalizio di due comici e forse Benjamin pensa che in quel momento tutta la nazione sta guardando le stesse immagini, sta ridendo delle stesse cose e prova qualcosa che, dopo aver avuto in precedenza un’esperienza religiosa, è la cosa che ci si avvicina di più, un senso di unione. Tu pensi che questa cosa sia cambiata ora che forse internet è predominante rispetto a quella che un tempo era la televisione?
JC: Sì, decisamente questo è cambiato, penso che sia un tema ricorrente in tutti i miei romanzi, in particolare collega Burnville alla Banda dei Brocchi a Middle England. In tutti questi libri mi chiedo se la Gran Bretagna è effettivamente una società o solo un’assemblea di individui e richiama una delle frasi di Thatcher negli anni ‘80 che diceva che non ci sono cose come la Società. Io penso che lei lo pensasse davvero ed è anche questa una delle ragioni per cui ha iniziato a proporre a molte imprese di andare a una gestione dal pubblico a privato.
Il tentativo suo era quello di trasformare la società in una nazione di individui e questo penso sia effettivamente la storia del mio paese. Per capirla bisogna anche guardare alla storia della tecnologia e alla storia della tecnologia legata alle trasmissioni, quindi come le persone ricevono le notizie e come si connettono tra di loro. E quindi ho deciso di scrivere dell’incoronazione della regina Elisabetta II nel 1953 perché sono veramente affascinato dall’aumento enorme nell’importanza della televisione e anche nell’aumento nei dati di quante persone possedevano la tv. Moltissime l’avevano comprata o noleggiata per seguire l’evento. E quindi la situazione, come cerco di descrivere anche in questo romanzo, è quella della giornata dell’incoronazione: pensate che più o meno solo una casa, una famiglia su 4 o 5 possedeva una tv, e il giorno dell’Incoronazione i vicini, le famiglie, si sono schiacciate nei soggiorni, pensate anche a dei vicini che non si parlavano normalmente, ,a ecco, è l’Incoronazoine, la danno in TV e tutti si schiacciano nei soggiorni per riunirsi, per seguire la storia che si stava facendo. È la stessa ragione per cui ho voluto scrivere anche del matrimonio di Principe Carlo e Diana, molte persone hanno fatto la stessa cosa, cioè, oramai le tv erano più diffuse, però molte persone si sono riunite per guardare il matrimonio e in qualche modo questo evento ha riunito la Gran Bretagna stessa. Tuttavia era il 1981 e c’erano già delle nuove tecnologie che stavano nascendo, penso ad esempio al Walkman della Sony che ha fatto sì che la musica da un evento pubblico condiviso si sia potuta trasformare in un evento privato, per una persona da sola, che l’ascolta in cuffia. È lo stesso periodo in cui si diffondevano i primi videoregistratori, quindi apparecchi che permettono di registrare il programma e di rivederlo quando vuoi tu, non nello stesso tempo di altre persone, un altro fenomeno che ha frammentato. un po’ la percezione e l’esperienza di molti eventi.
La tecnologia più importante è quella del computer che allora stava entrando in uso e ormai è normalità e ha portato anche alla situazione attuale dove tutti noi abbiamo un piccolo apparecchio, il nostro smartphone, con il quale crediamo che dovrebbe quantomeno connetterci ad altre persone, tenere contatti con gli amici e invece ci sta trasformando in individui isolati che non riescono nemmeno ad avere presente quello che accade nel mondo fisico reale. Quindi ho trovato estremamente interessante come queste tre tecnologie ci hanno trasformati in individui molto più isolati, molto più ego-centrati e più lontani dalla società.
A questo punto ci sono cinquanta gradi, la gente resiste coraggiosamente ma chi può si sventola con qualcosa, ho la sensazione che perfino le copertine dei libri della librerie siano calde come toast. Vedo che la faccia gentile di Coe gronda sudore, gli porgo un fazzolettino di carta e lui si tampona la fronte ma non smette di sorridere, si arrotola anche un po’ le maniche della camicia celeste beve un po’ d’acqua che ora è tiepida, mi rendo conto. Decido di chiudere chiedendogli della sua carriera di musicista, che va alla grande, Non solo compone, ma suona, tastiera e chitarra, e adesso lo accompagna suona con una formazione jazz tra le più quotate del panorama italiano: la Artchipel Orchestra, diretta da Ferdinando Faraò, accoglie la sfida di “trasformare una musica dall’impianto British e reminiscenze progressive, con cicli melodici ed elementi jazz, in una veste orchestrale di ampio respiro con strutture e sviluppi decisamente sorprendenti”, mi spiega il flayer di Jazz On The Road.
A: Te l’avranno già detto tutti quanti, però Benjamin Trotter (personaggio, scrittore e musicista, della trilogia che comincia con La banda dei brocchi. N.d.t.) è un po’ un te che non ce l’ha fatta fino in fondo…
Sei anche, ho scoperto recentemente, un musicista! Lo sei stato da sempre, anzi hai cominciato forse a suonare prima di diventare uno scrittore e questo si capisce anche da quanto la musica è importante nei tuoi romanzi. Ed è stato uno dei motivi per cui io ho amato così tanto i tuoi romanzi.
JC: Sì, posso dire che quello che sta accadendo alla mia musica negli ultimi due o tre anni è davvero un miracolo, e soprattutto in Italia, che è l’unico paese dove ho già fatto dei live, questo è il mio quinto concerto insieme all’Artchipel Orchestra. In qualche modo è un po’ al contrario di quello che ho appena descritto, cioè del passaggio dal pubblico al privato, dal comune all’individuo E’ un po’ il contrario quello che sta accadendo con la mia musica.
Io faccio musica ormai da 40 anni, anche se non ha mai avuto molta risonanza, lo sapevano in pochi. Poi tutto è cambiato quando ho mandato una registrazione a Fernando dell’Artchipel Orchestra, semplicemente per chiedergli cosa ne pensasse, perché siamo amici e abbiamo anche dei gusti musicali molto simili: e lui invece mi ha proposto di suonare live, di fare dei concerti, quindi gli sono anche molto grato perché tutto è iniziato così.
Quindi se questa sera verrete a sentirmi, le melodie che sentirete sono scritte da me, anche se effettivamente sono diverse dalle registrazioni iniziali. Ora suono con un’orchestra di circa 20 elementi. Io suono piano, l’orchestra suona forte, quindi dovrebbe andare tutto bene. Grazie mille.
E va nel bagnetto a sciacquarsi faccia e mani, la gente barcollante lo aspetta per salutarlo, fare una foto, farsi fare un autografo. Io non ho neanche un libro: quelli che ho letto da giovane me li hanno prestati, li ho prestati, li ho persi, quelli che ho letto ora li ho presi in biblioteca. E’ un autore prolifico, ha scritto tante cose diverse, ce n’è per tutti i lettori.
Più vero di tutti gli autografi che sta facendo lui c’è quello apocrifo che abbiamo fatto noi, sulla bara di Sancho, al centro sociale, il nastro giallo della corona diceva La tua banda dei brocchi.
Stasera quest’uomo, che ha qualche anno più di me, suonerà per ore, e poi magari andrà a sfasciarsi di birra o di vini pregiati. Io andrò a casa e guarderò una serie tv con il climatizzatore acceso e le tende nere alle finestre per tenere fuori questo ultimo solo bastardo e feroce. Potevo non conoscerlo mai di persona, Jonathan Coe. E invece l’ho conosciuto e non si è rotto niente, lui è intelligente, cortese, charmant in modo assolutamente british. Gli sono molto grata. E lo dico anch’io: grazie mille.
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.