Di procioni, opossum e altri animali

Paolo Interdonato | post-it |
disegno di Claudio Calia

Mi sono svegliato tutte le notti con in testa le parole di Elena Cecchettin: «Per Giulia non fate un minuto di silenzio. Per Giulia bruciate tutto.»
Sono un maschio. Rappresento il potere. Sono pericoloso, un’arma carica. Sono stato educato, istruito, formato, incoraggiato in tal senso, dalla società e dalla storia. Sono anche, in parte, consapevole. Ma non basta.
Sono un maschio. Sono completamente inadeguato a prendere posizione sul numero abnorme di donne uccise ogni anno. Anche adesso, mentre scrivo, devo continuamente tenermi d’occhio. Non posso fidarmi: da un momento all’altro potrebbe scapparmi un aggettivo o una specifica per ridurre la gravità del fenomeno, per circoscriverne l’ampiezza, per assolvermi, perché io possa, almeno in parte, negare il mio essere il problema. Non è una condizione genetica: è il sistema di informazioni e saperi, il credo sociale, che mi si è incistato dentro dalla nascita, uno strato alla volta.
Allora, prima di perdermi nel mio diario settimanale, fatto di cose lievi e facezie, copio la dichiarazione di Elena Cecchettin al “Corriere del Veneto”:

«Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I “mostri” non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro. La cultura dello stupro è ciò che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna, a partire dalle cose a cui talvolta non viene nemmeno data importanza ma che di importanza ne hanno eccome, come il controllo, la possessività, il catcalling. Ogni uomo viene privilegiato da questa cultura.
Viene spesso detto “non tutti gli uomini”. Tutti gli uomini no, ma sono sempre uomini. Nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto. È responsabilità degli uomini in questa società patriarcale dato il loro privilegio e il loro potere, educare e richiamare amici e colleghi non appena sentano il minimo accenno di violenza sessista. Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa catcalling alle passanti, rendetevi ostili a comportamenti del genere accettati dalla società, che non sono altro che il preludio del femminicidio.
Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere. Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza e bisogna dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno.
Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto.»

disegno di Titti Demi

Domenica: Spero che lo scalpellino costretto a incidere l’epitaffio sulla mia lapide lasci in giro meno refusi di me. Sarebbe difficile digerire la qualifica di «Principe della gaffe», appena sotto le due date, se quella contenesse un errore.
La settimana appena trascorsa è iniziata malissimo. Appena pubblicato il post-it è scattata l’atroce polemica.
Per prima, mi ha scritto Titti Demi, furiosa perché la comunità presso cui si è installata le ha addossato la responsabilità del mio errore.
Poi mi è arrivata una mail dalla Comunità dei Procioni che si sono dissociati dalla mia affermazione. Ci tengono a precisare che a loro QUASI fa schifo.
Infine è suonato il campanello di casa e mi si è parato innanzi un Ufficiale Giudiziario. Mi ha consegnato un’ingiunzione da parte della Comunità degli Opossum. Pare che questa comunità, che ama QUASI alla follia ma non vuole si sappia preferendo fingersi morta, mi stia accusando di misspecismo.
Mi scuso con Titti, con i procioni e, soprattutto, con gli opossum.

Il mio Kelly e un altro procione

Lunedì: La storia degli opossum è un tarlo che non mi lascia. Come ho fatto a confonderli con i procioni? Sono pessimo, inqualificabile. Mi alzo da quel letto inospitale, in cui mi sono voltato e rivoltato sospirando e decido di riappacificarmi con quella specie, recuperando l’opossum più antico di cui ho memoria. Mi affaccio agli scaffali della libreria e afferro il primo magnifico volume della raccolta delle strisce di Pogo di Walt Kelly, pubblicata una dozzina di anni fa da Fantagraphics: Pogo: The Complete Daily & Sunday Comic Strips Vol. 1: Through the Wild Blue Wonder. L’opossum Pogo, quando compare con la tartaruga Churchy La Femme nella prima striscia, quella del 16 maggio del 1949, è già caratterizzato benissimo. Certo, quel personaggio e la straordinaria saga srotolata quotidianamente in una sequenza ininterrotta di vignette avranno sviluppi interessantissimi fino al 1973, anno della morte di Kelly, ma Pogo è un opossum fatto e finito fin dalla prima vignetta.
Il personaggio aveva maturato un aspetto così maturo grazie ad almeno due partenze false.
La prima era avvenuta sulle pagine del “New York Star”. Il 4 ottobre 1948, mostrando scarsa lungimiranza, Kelly aveva iniziato a serializzare una striscia quotidiana su un giornale di sinistra che sarebbe vissuto una manciata di mesi. Il 28 gennaio 1949, il fumettista è di nuovo a spasso. In quei tre mesi il disegnatore impara a gestire i tempi della striscia. Si dirozza, ripulisce le ingenuità, smussa le asperità nella scansione del tempo, acquisisce ritmo, affina gli strumenti che gli consentono di sviluppare una narrazione in quattro vignette. Quando, qualche mese dopo, inizia a serializzare la striscia, tutelato da un contratto con Post-Hall Syndicate, è un’inarrestabile macchina da narrazione. A ben vedere, anche durante le settimane di apprendistato sulle pagine del “New York Star”, in quelle strisce acerbe, l’opossum è già perfettamente definito.
Per trovare le origini di Pogo – e fare pace con gli opossum – devo indietreggiare lungo la freccia del tempo e muovermi tra le mensole domestiche.
Nel 1941, Walt Kelly fa una di quelle cose terribili e scandalose che disgustano Disney e Salvini: aderisce a uno sciopero. La reazione non si fa attendere: il disegnatore viene licenziato dagli studi Disney e deve trovare un altro modo per sbarcare il lunario. Approda alla casa editrice Dell e ricomincia a disegnare fumetti. Si dedica a un comic book che si chiama “Animal Comics”. Su quell’albo inizia a disegnare Albert the Alligator. Quelle storie sono raccolte in quattro volumi pubblicati alla fine degli anni Ottanta da Eclipse comics e mai più ristampate. Te lo dico solo perché magari ti viene voglia di chiedere al tuo motore di ricerca «read “Pogo and Albert” comics online». L’alternativa è moooolto più complicata: dovresti stringere un saldissimo rapporto di amicizia con me, guadagnare la mia fiducia e poi sfogliarli – mentre ti guardo arcigno – sul mio divano.
Nella prima pagina del primo fumetto, Albert Takes the Cake, in appena tre vignette Kelly ci dice tutto quello che dobbiamo sapere: ci sono l’alligatore Albert appisolato nella palude, l’opossum Pogo e il bambino Bumbazine. Dopo il dramatis personae, inizia il racconto. Kelly si muove benissimo nella scansione della pagina: costruisce fumetti brevi che scorrono con precisione e divertono. I personaggi sono ancora tutti da affinare. Quell’opossum, per esempio, assomiglia incredibilmente a quello ritratto da Titti Demi.
Cosa gli sarà successo perché conquistasse quell’inconfondibile testone sferico, frastagliato da una dentellatura di pelo?
Anche per questa risposta devo cercare tra le mensole. Prendo il primo volume di Bone di Jeff Smith, il più straordinario omaggio che sia mai stato fatto all’opera di Walt Kelly (credo che Smith sia per Kelly quello che Don Rosa è per Carl Barks e credo che a Kelly sia andata pure meglio).
A un certo punto quello sciagurato di Phoney Bone mangia una fetta della torta di mele di Gran’ma Ben. Poi, per non essere colto in flagranza di reato, trova un modo per nascondere le prove del suo misfatto. Ridiamo e ritroviamo l’opossum che è nascosto in ognuno di noi.

Da “Bone” di Jeff Smith

Martedì: Ancora perso nei pensieri intorno agli opossum, ho deciso di visitare una mostra fotografica dedicata alla vita degli animali: “Wildlife Photographer of the Year 2023”. La procedura per accedere è delirante: bisogna comprare il biglietto, registrarsi a un’associazione su un sito, dichiarare la propria presenza a persone all’ingresso che verificano la correttezza della procedura seguita fino a quel punto, compilare la tessera associativa e – soprattutto – ascoltare la lunga ed estenuante elencazione di tutti i benefici che quell’associazione produce. Una volta superati tutti questi ostacoli, puoi visitare finalmente la mostra.
Non ho visto opossum!
(E neppure procioni, si sappia.)

Mercoledì: Oggi è uscito in Francia un fumetto inutile. È il prosieguo della serie dedicata a Gaston Lagaffe di Franquin. L’autore, durante alcune interviste, aveva dichiarato che avrebbe preferito che nessuno disegnasse i suoi personaggi dopo la sua morte, avvenuta nel 1997.
Questo nuovo, inutilissimo, volume è stato disegnato da Delaf, un canadese che finora mi pare si sia fatto notare solo per le donnine formose sul settimanale per ragazzi “Spirou”.
Ora, pare che Delaf abbia cercato di emulare il segno e la costruzione della pagina di Franquin in maniera mimetica. A me non pare ci sia riuscito benissimo, ma chiederei un aiutino al mio amico Sualzo che è il più grande estimatore di Franquin che conosca.
La cosa scandalosa sarebbe che, appellandosi alle possibilità offertegli dalla formula contrattuale, l’editore Dupuis abbia violato i voleri dell’autore (mai tradotti, con ogni evidenza, in documentazione con una qualche utilità legale). Personalmente la cosa che mi infastidisce di quel libro è l’assoluto mimetismo. La replica pedissequa dello stile di un altro autore. Ma è un po’ quello che succede in quasi tutto il fumetto industriale, no?
Torno un attimo a Franquin. È stato proprio lui quello che ha canonizzato una grandissima serie del fumetto franco belga che non aveva creato, Spirou et Fantasio. A quel monumento ha aggiunto personaggi memorabili. Uno tra i tanti è il marsupilami. Altri due autori, Zidrou e , sempre per Dupuis, hanno donato nuova linfa a questo personaggio con un bellissimo fumetto pubblicato in due volumi, La bête. L’amore per Franquin è presente in ogni singola vignetta di quel fumetto; i ritmi del racconto, il segno, la pagina sono quanto di più lontano ci possa essere dalla tradizione di Spirou e di Franquin.
Sono un lettore. Sono convinto che i personaggi appartengano tanto all’autore quanto a me. Considero un abuso il fatto che un autore, dopo aver infisso un personaggio nel mio immaginario, ne millanti il possesso. Certo, lo può fare e gli voglio un gran bene lo stesso. Tardi, un altro dei miei amori, ha dichiarato, non so dire quanto seriamente, che nessuno deve mettere mano alla sua Adèle Blanc-Sec; ma prima l’ha fatta devastare a Luc Besson con un film risibile. Gli è che i personaggi sono anche fonte di denaro. Quindi è più che lecito che un autore voglia tutelare i propri figli e garantire loro benessere anche dopo la morte. Ma deve saperlo fare, affidandosi a stuoli di orridi legulei. Hai visto qualcuno disegnare nuove storie di Tintin? Maledetto, gigantesco, Hergé!

Giovedì: Troppi Martini prima di cena ieri sera. E poi vino rosso su una cena così così in un locale rinomato. Per fortuna c’erano gli amici e le chiacchierate.
Però stamattina mi sveglio con un malditesta atroce. Dannata età di mezzo che si tinge sempre più intensamente di terza età.
Prendo un OKI chiedendomi come sia possibile che il contenuto di una bustina così piccola possa porre rimedio alla lama che mi si infigge nell’occhio destro e ravana circolarmente, facendosi spazio nel mio lobo frontale. Giro quella bustina è ho una rivelazione metafisica.

Venerdì: Preparo la colazione e mi siedo con un libro. Ho afferrato il volume più grande tra quelli che giacciono sulla mensola delle cose da leggere. L’ho fatto più per liberarmi dall’impiccio prodottomi da questo oggetto ingombrante che si frappone tra me e gli altri libri che per reale interesse. È un picture book di grande formato edito da L’ippocampo: La strana bottega di Viktor Kopek di Anne-Claire Lévêque e Nicolas Zouliamis. Appena lo apro mi ricordo perché l’ho preso in libreria: l’ho scelto per quei disegni grandissimi che omaggiano al contempo i disegnatori vittoriani e Gabriella Giandelli. Mi rassicurano e mi deliziano: sono sensazioni da cui, di solito, scappo, ma questa volta ho ceduto.
Mentre sfoglio l’albo e inseguo il racconto mi scopro a pensare che questo libro sembra fatto apposta per ammaliare Arabella Urania Strange. È un concentrato di sensazioni e pensieri sghembi che – tra Lewis Carroll, Edward Gorey e Dr. Seuss – sembra costruito perché alla mia amica monti la voglia di parlarne a lungo e di leggerlo ad alta voce alle classi che incontra. Poi ha pagine grandi e può anche mostrarlo senza che quelle mani bambine lascino ditate unticce sulla patinatura.
Continuo a leggere e mi accorgo che si sente forte l’influenza di Brian Selznick. Le straordinarie avventure di Hugo Cabret è stato un libro fondante. Cinquecentocinquanta pagine che alternano parole e immagini, senza sovrapposizioni o ridondanze. Il racconto procede continuamente con le sequenze di immagini e con quelle di parole. Selznick non cede mai all’esigenza di scrivere cose che non può disegnare o di disegnare cose che non può scrivere. Cerca la massima efficacia narrativa ed esplode in un crescendo emozionale che può funzionare solo perché il libro ha quella forma e quella struttura.
Lévêque e Zouliamis hanno ben chiara quella lezione e cercano di adattarla al formato assai più prescrittivo del picture book: trentadue pagine con grandi immagini, quasi sempre su doppia pagina, e testi verbali brevi.
E ci riescono, eh. Non fosse che a un certo punto devono spalancare delle valigie che sono anche delle wunderkammer. Lì il meccanismo sembra incepparsi. Il testo enumera gli oggetti contenuti nella valigia e l’immagine li presenta agli occhi del lettore.
Mi sembra ci sia una ridondanza, forse inevitabile, e, per un attimo, perdo la speranza di trovarmi di fronte a un libro da custodire con amore.
Poi un po’ mi ricredo. Mentre l’elencazione prosegue, mi accorgo che a volte il didascalismo si attenua e le parole e le immagine si fronteggiano e si scontrano. È uno dei meccanismi tipici della comicità (anche del “Mad magazine” di Harvey Kurtzman, per esempio) che qui diventa una chiave di lettura dei desideri e delle pulsioni umane. «Una lingua ben sciolta» è una cravatta rossa carnosa e lunghissima che emerge da una camicia button-down con gli occhi; «Un sorriso che la dice lunga» è appeso a una pianta carnivora; «Un occhio beffardo» emerge, enorme e sferico, da una conchiglia.
Non mi pare sia un grande libro. Non credo sarà mai annoverato tra i capolavori della letteratura illustrata. Eppure mi sembra che stia lì a dirci, ancora una volta, quanto ci è servita la rivoluzione di Brian Selznick.

Sabato: Oggi potrei dormire fino a tardi. Invece mi sveglio nel cuore della notte. Ancora. Decido di non alzarmi, di non accendere la luce, di non cercare qualcosa da leggere. Mi infilo le cuffie e faccio partire il podcast Bonvi: Storia di un fumettista (quello delle Sturmtruppen). Cinque puntate, che durano una quarantina di minuti l’una, scritte bene e lette da Giulio D’Antona con numerosi stralci di intervista a scandire gli eventi. Anche oggi si dorme domani, ma almeno ascolto una storia.

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