Angoulême: la mia prima volta

Claudio Calia | post-it |

Sono tornato. Alla veneranda età di 47 anni appena compiuti, con una non trascurabile pervasività del fumetto nella mia esistenza, sono stato per la prima volta al Festival della Bande Dessinée di Angoulême. Vedete, ho la fortuna di poter dire di appartenere a più tribù. Solo per i fumetti potrei pensare così, a braccio, subito e mi perdoni chi mi dimentico, a QUASI ma anche a “ANTIFA!nzine”, ma anche a “Smoking Cat” quanto a… BeccoGiallo! Sono tutte relazioni forti, bande per le quali darei l’anima pure se tra loro potrebbero addirittura guardarsi con sospetto (e ci stanno anche un bel po’ di caratteri frizzantini in ballo). Ad Angoulême ci sono stato con Guido, Federico e Anna, che in questo gioco di contiguità tra attività diverse magari non si capisce, sarebbero pure le persone (non tutte, ci stanno pure Anna Chiara, Mattia, Mavi, Giacomo e Paola) con cui lavoro ogni giorno nel mio lavoro – quanto odio doverlo specificare – “vero”. Nel senso che in quel mostruoso leviatano che è l’organizzazione di una mia giornata tipo, ci sta anche che lavoro nella redazione BeccoGiallo, nello specifico per le cose che riguardano il web.
In quella che è una vita piena di conflitti di interessi, ho raccontato le vicende della truppa sui profili Instagram e Facebook della casa editrice, e in più ho avuto l’occasione di passare del tempo, molto tempo, nel padiglione dedicato alle trattative per le edizioni straniere, partecipando anche a qualche incontro per “farmi le ossa” e vedere come si fa.
Infatti, riepilogo: sono stato ad Angoulême da mercoledì mattina a venerdì mattina. Il mercoledì la fiera è chiusa, tranne il padiglione dei diritti dove con BeccoGiallo avevamo un piccolo stand al fianco di tanti editori italiani (ciao Bao! ciao Tunuè!) e stranieri. La casa editrice aveva un fitto programma di appuntamenti e, allora, per comodità ad alcuni ho partecipato anche io.
Questa parte di vicende magari è un po’ delicata da raccontare, suppongo siano cose un tantino riservate. Mi riservo la possibilità di donarvi una sola suggestione da questi incontri: provate a sussurrare a un* corean* le parole “social issues” e vedete che faccia fanno.

Il giovedì il festival ha aperto al pubblico, una marea di gente, tutt* leggono fumetti. Nel senso, tutt* leggono fumetti come leggerebbero qualunque altra cosa. In Francia non esiste la distinzione che siamo costretti a fare qui, tra lettori di fumetti e lettori “normali” per indicare quelli che i fumetti non li leggono. In edicola conto almeno quattro riviste di critica sul fumetto, cose che mi ostino a continuare a comprare anche se non leggo il francese. Faccio un giro al padiglione “dei grandi”, mi meraviglio dell’esistenza di tante edizioni per tutte le tasche di tanti libri, mi maledico perché il ritorno in aereo non mi consente di comprare (quasi) niente, lascio là con un pizzico di morte nel cuore un’edizione integrale de L’urlo del popolo di Tardi a un prezzo ridicolo (ma in francese che, lo ripeto a voi per ribadirlo a me, non leggo), e poi mi dirigo al padiglione “Il nuovo mondo”, quello amichevolmente detto “dei medio-piccoli”: qui ci stanno Zerocalcare, Sammy Harkham, Baudoin, per capirci.

Le mie convinzioni sul non comprare niente cominciano a vacillare: non comprare in francese ciò che puoi avere in italiano o in inglese, è l’imperativo. Anna mi persuade manipolandomi psicologicamente a non comprare una statuetta di The Death Ray di Daniel Clowes (era perfetto! Era piccola! Niente da leggere!), sfoglio un sacco di cose, gravito attorno a Cornelius e L’Association, parte del motivo per cui siamo qui è anche annusare l’aria e trovare novità a cui BeccoGiallo potrebbe essere potenzialmente interessata, per cui non è solo l’occhio del “bello” a guidarmi ma anche uno più cinico che si colloca tra l’efficace e il domandarsi come potrebbe andare in Italia.

Ah… poi.. Ve l’ho detta quella cosa della “vita piena di conflitti di interesse”, no? Ci sta pure che io sarei un autore di fumetti. Avrei tutto l’interesse, una volta che mi trovo nella più importante fiera del settore in Europa, a provare pure a proporre il mio lavoro. A parte l’encomiabile BeccoGiallo, eh, che lo fa per quanto riguarda i miei libri. Ma insomma, io il giovedì parto pure tutto carico, pdf del mio nuovo libro nell’iPad, socializziamo, prendiamo un po’ d’aria, andiamo a presentarmi in giro.

E m’è montata una depressione incredibile. Mi succede sempre. Speravo che l’aria francese smorzasse questo effetto che mi fanno tutte le fiere, ma niente: troppa roba, troppi stimoli, troppi libri bellissimi, cosa mi ci metto io. iPad in saccoccia, e piccolo giro di acquisti, stop velleità autoriali.

Sfoglio edizioni bellissime di storie che posseggo, nel dettaglio mi fermo ad ammirare le nuove edizioni dei fumetti di Richard Corben. Anna non lo conosce, le mostro un po’ Den, Mondo Mutante, le faccio vedere Gli spiriti dei morti, per notare il cambiamento nel tempo e mi chiede a bruciapelo: «ma cosa racconta?» E mi sono sentito preso in contropiede. Sapete perché? Anna scusa se non te l’ho detto là, sono un ragazzo lento e le cose ho bisogno di pensarle con calma (se no facevo il rap e non i fumetti). Perché in quel momento di “cosa” raccontasse Corben non me ne fregava niente. Poi, scherzo, la pillola di curiosità nerd da snocciolare su Den la trovo sempre, ma non ho mai letto Corben per il “cosa” racconta. Perché Corben, come ha tra l’altro dimostrato nel tempo, ti può raccontare Den come John Constantine o Hulk ed è… sempre Corben. Il suo fascino è nel, dannazione, non riesco a definirlo in altro modo, l’”esercizio del fumetto”. Ci sono altri autori che sono così per me e d’altronde non mi sarebbe possibile altrimenti: non leggo libri cercando conferme a quello che penso, leggo libri di persone che lavorano al fumetto con una intensità tale da potermi astrarre, anche, da quel che raccontano. Questo mi consente di avere a che fare, nei miei percorsi di lettura, con tanti punti di vista diversi, costituendo in parte quell’oblò da cui osservo la complessità del mondo.
È un po’ relativo a quel che dicevo qualche giorno fa sull’intensità, nella rivoluzione come nel fumetto, che è un fattore totalmente slegato dalla quantità. Ci sono autori che leggo per la loro intensità nell’esercizio del linguaggio del fumetto, e li leggerei pure fossimo in tre a farlo. E insomma mentre pensavo a queste cose mi sono sentito, là al padiglione de Il nuovo mondo, così vecchio, ma così vecchio, che non vi dico. O meglio, ve lo sto dicendo. C’è spazio in questo cinico mondo capitalista e baro per il genuino esercizio del fumetto? All’improvviso tutti i miei disegni mi son parsi così fuori luogo, in questo padiglione che esplode di nuove proposte, nuovi segni, nuovi modi di intendere il fumetto. Per qualche decina di minuti mi sono sentito fuori dalla Storia, proprio quella con la S maiuscola.
Chiacchiero con Anna (ehi, che poi mi dimentico: è Anna Zampatti, è anche una brava autrice) di questa sensazione, che capisce, ma lei – mi dice – reagisce a questo scoramento in un altro modo: proprio perché ci sono così tante cose belle e diverse significa che allora c’è spazio anche per la tua, di cosa. E in tutto ciò, uscendo dal padiglione, un tizio con un cappello mi saluta controluce e capisco piano piano di avere davanti… Paolo Bacilieri! Che mi racconta che è qua per una iniziativa del Comune di Milano e, dato che più che come redattore BeccoGiallo mi percepisce probabilmente come un autore (per le date e i posti in cui ci incrociamo, non me la sto tirando!), mi chiede se sto proponendo cose in giro. E gli rispondo confusamente con una sintesi di quello che stavo pensando. E lui dice qualcosa del tipo «È una sensazione che conosco, ti senti in un oceano formato da tante gocce e ti viene paura di annegare in mezzo a tutta quest’acqua». Grande Bacilieri, grazie come sempre.

In realtà poi ho avuto un sussulto di dignità dovuto tra l’altro a un caso, per cui chissà, mai dire mai, magari qualcosa l’ho seminato. Ma come millecinquecento cose per questo report rientra nell’alveo delle informazioni riservate!

L’unica cosa che dovevo fare per QUASI l’ho fatta a metà: avrei dovuto consegnare tutti i numeri della rivista a JC Menu, ma, in un giorno e mezzo, lui, allo stand, non ce l’ho proprio mai visto. Ho consegnato le cose a chi c’era, ma ho abbastanza esperienza per sapere che il loro destino è in mano a eventualità imprevedibili. Esistono le poste, cribbio! Risolveremo. E poi, e poi… ve lo ricordate il buon intento sugli acquisti?
«Non comprare in francese ciò che potresti avere in italiano o inglese».
Eccone tre, trovate l’intruso.

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(Quasi)