Dov’è scritto il capitalismo: Gli esuberati di Pennac e Tardi

Boris Battaglia | Una pietra sopra |

Nel 2017 l’Editoriale Cosmo ripropone ai lettori italiani Gli esuberati di Tardi e Pennac, già pubblicato da Feltrinelli all’inizio del secolo.
Il mese scorso Feltrinelli lo ha fatto tornare in libreria.
Al di là di false modestie, credo di essere l’unico in Italia che, purtroppo a spizzichi e bocconi (a non essere un accademico devi preoccuparti di mettere insieme pranzo e cena per tutta la famiglia, e alle tue ossessioni – cui se fossi accademico potresti dedicare corsi semestrali- devi dedicare ritagli di tempo e di spazio), sta conducendo un discorso di sistemazione critica sull’opera di Tardi.
Considerato inoltre il fatto che, personalmente, trovo ormai illeggibili per i troppi popup e le troppe pubblicità, le pagine di “Fumettologica”, mi sembra opportuno riproporre qui l’analisi critica che svolsi su quelle colonne all’uscita dell’edizione Cosmo. Che un pezzo di analisi (posso dirlo, anche se non lo sono?) marxista, su un libro critico verso il capitalismo fosse reso leggibile libero dalle sovrastrutture del capitalismo stesso (la pubblicità), mi sembrava un’azione dovuta.

«Tutto è razionale nel capitalismo, tranne il capitale o il capitalismo.»

Gilles Deleuze

Il fumetto che Jacques Tardi e Daniel Pennac realizzarono insieme diciassette anni fa, e che Editoriale Cosmo ha da poco riproposto in una nuova edizione, è solo apparentemente un’opera semplice. Come i migliori polar fornisce al lettore coordinate trasversali per decifrare la realtà. Già il titolo La Débauche, con il suo doppio senso, offre alcune coordinate di interpretazione fondamentali. Coordinate che il titolo italiano, Gli Esuberati, purtroppo perde (e che avrebbero dovuto, a mio avviso, essere recuperate da una buona introduzione). Compito della critica è (anche) ovviare a una simile mancanza da parte dell’editore (mancanza che a suo tempo fu anche – e forse più grave – di Feltrinelli) e dare al potenziale lettore di questo volume gli strumenti per fruirlo nel modo più completo. Prendetelo come un invito serioso a non sottovalutarlo: Pennac fa sempre ridere amaro, Tardi fa amareggiare sorridendo, e il risultato combinato vale la lettura.

Partiamo quindi dal titolo francese che, come accennato, si muove su due piani di significato. Da una parte il linguaggio colloquiale dove débauche ha il valore del nostro “licenziamento”, ma dall’altra quello della lingua letteraria dove débauche significa “deboscia”, “lascivia”, “depravazione”. Se la storia ha come motore la piaga sociale dei licenziamenti per esubero, uno dei personaggi principali, il poliziotto Justin, è sicuramente un libertino che sull’uso disinvolto del sesso costruisce la propria ascesa sociale. Nel titolo, quindi c’è una bella traccia di un’opera paradossale, che racconta il paradosso del capitalismo e della sua natura immorale, fondata sull’etica del lavoro ma senza garantirlo a tutti. Come scriveva John Maynard Keynes, infatti, la natura del capitalismo storico è fondata su uno scandalo: «il lavoro non è assicurato a tutti e i profitti sono divisi in modo arbitrario e iniquo». Proprio nell’ultimo capitolo della sua Teoria Generale Keynes affronta il problema della giustizia sociale all’interno della società capitalistica e sostiene siano necessari programmi che garantiscano da una parte un volume accettabile di occupazione e dall’altra una più equilibrata distribuzione della ricchezza. Per Keynes gli strumenti necessari a ottenere questo sono la riduzione dei redditi da capitale e la tassazione diretta e proporzionale del reddito.

Inizialmente keynesiano, Milton Friedman se ne allontanerà radicalmente quando nel suo saggio del ’62 (fondamento teorico di quella che sarà la “Scuola di Chicago” che tante funeste conseguenze avrà negli anni Ottanta), Capitalismo e Libertà, farà rientrare in un dispositivo antropologico di tipo aristotelico quel paradosso della natura del capitalismo stigmatizzato da Keynes. Il capitalismo è costituito soprattutto, dice Friedman, dal desiderio umano, e questo desiderio non ha limiti, figurarsi quelli morali. All’interno del capitalismo la dialettica hegeliana tra ciò che si fa e ciò che è giusto fare perde ogni senso.

I costi sociali di questo pensiero, reso pratica in Europa dal thatcherismo con scelte di politica economica assolutamente contrarie ai principi keynesiani, li stiamo pagando ancora oggi. Se Margaret Thatcher governa dal 1979 fino al 1990, nei sette anni successivi è John Major a portare comunque avanti le sue politiche. Più o meno in questo periodo, gli anni del dopo Tatcher, si colloca l’ambientazione del lavoro di Tardi e Pennac. Quando Lili e Justin escono dal cinema dove hanno visto Full Monty (film appunto del 1997), Justin le chiede come l’ha trovato e Lili, che è la voce ideologica del fumetto, risponde: contemporaneo.

Tutti sappiamo cosa racconta il film di Peter Cattaneo: un gruppo di disoccupati inglesi per tirare avanti si inventa uno spettacolo che terminerà con uno spogliarello, riempiendo con questo espediente la sala. L’importanza ideologica di questo film, che fu un notevole successo, non sta tanto nella trama, quanto nel modo in cui dimostra come il capitalismo (e quello thatcheriano in particolare) non sia tanto produttore di merci, quanto piuttosto generatore di forme di vita soggettiva. Come sosteneva Foucault, il capitalismo è un meccanismo di soggettivazione. È questo che lo rende invincibile. Perché utilizzando paradossi come quello esemplificato dal titolo francese del fumetto di cui stiamo parlando, costruisce senso chiudendo ogni dialettica con sintesi inclusive. Mentre le grandi chiese ideologiche che si sono prefissate di salvare l’umanità, come il cattolicesimo o il comunismo, costruiscono la propria ontologia su sintesi disgiuntive (il bene che si contrappone al male, il giusto che si contrappone all’errore, la libertà alla schiavitù, la povertà alla ricchezza…) e sono votate al fallimento. Il capitalismo è schizofrenico e, come ci ha insegnato Deleuze in Logica del senso, insiste sui nostri desideri senza preoccuparsi se tra essi c’è contraddizione.

Il capitalismo non ha limiti perché, come aveva intuito Marx, attraverso un complesso sistema di rapporti differenziali sposta ininterrottamente il proprio limite oltre sé stesso. Attraverso questa continua aggiunta di assiomi supplementari alla propria assiomatica, il capitalismo sfrutta la potenza produttiva del desiderio (cfr. Deleuze e Guattari, L’anti-edipo) per costruire macchine desideranti (lo spettacolo dei ballerini improvvisati di Full Monty come i dipinti di Monsieur Helas, il pittore monco degli Esuberati).

Negli Esuberati Lili (contemporanea ad Adele Blanc-Sec) si pone come esemplificazione narrativa del paradosso di queste macchine del desiderio. Paradossale è la sua natura di custode/veterinaria di quell’universo concentrazionario che è lo zoo e, al contempo, è il personaggio portatore di una delle due ideologie libertarie del fumetto e oggetto del desiderio di Justin.

Torniamo a noi. Il paradosso che costruisce senso e che rende il capitalismo imbattibile è che queste macchine desideranti sono strutture narrative, costruite sulle stesse narrazioni che al capitalismo si oppongono. La schizofrenia di questo sistema sociale ingloba tutto. Senza che le contraddizioni ideologiche ne minino la base ontologica: il desiderio stesso. I gruppi assoggettati deviano continuamente dalla propria origine di classe diventando gruppi assoggettanti (cosa esemplificata nel fumetto dal percorso di Justin) e viceversa. Che Guevara diventa marchio per magliette portate da ragazzetti obesi…

L’idea rivoluzionaria del creativo licenziato dal capitalista Lahache che potrebbe mettere in crisi il suo impero, diventa strumento narrativo per una campagna pubblicitaria a sostegno di quello stesso impero. Ma non dico altro o svelerei il meccanismo – divertente – del pretesto noir che giustifica narrativamente questa storia. E che il pretesto (la trama) sia strumento di quella perfetta macchina desiderante che è una delle invenzioni più rilevanti del capitalismo – il fumetto – lo dimostra un personaggio alla Victor Hugo come il Capitano, la cui risolutezza risolve e normalizza la vicenda. Certo, ci dicono Tardi e Pennac, quello del capitalismo non è un destino scritto nella pietra. Sta scritto, semmai, nelle storie che racconta.

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