Franquin mi ha insegnato QUASI tutto

Quasi | Visiting Professor |

di Sualzo (Antonio Vincenti)

Verso i vent’anni ho avuto, brevemente, una fidanzata di lingua madre francese e – a pensarci bene – forse è stata la cosa che ha più influito sul mio diventare fumettista. Perché per merito suo ho scoperto una serie di autori e di fumetti incredibili, di cui non avevo mai sentito nemmeno parlare, e ho imparato una lingua che mi ha permesso di poterli leggere, quei fumetti incredibili. (Aggiungiamoci poi che era anche la lingua di quello che sarebbe poi stato il primo editore di fumetti della mia carriera.)
Intendiamoci, lei era una personcina a modo e per nulla esperta di fumetti, solo che da quelle parti ti arrivavano tra le mani comunque cose notevoli. Magari mi parlava di Gotlib credendolo l’autore del solo Gai-Luron (il tenero cagnolino che leggeva sulla rivista “Pif”), ma tanto mi bastava per arrivare in breve tempo alle magnifiche perversioni di “Fluide Glacial”.
Ed è così che ho scoperto Gaston Lagaffe, indicato da lei come ricordo carino di letture bambine fatte su “Spirou”, incontrando per la prima volta il genio immenso di Franquin.
Franquin che mi ha insegnato quasi tutto sul fumetto. A partire da dove guardare quando leggo una pagina.

Osservando i fondali nelle vignette di Franquin ho capito l’importanza dei “decors” nei fumetti. Anche quando non particolarmente dettagliati o ricchi, come a volte nella cadenza settimanale delle tavole di Gaston accadeva che fosse, non c’era cosa negli elementi di sfondo che desse l’idea di essere inanimata. Ma non era un panteismo infantile che immaginava la vita nascosta degli oggetti, quanto piuttosto la sensazione che ogni cosa, dalla matita su una scrivania alla sedia, al montante di una finestra, avesse una sua vibrazione. Che pulsasse. Un po’ come la differenza che si percepisce osservando un oggetto immobile in foto e quando invece lo facciamo dal vero.
A differenza delle tavole della sua versione delle Avventure di Spirou e Fantasio, in quelle di Gaston spesso non c’è tempo per costruire tagli prospettici particolari o inquadrature cinematografiche e lo spazio scenico è quasi sempre inquadrato dallo stesso punto di vista. Molte volte pochi oggetti, una linea di battiscopa, una moquette, scarni arredi, hanno il compito di restituirci la brulicante vita di redazione nella quale si svolgono le vicende. Ma non c’è nessuno di quegli elementi fermi lì in secondo piano che non sembri sull’attenti per essere chiamato da un momento all’altro a diventare parte integrante della storia. Gaston e gli altri personaggi sono prima di tutto ciò di cui sono circondati, ciò in cui sono immersi.
Basta osservare le automobili che guidano per capire al volo questo ragionamento.

Un’altra cosa importantissima che mi ha insegnato è chiedersi subito di che cosa siano fatti i personaggi che vuoi disegnare.
Il segno dei personaggi di Franquin me li fa percepire come fossero fatti di gomma dura, ma plasmabile. Un ricordo di infanzia di quei pupazzi con l’anima di filo di ferro che, se abilmente manipolati, potevano assumere qualsiasi posa, anche le più realistiche.
Una linea chiara messa in un frullatore pieno di fuliggine che la restituisce in tutte le sue potenzialità, ma spogliata di quella patina di antico. Nel disegno di Franquin le pose esagerate, le deformazioni non sono percepite come tali, come nei cartoon classici. Non sono un’iperbole quanto piuttosto una constatazione di come è la realtà, una presa di coscienza che – davvero – da vicino nessuno è normale. Per questo io leggo il suo disegno come espressione di un realismo quasi estremo ma capace di svelare ciò che nella realtà noi non cogliamo mai. Cosa che diviene lampante quando introduce l’uso delle campiture nere, che non sono mai soluzioni di comodo – per velocizzare nascondendo – ma lenti di ingrandimento.

L’ultima importante cosa che Franquin mi ha insegnato è che pensare di “resuscitare” lo spirito di un autore riproducendo fedelmente (fotograficamente) il contorno esterno dei personaggi e degli oggetti, senza considerare di cosa sia veramente espressione, senza capire che è l’affiorato di un processo lunghissimo e personalissimo, è un’attività totalmente insensata. Ed è il motivo per cui su Gaston non si riesce (non riusciva neanche a loro) a distinguere le parti fatte da Franquin da quelle fatte dall’assistente Jidéhem.

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