Le verità supposte di I Am A Hero di Kengo Hanazawa

Paolo Interdonato | post-it |

È giunto il momento di fare i conti con tre luoghi comuni sui manga. Si tratta di tre verità supposte dalle quali è proprio difficile staccarsi. Fortunatamente sono devoto agli insegnamenti che la spiritista Norma elargiva con somma magnanimità al principe De Curtis: «La verità non fa male. È il dubbio, l’incertezza, che tormenta l’anima. Nella vita e nella morte, ci sono le cose vere e le cose supposte. Le cose vere mettiamole da parte… ma le supposte… le supposte dove le mettiamo?»

La prima: «In Giappone, tutti leggono fumetti!»

Per un certo periodo della mia vita, ho partecipato ai progetti di armonizzazione tecnologica di una multinazionale di telefonia. Si trattava di definire, regole, standard e prassi d’uso di alcune tecnologie distribuite in una ventina di sedi nazionali. Lavoravo in Germania, in Portogallo e in Inghilterra e partecipavo a riunioni inconcludenti e a workshop senza profitto, biascicando un inglese stentato a persone che facevano altrettanto.
La cosa più difficile era gestire la socialità durante i pranzi e le cene. Se normalmente non sono un mago dell’affabilità, quando uso il mio “survival kit” linguistico e massacro la lingua che fu di Cormac McCarthy, va anche peggio. Ricordo che, per accorciare le distanze con i referenti nipponici, sicuro di trovare comprensione e simpatia, dichiaravo il mio grande amore per i manga. In tutta risposta, il campione statistico interpellato (decisamente non significativo, ma non certo minuscolo) mi diceva: «Ah… anche io… per un po’… poi sono diventato adulto e ho smesso».

La seconda: «L’articolazione dell’offerta del manga è così vasta da garantire l’esistenza di un prodotto destinato alle specificità di ciascun potenziale lettore».

Quando sento dire questa cosa, devo tirare un’inchiodata, lasciando due dita di lingua sul palato. Lo faccio solo perché sennò il mio interlocutore, mica sempre più giovane di me, mi dice che sono un boomer, spaventato dalla straordinaria novità del manga.
Oggi questa verità supposta me la sto dicendo da solo e, nell’artificio retorico, posso permettermi una risposta greve: «Ma che cazzo farnetichi? Va’ a fare in culo te e tutte le nicchie di interessi iperspecialistici! Scusami, non ho tempo da perdere: cerco bellezza e temi così universali da toccarmi nel profondo come individuo».
Il manga ha una segmentazione finissima dei pubblici, per genere, età, interessi, orientamenti…Im Giappone ne vengono pubblicati tantissimi. E pure in Italia.
Tanto per il manga quanto per qualsiasi altro prodotto dell’ingegno umano (o di una sua simulazione artificiale) vale “la legge di Sturgeon”:  «Il novanta per cento di tutto è pattume!»
Considero Theodore Sturgeon un ottimista. La percentuale di pattume è molto più alta. Tutta quella spazzatura “made in Japan” nelle librerie italiche occupa preziosi metri quadri che potrebbero essere riservati a potenziale spazzatura autoctona o proveniente da altri paesi.
A chi interessa la denominazione di origine della spazzatura? A nessuno: bucce di banana marcescenti, preservativi usati, fazzoletti di carta smocciolati e  cartacce unte fanno schifo, indipendentemente dalla provenienza. C’è però un paradosso: se gli autori di un paese hanno meno spazio per esprimersi, hanno anche meno spazio per sbagliare e per maturare: la loro percentuale di spazzatura sarà necessariamente più alta.
Se vuoi fare fumetti di mestiere, dovresti comprare solo i manga belli e boicottare tutto quel pattume. Se, invece, ti piace e sei convinto che quella roba sta parlando proprio con te, scusami sono un boomer, spaventato dalla straordinaria novità del manga. Però, per favore, non leggere più (Quasi).

La terza: «Nei manga, la quantità di tempo nascosta nello spazio bianco, tra una vignetta e la successiva, è decisamente inferiore alla corrispondente nel fumetto occidentale, per questo li si legge così in fretta».

Questa cosa è falsa. Di solito, chi la dice aggiunge che, siccome i ritmi delle produzioni animate nipponiche hanno abbattuto il numero di disegni per secondo, tra manga e anime c’è un’incredibile prossimità ritmica. Quella è gente che trascorre sulla pagina di un fumetto il tempo esatto per leggere tutte le paroline scarabocchiate nei balloon e – che sia maledetta – è responsabile del fatto che spesso quello dello sceneggiatore è considerato un lavoro rispettabile, in particolar modo quando quell’individuo scrive bei dialoghi, roridi di senso e narrazione.


Adesso che ci siamo liberati delle cose vere e abbiamo deciso dove mettere le supposte, posso raccontarti di I Am A Hero di  Kengo Hanazawa.
Una delle verità (supposte) di cui la serialità giapponese si avvantaggia rispetto a quella occidentale è il suo essere limitata. La storia, presto o tardi, finisce. Quella di I Am A Hero si conclude dopo ventidue volumi. A 220 tavole a volume fanno 4.840 pagine di fumetto. Secondo me neppure la più longeva tra le serie francesi arriva a 4.000 pagine. Vabbè… ma non è questo il punto. Sono un lettore pigro ed è proprio difficile che riesca a leggere fino in fondo un manga. Di solito, dopo un paio di migliaia di pagine, capitolo stremato. Magari continuo a comprare ogni nuovo volume, ma poi mi limito a sfogliarlo e a guardarlo, passandoci sopra un sacco di tempo, indifferente alle parole se non per la loro distribuzione nella pagina.

Le cose che realmente mi affascinano sono le costruzioni delle pagine e dei mondi. La “legge di Sturgeon” ha un complemento sottointeso che dice che il dieci per cento di tutto non è pattume. Là in mezzo ci sono perle di vera bellezza: «Non son l’uno per cento, ma credetemi esistono».
I Am A Hero racconta di un assistente mangaka frustrato e in balia di crisi psicotiche che, all’improvviso, si ritrova a dover sopravvivere alla consueta apocalisse zombi.
Oh… non c’è niente di male: lo zombi è un topos meraviglioso. Metafore a gogò, dai tempi del supermercato di Romero: il contagio stupido contrapposto al morso romantico del vampiro, la putrescenza che non si interrompe, la simulazione della vita, la morte priva di fascino, il terrore della nostra esistenza che prosegue indifferente al desiderio, «andare, camminare, lavorare», come ordinava Piero Ciampi, o, di recente, «Mangia dormi lavora ripeti», come cantano i La Crus.

Ecco, I Am A Hero si muove in quel territorio. Sono andato avanti per un migliaio di pagine, godendone tantissimo e terrorizzato dalla possibilità che si trasformasse nel trattatello sulla ricostruzione della civiltà e sull’incapacità dell’autogestione in assenza di un uomo solo al comando. Mi avrebbe dato un enorme fastidio che la trama zombi volgesse a The Walking Dead ed emergesse in pieno la natura adolescenziale della narrativa di genere e del fumetto: quando succede – e ormai è uno standard narrativo – la vicenda, fingendo di strizzare l’occhio a Il signore delle mosche, diventa fascisteria ed elogio delle forze dell’ordine.

Per fortuna che, al contrario di The Walking Dead, I Am A Hero è un fumetto. Ed è pure raccontato meravigliosamente da un tipo che lo sa fare. Niente scansione della narrazione ricorrendo alla simulazione di scene televisive e niente disegno legnosetto con inquadratura e ritmi da piccolo schermo (depotenziato, perché privo dell’illusione di movimento e dei suoni).

Mica ce la faccio a leggere I Am A Hero. Ogni volta che ne trovo un numero, ci provo. Cerco di andare avanti in quella storia di zombi ma mi distraggo: di quei morti viventi non mi frega più nulla da quando Edgar Wright, nel 2004 con L’alba dei morti dementi, ha portato il topos in un nuovo territorio dal quale nessuno pare essere in grado di spostarlo.

Guarda quelle pagine. Guarda quei personaggi. Guarda quel movimento.

Hai presente le tre verità supposte di cui ti dicevo all’inizio. Ecco: I Am A Hero di Kengo Hanazawa sta lì a dirci che, nonostante la montagna di sciocchezze che continuano a raccontarci i lettori, gli amanti e i detrattori del manga (inteso come sistema narrativo onnicomprensivo), quando incappiamo in un fumetto (non un’emulazione televisiva confezionata in albi venduti come fumetto), di leggere quella storia ce ne può fregare pochissimo. Ci basta guardarlo.

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