(l’iperbolico e trionfante dicembre di Arabella Strange)
Il 2024 per me finisce trionfalmente: con 4 giorni passati a letto a guardare tutti i film che non ho visto durante l’anno, perché, lo ammetto, guardo ormai solo serie tv.
Mi rendo conto che nessuna delle esperienze visive che mi hanno segnato appartiene al regno del reale. Mi domando anche se per me il genere fantastico sia l’unico modo possibile per avvicinarmi al reale e in particolare al realismo capitalista nelle sue manifestazioni più dolorose: l’idiozia umana, il disastro ambientale, la sofferenza della mente, l’inferno che abbiamo costruito. Aggiungo la transitorietà della vita, che non c’entra col capitalismo, ma che di certo il capitalismo contribuisce a rendere penosa e impensabile, se non in forma di spettacolarizzazione della morte.

Comincio subito da una serie tv: quest’anno è finita What We Do in the Shadows, trasmessa per la prima volta su FX il 27 marzo 2019 e terminata, con una sesta e ultima stagione, il 16 dicembre scorso. È parte di un piccolo franchise creata da Jemaine Clement, uno straordinario attore-comico-musicista-regista- produttore che io ho incontrato per la prima volta in Flight of the Conchords, piccola gemma indie della fine degli anni Zero, che racconta le avventure minime e surreali dell’omonimo duo musicale neozelandese (Jemaine Clements e Bret McKenzie) a New York. Comedy perfetta con due attori straordinari e canzoni indimenticabili, come The Humans Are Dead. È lì che ho imparatoche i Kiwi (i neozelandesi) odiano gli Aussie (gli australiani) e pronunciano la “E” come una “I” (tipo “going to bid”). Quando Jemaine (sì, lo amo e lo chiamo per nome) ha interpretato, diretto e prodotto un mockumentary su tre vampiri che vivono come coinquilini in un appartamento, l’ho guardato con la trepidazione di chi guarda un figlio fare il saggio di flauto e ha paura che stoni, e invece il film è esilarante e mi sono divertita moltissimo.
Apro qui una triste pagina: i film che piacciono a me di solito non li guarda nessuno che conosco. Vivo una vita di solitudine postando su Reddit, perché, se sei una bipolare che entra in leggera ipomania ogni volta che legge o guarda qualcosa che ti piace, è veramente dura quando nessuno dei tuoi amici ascolta i tuoi consigli. Probabilmente molto insistenti (che ci sia un nesso tra le due cose?).
Quindi credo di conoscere una sola persona che ha visto questo film e ha guardato la serie che ne è stata tratta e non abitiamo neanche nella stessa città.
Comunque, la serie è girata come un documentario – un mockumentary – su quattro vampiri: Nador The Relentless (Kayvan Novak) , Lazlo Cravensworth (Matt Berr), sua moglie Nadja (Natasia Demetriou) e Colin Robinson (Mark Proksch) che vivono insieme in una vecchia casa a Staten Island, con il famiglio di uno di loro, l’aspirante vampiro Guillermo de la Cruz (Harvey Guillén). La serie ha lo stesso titolo del film ma il cast è diverso e quindi io naturalmente sono entrata in apprensione da saggio di flauto. Invece, wow!, gli attori sono formidabili, e Kayvan (sì, lo amo e lo chiamo per nome) è diventato il mio salvaschermo.

I classici tropes del manuale “horror sottogenere vampiri” ci sono tutti, ma sempre con grazia e intelligenza. Alcune invenzioni sono inaspettate: la bambola abitata dal fantasma umano della vampira Nadja che la pensa sempre come lei e diventa parte della famiglia; Colin Robinson, il vampiro dell’energia che non ti succhia il sangue ma ti sfinisce con discorsi ovvi e noiosissimi; la pansessualità infantile e inevitabile di individui che vivono da centinaia di anni (peraltro Lazlo è stato anche un attore di film pornografici); la dinamica di sfruttamento tra Nandor, il guerriero sanguinario dell’impero ottomano, e il famiglio latino Guillermo, chiaramente innamorato di lui, per cui alla fine ha ragione Hegel, e Nandor dipende totalmente da lui. Il momento in cui si insinuano in uno studio finanziario per aiutare Guillermo a fare carriera ma finiscono per smontare, senza nemmeno volerlo, quel giocattolo turbocapitalista, perché le logiche del profitto e del successo sono al massimo una recita con dei costumi buffi, un gioco divertente fino a che non si annoiano.
La gente, ovviamente, muore a mucchi ma nessuno se ne accorge (chiamiamola Convenzione di Sunnydale) anche se ogni notte il mite e frustrato Guilermo scava nuove fosse in giardino. Siccome però l’espediente è quello del documentario, e, anche se ce ne dimentichiamo continuamente, c’è sempre una troupe che riprende quando i vampiri ammazzano qualcuno per mangiarlo o perché dà loro noia. Poi il tecnico del suono entra nell’inquadratura. Oppure uno dei protagonisti rompe la quarta parete e chiede se può rifare la scena.
Sei stagione piene di idee: non tutti gli episodi ovviamente sono dei 10, ma direi che What We Do in the Shadows, non scende mai sotto il 7; e gli 8 e i 9 si sprecano. Ho pianto un po’ quando è finita. Continuo a dire «citteeyy» e «fucckkingguy».
Per fortuna, ho scoperto che il franchise comprende le due stagioni di Wellington Paranormal, in cui gli agenti O’Leary e Minogue, guidati dal sergente Maaka, indagano fenomeni inspiegabili in una piccolissima cittadina neozelandese. E di solito non lo notano, perché stanno litigando su chi deve tenere il taser (O’Leary, perché Minogue si fa male). Mi mancava quella “E” pronunciata “I”.

Poi: ho ricominciato a guardare Buffy. È la quinta volta. Ne parlerò a lungo su (Quasi), ovviamente. Ma ci tornerò anche fra poco.
Allora, i film. Ne avrò guardati venti in una settimana. Erano quasi tutti horror, quindi devo ringraziare un amico (le cui inziali sono PI) se ho visto anche Flow.

Temevo fosse in francese (è una animazione coprodotta da Lituania, Francia e Belgio) e invece non c’è un suono umano in tutto il film. Noi umani non ci siamo più. Abbiamo lasciato delle tracce – una casetta piena di sculture di gatti, rovine di palazzi, una gigantesca statua di Bodhisattva, sembra di essere in estremo oriente tranne quando compaiono dei palazzi sui canali come a Glantri di Dungeons & Dragons – ma sono irrilevanti. Il mondo è verde, gli animali si muovono indisturbati.
Ci siamo appena abituati a questa cornice postumana, quando improvvisamente arriva l’acqua. Forse è crollata la diga più grande del mondo, forse è un diluvio senza pioggia, ma l’acqua sommerge ogni cosa, e continua a salire.
Flow è diretto dal regista lituano Gints Zibalodis, che lo ha anche scritto insieme a Matīss Kaža. È andato a Cannes nella sezione “Un certain regarde”e ha preso moltissimi premi.
C’è un gatto nero. È la più bella animazione di gatto che io abbia mai visto, a pari merito con il gatto tigrato de La valse triste di Sibelius in Allegro non troppo di Bruno Bozzetto, uno strumento di animazione di 6 minuti che uso dal 1976 per piangere quando è tutto terribile e le lacrime si bloccano.
Il gatto nero si mette al riparo su una barca insieme a un capibara. A mano a mano che la barca si inoltra nel deserto d’acqua si aggiungeranno: un labrador, un lemure e un Sagittarius Serpentarius (che è comunemente chiamato serpentario o, anche, uccello segretario ed è un uccello bianco che ha più di 2 metri di apertura alare). Questa piccola arca senza Noè galleggia, beccheggia, si incastra, si libera, rischia la distruzione per quasi tutti gli 85 minuti del film, e io mi sono aggrappata per tutto il tempo alla classificazione “family”, perché non moriranno mica degli animali in un film per famiglie?
Non è così semplice.
Poetico è una parola che uso spesso quando parlo di un film che mi è piaciuto. Una altra è straordinario. Aggiungo magico, mescolo, e verso in una coppa di cristallo questo liquido scintillante. Ci sono vari momenti in cui ho avuto le lacrime agli occhi.
Ognuno degli animali, a un certo punto, romperà il determinismo dell’istinto per salvare una famiglia che nasce casualmente, come tutte le famiglie, ma diventa, un pezzetto per volta, un’alleanza e una scelta. Di sopravvivenza prima, di amore poi.
Il gatto sprofonderà nell’acqua, e nel cielo, e se non fosse che il silenzio è rotto solo dai versi degli animali e dal rumore dell’acqua direi che c’è una canzone di fondo, qualcosa che parla della vita e della morte e poi uno continua a cantarla tra sé per molto tempo, dopo.
Il film che ho riguardato più volte, a distanza di pochi giorni, è I Saw The Tv Glow di Jane Schoenbrun, che credo sia stato tradotto come Ho visto la tv brillare. Le recensioni degli spettatori parlavano di un film noioso che è classificato come horror ma non lo è. Palate di recensioni negative. A me è bastato vedere l’immagine del poster del film per decidere che volevo vederlo con i miei occhi, e… dio mio! Mentre scrivo sto ascoltano a ripetizione Psychic Wound di King Woman, e grazie Jane (sì, la amo e la chiamo per nome) per aver scritto e girato questo film.
Su Reddit, dove sono subito corsa per sfogare la mia esaltazione, ci sono tre conversazioni fondamentali in corso sul senso del film. È un film sulla disforia di genere – lo dice Jane e gli indizi visivi si individuano con facilità. È un film sulla disforia in genere – moltissime persone non neurodivergenti l’hanno amato, perché trasuda l’orrore di una realtà che tutti sembrano trovare normale ma non funziona, suona strana come un filmato con l’audio sfasato. È un fantasy horror, ed è in questo modo che l’ho guardato la terza volta: mi ha ricordato l’atmosfera di uno dei racconti che ho amato di più nella mia vita, Magia per principianti di Kelly Link. Io l’ho letto in Magic for beginners ma dovrebbe essere incluso nella raccolta Piccoli mostri da incubo. Se non conoscete Kelly Link e vi piacciono i racconti strani, che sembrano sogni, che lasciano addosso un pizzicorino tra il fastidioso e il piacevole – immaginate qualcuno che vi sfiora la nuca – procuratevi i suoi libri. Anche Link aveva scritto di una serie tv che lascia una scia di briciole di pane nella realtà, e il fandom, composto da queste creature strane e spesso troppo intense, le nota in tempo, e decide se seguirle o no. Uno, due, tre, devi decidere. Se sei fortunato, qualcuno torna indietro a recuperarti.
È quello che succede a Owen nel film. Se Magia per principianti è fondamentalmente un racconto felice, I Saw The TV Glow è un film che trabocca di angoscia, meraviglia e rimpianto.
È prodotto da A24 e si vede. Già la prima inquadratura definisce chiaramente lo stile visivo: una strada si allunga davanti a noi, nel crepuscolo dei suburbi. Sull’asfalto qualcuno ha disegnato qualcosa, una mappa, un messaggio, con dei gessetti che brillano, colorati e fosforescenti.
Stacco.
Scorre il trailer di una serie TV, «nel prossimo episodio di The Pink Opaque…», e un bambino guarda scorrere le immagini a bocca aperta, seduto davanti alla tele.
Stacco.
Parte Anthems For A Seventeen Year-Old Girl (cover di Yeule del pezzo dei Broken Social Scene) mentre il bambino sfiora la seta sottile di una cupola colorata che si sta gonfiando nella palestra di una scuola. Un istante sospeso, poi la cupola si affloscia su di lui, e anche se accade con la delicatezza di un sogno a occhi aperti ci ripenseremo quando vedremo il bambino seduto davanti alla televisione, imprigionato per sempre in una palla di vetro con la neve.
Stacco.
Crepitio di canale morto, e compare il titolo: neon rosa e blu, i due colori del film. Il rosa è buono, il blu è malvagio – siamo comunque in una fiaba horror fantasy. Il rosa è il coraggio, il blu è una spaventosa e infinita tristezza.
La serialità televisiva degli anni Novanta del secolo scorso, l’epoca d’oro della televisione, gioca una parte fondamentale nel sistema di riferimenti di questo film. Soprattutto Buffy the Vampire Slayer di Joss Whedon è costantemente sottotraccia: compare addirittura Amber Benson a un certo punto, e io, satura come sono di citazioni implicite, la prima volta ho urlato per l’entusiasmo.

È il 1996 quando Owen (Ian Foreman e Justice Smith) e Maddie (Bridgette Lundy-Paine) si incontrano la prima volta. Lui in settima classe, lei in nona. Due ragazzini disadattati che parlano di una serie TV, The Pink Opaque. Cinque stagioni che i due ossessivamente riguardano. Anche se va in onda alla fine delle trasmissioni sul canale Giovani Adulti, appena prima che comincino le repliche in bianco e nero, non è per bambini, dice Maddie con durezza «è troppo spaventosa, e ha una mitologia troppo complicata».
Il Big Bad di The Pink Opaque è Mister Melancoly, che altera il tempo e lo spazio per dominare il mondo.
Contro di lui, e contro i diversi Monster of the Week, combatte The Pink Opaque, una minuscola formazione di guerriere psichiche formata dalle due amiche Tara e Isabel. «Sembra più reale della vita vera», dice Maddie. La vita vera, questa realtà sempre più agghiacciante, è un incantesimo di Mr. Melancholy per intrappolare Tara e Isabel in un sogno infinito.
Maddie cercherà di spiegare a Owen, anni dopo, che Tara e Isabel sono loro, e che lei è tornata per salvarlo. Si è fatta seppellire viva per transitare dall’altra parte, nella serie TV, e – mentre King Woman sugli accordi più pesanti e bui dell’universo urla di una ferita psichica – dice: «E finalmente ero di nuovo me stessa, ed era il primo episodio della stagione 6».

I Saw The TV Glow è una di quelle narrazioni che per 100 minuti ti sprofondano in un altro universo. In cui la differenza tra reale e irreale diventa una questione di senso, di coscienza. Mark Fisher scriveva da qualche parte che il realismo capitalista non c’entra con la realtà, perché per esempio cosa c’è di più reale del cambiamento climatico, e di più irrealistico del rifiuto, per ragioni legate al profitto, di modificare gli stili di produzione che stanno distruggendo l’habitat umano?
Il film è costato 10 milioni di dollari, ne ha incassati la metà. Per quanto tempo potrete vederlo prima che venga inghiottito, appunto, dal realismo capitalista, non lo so. Davvero, ho l’impressione che sia piaciuto solo a me, a qualche critico e ai 4.100 membri di r/isawthetvglow, di cui in questo momento 6 sono on line (e ursus_amricanus4 ha pubblicato lo sticker autoprodotto di The Pink Opaque: ragazzə, vi amo).

Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.