Non per la gloria: I partigièn di Nino Pedretti

Ginevra Gambi | post-it |

A 80 anni dalla Liberazione dal nazifascismo, i venti di morte e distruzione fischiano ancora. In Occidente l’ultradestra ascende senza che le cosiddette democrazie liberali siano in grado di impedirlo, esattamente come tollerano e/o sostengono il genocidio in Palestina. Nel frattempo, l’Unione Europea spinge per il riarmo in (presunta) funzione anti-Russia, scialacquando miliardi di euro. Purtroppo negli ultimi tre anni mi è capitato spesso di incrociare chi, imbevutə di propaganda bellicista, paragona questa corsa verso l’annientamento collettivo a ciò che è stata la Resistenza in Italia… Un movimento dal basso, clandestino e soprattutto volontario, portato avanti da persone tutt’altro che entusiaste di imbracciare un fucile, quando si ritrovarono a farlo (del resto la lotta non fu soltanto armata). Credo che la risposta migliore a certe strumentalizzazioni stia nelle parole di Giovanni Maria Pedretti, detto Nino, poeta e traduttore nato a Santarcangelo di Romagna nel 1923. Fu cantore della gente comune e delle piccole cose, senza rinunciare alla protesta sociale. Chiamato ad arruolarsi a Trieste nel 1942, riuscì a fuggire dopo l’8 settembre 1943, e non aveva dubbi su cosa pensare della guerra. Qui di seguito il testo di I partigièn (I partigiani), tratta dalla sua raccolta Al Vòuṣi e altre poesie in dialetto romagnolo.

Buon 25 aprile a tuttə. Affinché la Liberazione non sia solo memoria, ma scintilla.

U n’è par véa dla glória
sa sém andè in muntagna
A fè la guèra.
Ad guèra a sémi stóff,
ad patria ènca.
Evémi bṣògn ad déi:
lasés al mèni lébri,
i pi, i ócc, agli uréci;
lasés durméi te fén
s’una ragaza.
Par quèst avém sparè
a’s sém fatt impiché
a sém andè e’ mazèll
pianzénd te còr
e al labri ch’al treméva.
Mò ènca acsè a savémi
che a pèt d’un bòia d’un fascésta,
nèun a sémi ẓénta
e lòu del mariunèti.
E adès ch’a sém mórt
nu rumpéis i quaiéun
sal cerimóni,
pansé piutòst mi véiv
ch’i n’apa da pérd ènca lòu
la giovinèza.
Non per ragioni di gloria
andammo in montagna
a far la guerra.
Di guerra eravamo stufi
di patria anche.
Avevamo bisogno di dire:
lasciateci le mani libere,
i piedi, gli occhi, le orecchie;
lasciateci dormire nel fienile
con una ragazza.
Per questo abbiamo sparato
ci siamo fatti impiccare
siamo andati al macello
piangendo nel cuore
con le labbra tremanti.
Ma anche così sapevamo
che di fronte ad un boia di fascista,
noi eravamo persone,
e loro marionette.
E adesso che siamo morti
non rompeteci i coglioni
con le cerimonie,
pensate piuttosto ai vivi
che non abbiano a perdere anche loro
la giovinezza.
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