Capitolo decimo – Nonostante i toscani
Capitolo decimo di dodici. Dove cerco di spiegarti con le mie limitate capacità, e soprattutto cerco di spiegarlo ai fiorentini, che il fatto che la città in cui è ambientato un film che parla della, necessariamente, solitaria attesa di ciascuno di noi che venga eseguita quella sentenza di morte cui siamo condannati dal momento stesso in cui nasciamo, sia Firenze, forse non è una cosa di cui – come fiorentini- andare molto fieri. Poi, fai tu.
Se hai letto i nove precedenti capitoli di questo… sai che non so come chiamarlo?! Potrebbe essere definito come un saggio, ma quella è roba che scrivono gli accademici e poi pagano case editrici con comitati editoriali più numerosi dei loro lettori, per essere pubblicati… non lo so, io – pur avendo più pubblicazioni della loro media – non ce l’ho la faccia da accademico, non devo far concorsi e la ricerca la faccio a spese mie. Però adesso ricapitoliamo. Facciamo così: quello che ho scritto fino ad adesso su Amici miei, chiamiamolo “’sta roba”, e ripartiamo dall’inizio del capitolo.
Se hai letto i nove precedenti capitoli di ‘sta roba che ho scritto sul film Amici miei, avrai capito che di tutti i personaggi che abbiamo incontrato sono pochi quelli che mi piacciono davvero. Per dirti. Il protagonista effettivo di questa storia, Mario Monicelli, per quanto lo ritenga uno dei migliori registi della sua generazione e condivida buona parte della sua visione estetico-ideologica (ci ho dedicato due capitoli mica per niente), mi sta umanamente sul cazzo. L’impressione che ne ho, dalle ricerche che ho fatto, è che fosse un tipo stronzissimo ed esageratamente egoriferito, quasi a livello patologico. Uno di cui non mi frega niente di non averlo mai incontrato. Invece ci sono quelli che avrei voluto conoscere e di cui se ne scrivessi la biografia me ne innamoreri, come Cesare Civita, come Giorgio Monicelli, come Pietro Germi, ma soprattutto come Ugo Tognazzi.

Se tra i cinque amici del film ne dovessi trovare uno con cui identificarmi, sarebbe – senza alcun dubbio – per freddezza emotiva, professionalità, logica e quel sadismo che non guasta, Alfeo Sassaroli. Ma quello che invece vorrei essere, sapendo che è un desiderio impossibile – ma questo è il bello – è il conte Lello Mascetti.

Sembra, ma sottolineo sembra, perché come ti ho già detto, il credito da concedere agli sceneggiatori – gente abituata a raccontar balle – è minimo e questa cosa la racconta Piero De Bernardi (uno degli sceneggiatori accreditati del film) nel libro intervista di Fabrizio Borghini e Jacopo Nesti, Cari amici miei… insomma, sembra che a inspirare la figura del conte Mascetti, sia stato un conte esistito per davvero: Raffaello Pacini, erede di una nobile famiglia pistoiese, da secoli produttrice di vini. Nelle mie ricerche non ho trovato nessuna famiglia Pacini produttrice di vini in quella zona della toscana, comunque secondo quanto racconta De Bernardi, questo nobile rampollo avrebbe dilapidato il proprio patrimonio durante un viaggio di nozze durato un anno e mezzo. Rimasto senza un soldo sarebbe tornato a Pistoia solo con un orso al guinzaglio.

Richard Laymon è stato uno scrittore horror dalla prosa scadente ma dalle idee geniali. Lo amo da quando l’ho incontrato la prima volta, nel numero 964 di “Urania” del febbraio 1984 (d’accordo, Giorgio Monicelli non dirigeva più la collana da 23 anni, ed era morto da 16, ma come vedi un sottile filo rosso tiene insieme comunque tutto quello che ti sto raccontando). Il titolo del romanzetto di Laymon era La casa della bestia – scritto male e coerentemente tradotto male (secondo il dictat della coppietta frutterolucentina) da Beata della Frattina, la traduttrice a manovella da metà degli anni 60 a metà degli 80 di un sacco di urania. Il romanzo è un vero trionfo splatter, ma non è di questo che voglio parlarti. L’ho tirato in ballo perché a un certo punto, il protagonista che si trova in una cittadina di provincia vicino a San Francisco, afferma che l’unico avvenimento degno di nota in quella noiosissima località è quando il semaforo della main street cambia colore. Ecco, con tutto il rispetto per chi ci vive, credo che a Pistoia (come in qualsiasi città italiana di provincia, cioè tutte tranne tre) sia più o meno la stessa cosa. Figurarsi poi tra gli anni 50 e i 60. Immaginati quindi che avvenimento sconvolgente sarebbe stato un tipo che scendeva dal treno alla stazione di Pistoia con un orso al guinzaglio! Da finire quanto meno sulle cronache locali. Ecco, nelle cronache pistoiesi non c’è traccia alcuna di un fatto simile. L’unico Raffaello Pacini di cui si ha notizia, nato e morto a Pistoia, è un regista e sceneggiatura dalla carriera mediocre e non particolarmente prolifica (al quale, senza alcun fondamento, con cui Piero De Bernardi collaborò come sceneggiatore per il film di Luigi Zampa, Frenesia dell’estate. Direi che la cosa si spiega così: stante la necessità di creare mitologici riferimenti reali ai loro personaggi, gli sceneggiatori di Amici miei, si inventarono tipi come il conte Pacini, cui affibiarono, per dare un senso di realtà, nomi di persone (magari come il regista Pacini morte da un decennio in modo che niente potesse ridire) che realmente avevano incrociato.
Insomma, il conte Mascetti è sostanzialmente un personaggio di fantasia (poi, per carità, come ti ho dimostrato nello scorso capitolo con il paralleleo Lello/Titti e Monicelli/Rapaccini, la realtà batte sempre la fantasia per KO) la cui attribuzione di senso è dovuta soprattutto all’interpretazione di quello che Alberto Bevilacqua, nell’introduzione al suo L’Abbuffone, ha felicemente definito come il «nipotino di Rabelais»: Ugo Tognazzi.

«Però c’è un’altra cosa che voglio dirti, che credo sia il grande merito di questa fiction. È che non ci sono toscani. Capisci? Cioè, nessuno che dice “il mi’ babbo”, “la mi’ mamma”, “passami la ‘arne, la ‘arta”. Perché con quella C aspirata e quell’umorismo da quattro soldi i toscani hanno devastato questo paese!»
Non dubito che tu lo sappia a memoria. È Stanis, nell’undicesimo episodio della prima stagione di Boris. E ha una gran cazzo di fottuta ragione. Questo trionfo ingiustificato della comicità toscana (che non fa ridere) dei Benigni, dei Pieraccioni e dei Panariello – cui solo due grandi tradizioni (che fanno ridere), la pugliese che da Lino Banfi arriva a Checco Zalone, e quella melting pot milanese che dal Derby arriva ad Aldo, Giovanni e Giacomo, hanno mostrato resistenza… quella sguaiata romana, che ho amato, degli Alvaro Vitali e di Carlo Verdone è morta per il troppo colesterolo con la Sora Lella nel 1993 (quella alla Brignano che le è sopravvissuta è, appunto, roba da zombie)-, ha avuto origine, lo ammetteva lo stesso Monicelli, dal fraintendimento di Amici miei. Una livida commedia sul nostro solitario destino di morte che viene scambiata per l’esaltazione della toscanità.
Di questo fraintendimento nè è esempio e coronamento il brutto documentario, L’ultima zingarata, ideato e prodotto nel 2010 da Francesco Conforti e diretto da Federico Micali e Yuri Parrettini. Un cortometraggio, inframezzato da varie interviste ai protagonisti ancora in vita, in cui si vuole dare un finale alternativo al film, trasformando il funerale del Perozzi in un corteo maestoso con la partecipazione di tutta la città. Il 3 settembre 2010 migliaia di persone di presentarono, vestite a lutto, in piazza Santo Spirito per fare le comparse nel remake del fumerale. Il punto è che voler trasformare il disertato funerale che chiude il film, in un corteo trionfale significa essere accecati da un mal riposto campanilismo e soprattutto, non aver capito nulla di quel film. Incomprensibile, se non come ultima occasione per confondere le acque raccontando altre balle oppure come rincoglionimento (però la lucidità del suo gesto finale, che avverrà di lì a due mesi, mi fa propendere per la prima ipotesi) la partecipazione di un Monicelli ormai novantacinquenne che nell’intervista dice due cose non vere.
La prima quella di essere toscano. Se hai letto ‘sta roba fino a qua, sai che Monicelli – contrariamente a quello che raccontava lui, di essere nato a Viareggio, o a quello che si ostina a riportare Wikipedia, che era nato a Roma – nacque a Ostiglia, passò l’infanzia a Roma, poi gli anni del ginnasio tra Viareggio e Prato, ma il liceo lo terminò a Milano per tornare definitivamente a Roma a intraprendere la sua carriera di cinematografaro. Definirsi toscano per due, tre anni passati in un liceo classico di Prato contro una vita trascorsa a Roma, significa o sottostimare la toscanità o prendere in giro i propri interlocutori. Opto per l’ipotesi della burla.
La seconda cosa non vera è l’affermazione di aver spostato a Firenze l’ambientazione del film, che Germi avrebbe voluto a Bologna, proprio per il fatto di essere toscano. Allora. Monicelli, lo abbiamo appurato, non era toscano e se spostò la location del film fu per un motivo estetico. Bologna in quegli anni stava vivendo un momento di fermento culturale e di gioiosa socialità che, dopo gli autoblindo cossighiani, non avrebbe più ritrovato, ma proprio per questa vitalità non era adatta alla visione ideologica ed estica monicelliana. Serviva una città di provincia, livida e triste nonostante il belletto del suo passato rinascimentale da cartolina. Niente di più adatto di Firenze.
Che la toscanità e il suo umorismo non c’entrino niente (e per fortuna) nella scelta di girarae il film a Firenze è dimostrato dal fatto che tra gli interpreti non ce n’era uno che fosse toscano. Tognazzi era cremonese, viveva a Roma e aveva una tenuta a Velletri; Philippe Noiret, lo dice il nome, era francese (e il suo doppiatore, Renzo Montagnani, era romano d’adozione e piemontese di nascita); Gastone Moschin era veronese di origine ma milanese d’adozione; Adolfo Celi era siciliano ma aveva vissuto a lungo a Padova; Duilio del Prete era talmente piemontese che dovette addirittura venir doppiato dal pistoiese Luciano Melani; Silvia Dionisio che interpreta la Titti è romana, come romana – di origini montenegrine – è Milena Vukotic che interpreta Alice Mascetti; Olga Karlatos, la moglie del Sassaroli, è greca, mentre Franca Tamantini, che interpreta Carmen Necchi, era una romana doc; per finire, Bernard Blier, il pensionato Righi, era francese; persino il vigile bischero vittima della supercazzola fuori dal bar del Necchi non era interpretatao da un attore toscano, Mario Scarpetta infatti, nipote del famoso Eduardo, era napoletano.
Nelle intenzioni di Pietro Germi, Ugo Tognazzi avrebbe dovuto interpretare il Perozzi, mentre il conte Mascetti era un ruolo pensato per Marcello Mastroianni (assolutamente romano), il Sassaroli sarebbe toccato a Raimondo Vianello (mezzo veneto e mezzo marchigiano ma che aveva da sempre vissuto a Roma) e il pensionato Righi avrebbe dovuto interpretarloil catanese Saro Urzì.
Mastroianni rifiutò la parte perché riteneva, a torto – ma le paturnie degli attori mica hanno fondamenta razionali – di venire soverchiato dagli altri interpreti nelle scene corali e Amici miei era il prototipo del film corale. Si era convinto che nel film di Ferreri, La grande abbuffata, che aveva interpretato con Tognazzi, Noiret e Michel Piccoli, tutti avevano avuto un risultato migliore del suo. Se hai visto il film sai che non è vero, il film è equilibratissimo da questo punto di vista, nessuno spicca sugli altri. Ma non c’era verso di fargli cambiare idea, l’ideale per Mastroianni in quel periodo erano film a due, come Una giornata particolare, in cui pensava di dare davvero il meglio di sé. Personalmente, pur considerandolo un grandissimo interprete, sono contento che abbia rinuciato lasciando il ruolo a chi meglio poteva interpretarlo. Anche Vianello rifiutò, nonostante le insistenze di Tognazzi. La scusa che addusse fu che il cinema lo aveva deluso e non se la sentiva di tornare sul set.
Monicelli racconta che andò
“a trovare Vianello a casa sua e mi ricevette molto freddamente. Il colloquio non durò molto perché l’attore fu irremovibile nel rifiutare il film, adducendo motivazioni artistiche. Secondo lui si trattava di un filmetto.”
In realtà i motivi del rifiuto erano due. Il primo è che Vianello, in fondo, ce l’aveva con Tognazzi che nel 1961 aveva rotto il loro sodalizio comico per cominciare a fare del cinema… diciamo di altro livello, interpretando Il federale di Luciano Salce. Le cose però, come sempre, non sono proprio così semplici. Il ruolo del professore antifascista Ermino Bonafè, che Primo Arcovazzi deve scortare a Roma, era stato pensato da Castellano e Pipolo (soggettisti e sceneggiatori del film) proprio per Vianello. Tognazzi aveva serie perplessità sulla resa della loro copia comica per un film simile, mentre Vianello doveva prendere una decisone sul suo rapporto con Sandra Mondaini che spingeva per il matrimonio e perché il loro legame professionale, cominciato nel 1959 con Sayonara Butterfly, una parodia teatrale dell’opera di Puccini (una roba triste- di cui poi diventeranno campioni Garinei e Giovannini – scritta e diretta dal sopravvalutato (mai capito perché) Marcello Marchesi e interpretata da Gino Bramieri, diventasse sempre più esclusivo.
Accettare il ruolo del professore nel Federale, metetndo da parte lo stile farsesco che gli era proprio, avrebbe significato per Vianello correre il rischio di una prova attoriale che probabilmente non avrebbe retto e superato, meglio continuare a fare la spalla. Così il 28 maggio 1962 si sposa con Mondaini scegliendo, anche giustamente, di privilegiare il suo rapporto con lei, ma finendo per sempre a fare la spalla di Sbirulino nell’imbarazzante sitcom di Casa Vianello. Che abbia manovrato o meno per liberarsi di Vianello, Tognazzi comincia invece una carriera che lo porterà a diventare uno degli attori più rilevanti e versatili del cinema italiano di almeno due decenni.

Comunque. Al di là delle vite e delle sorti dei suoi interpreti- tutta roba interessante e che darebbe adito, fossimo un paese agiografico (chi le ha inventate le vite dei santi?) in cui si potesse fare senza incorrere nelle ire degli eredi, a scrivere interessantissime biografie, quello che mi premeva chiarire in questo capitolo è che la toscanità di Amici miei non è una questione tematica ma un fatto puramente accessorio. Un dettaglio necessario a sottolineare la disperata solitudine di quei luoghi e di chi li abita, dove tutti hanno lo stesso accento. Per il messaggio ideologico che veicola, questo film non poteva essere ambientato a Milano, dove si mescolavano, allora, le lingue dei polentoni e dei terroni; non poteva essere ambientato a Bologna, dove il Movimento portava speranze che non appartenevano alla visione monicelliana; non poteva essere ambientato a Roma e nemmeno a Napoli perché sono città troppo autoreferenziali, i cui abitanti credono di bastare a se stessi; non poteva essere ambientato a Palermo perché ancora non c’era stato il commissario Montalbano e il capoluogo siciliano era una sorta di meta esotica (è il motivo per cui Monicelli sceglie Blier invece del catanese -Catania ancora più esotica di Palermo! – Urzì per il ruolo del pensionato Righi); non poteva essere Bergamo, perché per addentrarsi in quella provincia integralista ci voleva il coraggio di Ermanno Olmi e un romano come Monicelli non poteva avercelo, forse manco gli fregava di avercelo; il veneto stava troppo a est ed era troppo integralista e cattolico, non sarebbero stati credibili 5 amici veronesi di quel tipo… forse veneziani, ma gli facevi fare la zingarata in gondola?
Niente. C’era solo Firenze perché il film funzionasse e le strade del Chianti perché la zingarata potesse svolgersi.
E cazzo se ha funzionato. Nonostante i toscani.
(il mio più sentito ringraziamento a Valentina Restivo per il ritratto di Ugo Tognazzi/Lello Mascetti)
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.