Le maglie da calcio sono the new black

Mabel Morri | Play du jour |

A Nizza, in Place Massena, ci sono scale con geometrie che sarebbero care agli skater, se solo lì potessero fare le loro prove saltando sulla tavola. Su quelle scale un ragazzo aspetta qualcuno vestito con la maglia d’allenamento pre gara del Milan. La collezione è quella della prima stagione, con Puma come sponsor tecnico, nel 2018/19, e la veste su un paio di jeans neri e sneakers bianche. Dietro il ragazzo, in perpendicolare, l’insegna dello Store del Nizza calcio, nella curvatura che di fatto forma Place Massena mi abbaglia.

In un numero del “Guerin Sportivo” del gennaio del 1995 c’è un’intervista a Paolo Maldini. L’inviato è Matteo Marani, che nella mia storia è molto importante. Non in questa e non ora, però. Nella carrellata di immagini – di lui con una Coppa, di lui con il primo scudetto, di lui con il padre, di lui bambino in bicicletta, di lui in Nazionale – c’è anche quella di Maldini seduto con la moglie Adriana. Il Milan ha vinto la Coppa dei Campioni ad Atene, quella del 1994, devastando per 4 – 0 il Barcellona dell’arrogante Johan Cruijff. A tavola, nella cena dei festeggiamenti entrambi indossano la maglia rossonera sopra al completo scuro di lui e all’abito scollato di lei.
Nell’eleganza della sala e degli ospiti – giornalisti, amici, conoscenti, direttori di giornale, semplici imbucati -, stonano quelle divise così vistose e che nell’immaginario comune possono essere vestite solo su un campo da calcio.
Venticinque anni dopo, dall’estraneità di una foto come quella in un ristorante sul molo di Senigallia aspettando un matrimonio nell’anno del Mondiale 2018, senza nessuna meraviglia o stonatura, diversi invitati a quel tavolo vestiranno la maglia a quadri biancorossi della Nazionale della Croazia.

La mia prima guida del Portogallo risale al 1996.
Quando ci sono tornata nel 2018 pretendevo che andasse ancora bene e mi opposi nel comprarne una nuova che, oggettivamente, era necessaria.
In quel 1996 il Portogallo era un paese prevalentemente povero, indietro in molte delle innovazioni che si vedevano in Italia, sempre molto filo americana, Lisbona era una città che si riusciva a vedere solo a pezzi perché ogni volta che ci si tornava c’era qualcosa da costruire o risistemare, fosse una piazza o i sanpietrini scivolosi che facevano cadere centinaia di persone.
Fu allora che, appena ventenne, decisi che per ogni paese che avrei visitato mi sarei portata via una maglia da calcio, nazionale o club che fosse.
Ecco perché possiedo la maglia del Portogallo della Olympic vestita all’epoca da Rui Costa (Fiorentina e Milan nei ‘90), Paulo Sosa (Juventus), Luis Figo (Inter), Fernando Couto (Lazio e Parma), che per altro scoprirò negli anni essere un unicum tra Adidas e Nike, la Nike che ancora oggi veste, per dire, Cristiano Ronaldo.
Nel 2000, quando ci andò mia sorella, mi disse di aver visto una Lisbona completamente diversa da quella dei miei ricordi: era l’anno dell’Expo e Lisbona iniziava allora il processo che abbiamo visto in Italia con la Milano dell’Expo 2015, un cambiamento ormai irreversibile nella modernità del nuovo millennio. Chiaramente le chiesi una maglia come regalo. Non me la fece, ma mi portò un berretto da giullare con i campanellini alle estremità che conservo ancora in qualche scatola dei cappelli. Non un berretto qualsiasi, ma un berretto dello Sporting Lisbona.
 Non so per quale strano motivo mi appassionai allo Sporting, ma quei colori, quel bianco e quel verde mi entrarono nel cuore.

Con la nuova guida che sono costretta ad acquistare nel 2018 quando in Portogallo ci ritorno, uno dei giorni che mi dedico è in direzione Stadio Joao Alvalade.
Il calcio è cambiato e con esso i quartieri che ospitano le società sportive: lo Sporting Lisbona di fatto è, come molte altre realtà della penisola iberica, una polisportiva, per cui lo Sporting ha la squadra di calcio femminile, di calcio a 5, di ciclismo e di atletica, tra le altre. La Loja Verde è il quartier generale, un palazzetto diviso tra uffici, campo di calcetto, palestra e, soprattutto, eretto di fronte allo stadio, official store.
Sono talmente emozionata che mi faccio fotografare nelle pose più assurde e impensabili: di fronte al pullman ufficiale, vuoto e parcheggiato, quasi abbandonato essendo estate, di fronte alle coppe di lega e a quelle dei campionati; persino di fronte alla foto di un giovanissimo e sdentato Cristiano Ronaldo col numero 28 sulle spalle (maglia che conserva Luigi Di Biagio, scambiata col futuro CR7 quasi per sbaglio, quando colui che sbagliò il rigore decisivo contro la Francia nel Mondiale del 1998, giocava con l’Inter in quel preliminare per la Champions 2002/03 del 14 agosto 2002 nel quale il diciassettenne Cristiano esordiva nella competizione che vincerà per cinque volte).
Inutile aggiungere che dallo store me ne esco con la maglia dello Sporting Lisbona stagione 2017/18, splendida nella manifattura dell’azienda emiliana Macron.
Inutile aggiungere ulteriormente che la esibisco sfacciatamente nella capitale lusitana e nell’Algarve, riuscendo a ottenere: diversi sconti nei ristoranti nei quali la indosso, diversi apprezzamenti per strada come nemmeno a farmi vedere nuda e, soprattutto, situazione di cui sorridiamo ancora, salto totale di una fila chilometrica in aeroporto a Lagos, quando la guardia della sicurezza indica me (e, sottointeso, chi è con me), mi dice di andare prima degli altri e, aggiunge in inglese, fosse mai che non capisca il portoghese: “Grande maglia”.
Qualcuno mi chiese perché comprai la maglia dello Sporting e non quella del Benfica: c’è anche una ragione storica, che però rimane delicata quando si mischia calcio e politica. Il Benfica fu la squadra del regime di Salazar, il quale rese possibile l’epopea del grande Benfica di Eusébio facendo fallire di fatto molte società che minavano lo strapotere della prima squadra di Lisbona. Sorte diversa accadde allo Sporting, da sempre squadra del popolo, un popolo evidentemente diverso da quello cui si intende oggi, un popolo proletario, di lavoratori infaticabili e di gente che voleva i giusti diritti, per se stessi, per la propria famiglia e per quei giocatori che vestivano quella gloriosa maglia a strisce bianche e verde.

La pergola è sempre quella, forse, molto probabilmente, ristrutturata più che rifatta negli oltre quarant’anni della mia esistenza. Prima dell’estate del 2014 le lucciole le ricordavo lassù, a Covignano di Rimini, quando noi bambini venivamo lasciati liberi sulla strada a giocare e vivere avventure sotto i pini marittimi, tra le auto parcheggiate a pelo dai cancelli delle ville. Gli stessi teli antivento, vere e proprie pareti morbide se tirate giù, non c’erano: perché la piada dall’Ilde si mangiava all’aperto, sotto le stelle, nella frescura della collina, lontano dalle code di automobili del lungomare, dalle grida e dai clacson, dalla confusione estiva del divertimento, in quel limbo di ville a metà strada da Riccione e quelle altre discoteche, per quanto a onor di memoria diretta l’Ilde si trovava a sua volta a metà tra il Paradiso e il Bandiera Gialla, e, particolare non meno rilevante, due strade più su dell’indimenticato e indimenticabile Melody Mecca.
Negli anni ‘90 la serata afro era da gomitate all’ingresso. Non sei mai stato riminese o semplicemente giovane, se non sei andato alla serata afro della Mecca.
All’Ilde ci andavo con i miei genitori, in quelle interminabili e noiosissime serate nelle quali si era costretti a stare coi figli degli amici, non sempre simpatici, non sempre della stessa età. Va da sé che oggi, quei genitori siamo noi e costringiamo allo stesso supplizio i nostri figli, o i nostri nipoti, in un cerchio della vita che continua a prendere in giro.
Da adolescente, l’Ilde era diventata il cibo chimico di fine serata.
Da adulta, dopo qualche tempo, non ci sono più andata.
Da qualche parte echeggiano ancora, nei sottili aliti di vento di quegli stessi pini che vedevano me bambina incantata dalle lucciole, e oggi adulta che parcheggia l’auto cercando di non spaccare l’asse della macchina, perché quei meravigliosi e rigorosi pini filiformi hanno deformato l’asfalto, echeggiano ancora le voci, i silenzi, le risate sciocche, le emozioni di tutte le me stessa che sono passate da lì.
Per cui quando ci torno per vedere un’amica, che si è lasciata male dall’ultima relazione, non posso non indossare ciò che non sarei riuscita facilmente a mostrarle in altre occasioni.
Nel febbraio del 2017 torno negli Stati Uniti: base New York, ma io prendo la Greyhound (i pullman col levriero che corre sulla fiancata, linea simbolo dell’America dei grandi viaggi e delle grandi occasioni) e me ne vado dagli zii a Millford, tre quarti d’ora da Boston.
È lì che vedo l’America che Trump ha appena conquistato. È lì che capisco – perché lo vedo, lo vedo con i miei occhi, la tocco quell’America lì, me ne stupisco e ne prendo consapevolezza – che New York è un pianeta a parte e chissà quante altre realtà di quella estesa terra bagnata da due oceani. C’è il Super Bowl e quindi me ne torno a casa con la maglia del quarterback Tom Brady dei New England Patriots freschi vincitori di quell’edizione. Ma la maglia che desidero è una delle giocatrici della USWNT, la Nazionale di calcio americana.
Il Natale 2019 è bellissimo. Da quella parte di States vicino Boston, in un volo Delta Airlines sbarcato a Firenze, in una valigia da 30 chili, arriva una maglia fresca fresca di quarta stella conquistata quell’estate nel Mondiale di Francia 2019, quello delle “Ragazze Mondiali” italiane: il numero 15 opposto allo stemma sul cuore, lo stesso in grande sulla schiena e sopra, nell’arcobaleno che abbraccia le spalle il nome: Rapinoe.
Nella delusione di una storia d’amore finita male, abbraccio l’amica con indosso la maglia di Megan Rapinoe, giocatrice icona di quell’America che va contro Trump, che non canta più l’inno, e che oltre al suo ruolo fuori dal campo, proprio sui campi del mondo ha regalato magie calcistiche.
Non sono una che esibisce, normalmente le mie maglie hanno il solito numero 8 e al massimo il mio Morri, ma portare la maglia col nome di Rapinoe va oltre un semplice numero o un semplice nome: è una presa di posizione, chiara e decisa.

United States’ forward Megan Rapinoe celebrates scoring his team’s first goal during the France 2019 Women’s World Cup quarter-final football match between France and United States, on June 28, 2019, at the Parc des Princes stadium in Paris. (Photo by FRANCK FIFE / AFP) (Photo credit should read FRANCK FIFE/AFP/Getty Images)

Al quattordicesimo compleanno del nipote acquisito, il consiglio arriva dal padre: una maglia da calcio. Al ragazzo piace il calcio inglese, così vaglio tutte le maglie che possano essere iconiche nelle riedizioni da nuovo millennio. Vari messaggi sulla chat ci deviano invece sulla maglia della Nazionale. Qualche tempo dopo, un ragazzo dinoccolato, con un sorriso dolce e timido, in una foto scattata con l’ultimo modello dell’IPhone e condivisa nella chat, vestirà la maglia bianca della Nazionale Italiana di calcio, quella chiamata (linea) “Risorgimento”.
Molte testate, tra le quali “Rivista Undici”, si interrogheranno sulla nuova corrente per cui le divise da calcio non si fermano al campo ma diventano fashion, streetwear, da esibire sotto la giacca o al ristorante, senza che questo provochi più dissenso o giudizi negativi. Ne è un caso la maglia della Nigeria, che per il Mondiale del 2018 sfoggia grazie alla Nike la riedizione della maglia del Mondiale del 1994 che noi calciofili ricordiamo molto bene, non foss’altro per il gol (doppietta) di Roberto Baggio nell’agonia dei supplementari che valse all’Italia sacchiana i quarti di finale.
Le maglie da calcio dunque come nuova idea di moda, da indossare su un jeans o su un pantalone classico.
Il fatto è che, come dice l’etichetta nella maglia dell’Atalanta che dalla stagione 2017 orna il retro del colletto, «la maglia sudata sempre» è quella che si indossa per la partita, sporcandola, stropicciandola, orgogliosi di portarla fino all’ultimo scatto, quando bruciano i muscoli e manca il fiato, ma si continua a correre perché la maglia va onorata, sempre.
Possibilmente sopra a un paio di pantaloncini, di parastinchi e di scarpini 13 tacchetti.

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