In chissà quale abuso od ozio

Quasi | Strani anelli |

La seconda volta che abbiamo incontrato Filemazio, eravamo al liceo e c’era una noiosissima lezione sulla palliata, quel tipo di commedia latina in cui eccelleva Plauto. Non fraintenderci, ci piacevano le cose “noiose”: figurati che stavamo costruendoci a ritroso la discografia di Francesco Guccini e, in quei giorni, non facevamo altro che ascoltare Metropolis. Proprio nella traccia che apre il Lato A del disco avevamo incontrato, per la prima volta, Filemazio. Solo che la Filemazio di Plauto, uno dei personaggi principali della Mostellaria, è una giovane attrice/prostituta (anche nella Roma repubblicana per tirare a campare c’era da fare più di un lavoro) che partecipa, con gusto innocente, alle orge organizzate da Filelaclete, giovane rampollo annoiato che trascorre i suoi giorni tra l’ozio e i vizi. Il Filemazio gucciniano, invece, è un vecchio mago e astrologo. Vive sotto il regno di Giustiniano, imperatore che, come Filelaclete, condivide la propria vita con un’attrice/puttana, la grandissima Teodora, ed è ormai incapace di divinare il futuro e – quel che è peggio – di comprendere il presente. Forse perché, proprio come la Filemazio plautina, ha trascorso troppo tempo tra l’ozio e gli eccessi.

Noi, convinti che l’ozio e gli abusi aiutino la comprensione del presente (rendendo la realtà tollerabile), non fummo per nulla stupiti da questo cambiamento, da questa transizione di genere, ricostruita a posteriori (un po’ come la discografia gucciniana), e la capimmo perfettamente. In fondo lo scenario in cui ci trovavamo, ascoltando quella lunga e ipnotica canzone, era quello di una città in perenne mutamento. Già solo dal nome – noi ne ricordiamo tre, ma l’elenco è molto più lungo – che nel tempo ha cambiato con assoluta disinvoltura.
In realtà quella che accoglie, al porto Bosforeion, le passeggiate inconsce di Filemazio non si chiama già più Bisanzio. Quel nome non veniva più usato da quando l’Imperatore Costantino l’aveva rifondata (la più radicale delle traformazioni), dandole il suo nome. Dopo la conquista ottomana, che portò un radicale cambiamento alla struttura urbana della città, Costantinopoli manterrà comunque lo stesso nome, ovviamente arabizzato. È solo nel 1930 che diventerà, definitivamente (chissà), Istanbul.

Gli anni Trenta sono il decennio in cui l’Orient Express, treno di lusso che dalla Gare de l’Est attraversava l’Europa terminando la sua corsa alla Sirkeci Gari di Istanbul, raggiunge l’apice del suo successo. È infatti nel 1932, due anni esatti prima che Agatha Christie ci ambienti l’ottava indagine di Hercule Poirot, che Graham Green ambienta il suo quarto romanzo (il primo che gli varrà successo di fama e di vendite) proprio su quel treno. Se da giovani abbiamo amato (letto e riletto) il romanzo della Christie, oggi non possiamo non ammettere che Il treno per Istanbul di Greene gioca in un altro campionato, e che nelle vite dei suoi personaggi (così lontani dagli stereotipi della Christie) si può leggere in trasparenza una tetra profezia (quella che Filemazio non riusciva a fare) di quello che sarà il destino d’Europa da lì a qualche anno.

Nella scrittura di Greene il treno diventa una metafora della società europea che sta marciando, a grandi passi, verso la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale.

Quest’idea verrà portata alle estreme conseguenze da Jacques Lob, che cinquant’anni dopo (nel 1982) – affidandone i disegni a Jean-Marc Rochette – trasformerà l’idea del treno come specchio delle tensioni sociali in una rappresentazione vera e propria del mondo.
Da questo fumetto, Le Transperceneige, Bong Joo-ho trae nel 2013 un film (Snowpiercer) che ha la stessa forza interpretativa della realtà sociale attuale del romanzo di Greene. Sappiamo che la serie televisiva ispirata al film e distribuita in Italia lo scorso maggio su Netflix non vale niente. Ma c’è un grande ma. In quella serie recita un pezzo del nostro cuore, Jennifer Connelly. La seguiremmo ovunque, pure in un oriente più a oriente di dove arrivava l’Orient Express. Il Giappone. Da bambinetta Jennifer recitò in alcuni spot pubblicitari giapponesi, cantando una canzone che divenne una hit.

A proposito di Sol Levante, tutti, anche se non lo amiamo, abbiamo letto almeno qualche pagina di Haruki Murakami. C’è un suo racconto, La strana biblioteca, in cui un ragazzino è ossessionato dal sistema di tassazione dell’impero ottomano. Ecco, noi Jennifer, Haruki e Filemazio (nelle sue due versioni di genere) ce li immaginiamo ogni volta, seduti in una terrazza sul Bosforo, a bere raki e a raccontarsi strane storie di treni, di eccessi e di ozii.

Questo strano anello è composto da:

  • Plauto, La Mostellaria, Garzanti, 2014
  • Francesco Guccini, Bisanzio, dall’album Metropolis, 1981
  • Graham Greene, Il treno per Istanbul, Sellerio, 2019
  • Jacques Lob e Jean-Marc Rochette, Le Transperceneige, Casterman, 2014
  • Snowpiercer, regia di Bong Joo-Ho, 2013
  • Jennifer Connelly, Ai no monologue, 1986
  • Haruki Murakami, La strana biblioteca, Einaudi, 2015

Per forgiarlo, come Filemazio, abbiamo leggermente abusato di quello che i turchi chiamano il “latte di leonessa”. E cioè: un’abbondante dose di Raki turco (un distillato di mais aromatizzato all’anice), che va bevuto, come il pastis marsigliese o l’ouzo greco, con ghiaccio e acqua che gli danno quel colore bianco che lo fa somigliare, appunto, al latte.

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