Tutto il fascino delle storie mai narrate

Francesco Barilli | Affatto |

C’è un file nel mio pc: 1046 pagine in formato txt. Scaricate con difficoltà. È pieno di mie annotazioni, di miei abbozzi di qualche scena, pochi dialoghi, cose così.
Alla fine di questo pezzo lo cancellerò. Come e perché sono arrivato a questa decisione ve lo racconto piano piano, in un percorso di aneddoti e incastri.

Le storie mai pubblicate. E un vago ricordo.

In Hicksville, Dylan Horrocks immagina l’esistenza di una biblioteca segreta in cui sono conservati tutti i fumetti realizzati, compresi quelli rarissimi o mai pubblicati. Questo vero e proprio atto d’amore verso il fumetto meriterebbe qualche parola in più, ma ora non è il caso. Perché ciò che mi affascina (e che vorrei affascinasse anche voi) è la questione delle storie mai narrate. Mai pubblicate, rimaste nel cassetto o addirittura solo abbozzate nella testa dell’autore.
Una storia analoga, anche se meno poetica, molti di voi la conosceranno se hanno visto Argo, film del 2012 di e con Ben Affleck, che prende spunto da un fatto di cronaca collocato fra il novembre 1979 e i primi mesi del 1980.
Dopo la rivoluzione islamica iraniana, alcuni militanti irrompono nell’ambasciata statunitense di Teheran prendendo in ostaggio decine di funzionari. In sei riescono a fuggire, rifugiandosi nella residenza dell’ambasciatore canadese. È una vicenda complessa, non starò a raccontarvela nel dettaglio. Guardatevi il film (dove è ampiamente romanzata, ma vabbè…) o documentatevi come meglio credete.
Per la liberazione degli ostaggi nascosti presso l’ambasciatore, si gioca una partita a sé e viene organizzata un’operazione fantasiosa. Un agente della CIA esperto in esfiltrazioni, un certo Mendez, ha un’idea: i 6 devono fingere di fare parte di una troupe cinematografica canadese che sta cercando paesaggi “esotici” per un film di fantascienza.
Un’idea talmente balzana, che avrebbe potuto funzionare (e in effetti funzionò). Ma metterla assieme non è semplice. Se vuoi convincere le autorità iraniane che hai l’intenzione di girare un film di fantascienza nel loro territorio meglio avere qualcosa di serio da mostrargli, in caso butti male. Che quelle, le autorità iraniane, non sono certo ben disposte col mondo luccicante di Hollywood. E non c’è tempo di inventarsi una sceneggiatura, di creare in quattro e quattr’otto uno storyboard fittizio, qualcosa che dia l’idea di un lavoro già in divenire. Mumble mumble… Ecco che recuperano una sceneggiatura già esistente e mai realizzata, una locandina fittizia e allestiscono persino un falso studio cinematografico, per costruire una copertura credibile.
Su “Linus” del novembre 2018 c’è un bell’articolo che ricorda come Jack Kirby fosse stato precedentemente incaricato della realizzazione dei disegni per le scenografie di quel film di fantascienza, adattamento del romanzo Lord of Light di Roger Zelazny. Un film morto in fase di produzione, il cui script fu utilizzato solo come copertura per la liberazione dei sei ostaggi. Le visioni di Kirby, le sue “tavole di lavorazione”, le potete ammirare sempre su quel numero di “Linus”.
Da un vago ricordo parte l’ultimo aneddoto sulle storie mai narrate. Mi aiuta Claudio, che io quel ricordo non riuscivo a incasellarlo. In Sandman (volume: La stagione delle nebbie) appare Lucien e la biblioteca del sogno, che raccoglie i libri sognati o solo immaginati. Insomma, altro che romanzi incompleti, rifiutati e rimasti nel cassetto. Qui siamo nel campo di ogni storia possibile…

Il concerto, il santino, l’idea.

C’era un biglietto, da qualche parte, ma non lo trovo più. Però la data me la ricordo, più o meno. Teatro Ponchielli di Cremona, gennaio 1998. È l’ultimo tour di Fabrizio De André, prima e ultima volta che lo vedo, a lui resta da vivere un anno scarso. Alla fine del concerto, tanti si alzano per andare a dargli la mano. Mia moglie dice: «Vai, salutalo, lui è importante per te». Non lo faccio, sono gesti vuoti, in fondo. Lui è importante, sì (lo è tuttora) ma stringergli la mano e biascicargli un «sei un grande» o «non sai quanto contano le tue canzoni per me», non è cosa mia. Non lo faccio e non me ne pento, ma un po’ oggi mi dispiace. In questi giorni strani e difficili, in cui dare la mano è praticamente vietato, questo ricordo ha un sapore amaro.
Di quel concerto ho un ricordo diretto e uno, seppure “obliquo”, più pragmatico: è il dvd che ritrae l’analogo spettacolo del Brancaccio (13 e 14 febbraio 1998) con la stessa scaletta. Ma questa è solo la cornice di un fatto secondario, che da qui indirizza la mia esistenza su una strana piega.
La Buona Novella io la conoscevo, ma l’avevo sempre un po’ snobbata. Gran disco, ma per me non era “il mio” disco di De André (quello, ai tempi, era il live con la PFM). Nel concerto del ’98 ne presentò 5 brani senza soluzione di continuità, introdotti da parole che ricordo bene e che si possono ancora ascoltare nel dvd del Brancaccio. Ricordò i dubbi che avevano accompagnato il disco all’epoca della registrazione e dell’uscita (tra il1969 e il 1970). In periodo di lotte studentesche e operaie, raccontare la storia di Gesù, seppure attingendo a fonti “anticonformiste” come i vangeli apocrifi, non era il massimo, certo. Non sto neanche a spiegarvelo.
Torniamo al ’98. Anzi, flashforward di un anno. Ricordo ancora mia moglie: sono al lavoro quando lei mi telefona per dirmi che De André è morto.
Bastò poco tempo a trasformarlo in un santino. Capita a chi muore e diventa fenomeno pop, e comunque il morto non ha colpe, chiaro. E per me restano le sue canzoni, non il prodotto da spremere in celebrazioni da Fazio, che in fondo ne sterilizzano la poetica, la complessità dei testi, il portato “rivoluzionario” di certi “messaggi” (li ho virgolettati, che la cosa sarebbe più incasinata, ma ci porterebbe fuori strada).
Insomma, l’idea di scrivere un fumetto con una mia rivisitazione dei vangeli apocrifi nasce lì. Creativamente, non è un coup de foudre: nasce pian piano, matura con gli anni, resta nel cassetto perché seppellita da altri progetti. Tanti cazzi e mazzi, tutto qui, e poi era un’idea confusa e ambiziosa. Volevo fondere gli apocrifi con il Vangelo secondo Gesù di José Saramago. Pilato lo avrei preso dal Maestro e Margherita di Michail Bulgakov
…Ok, forse era TROPPO ambiziosa… Passiamo oltre.

Io e Paolo Castaldi.

Paolo lo conosco da un bel po’. Prima dell’apocalisse/pandemia lo invitai qui da me. Era il 22 marzo 2019, si trattava di mettere in piedi un’iniziativa antirazzista a Codogno (il paese dove vivo e che dopo qualche mese sarebbe diventato famoso per l’esplosione del Covid). Avrei potuto invitare Marco Rizzo per parlare del suo Salvezza (ottimo lavoro realizzato in coppia con Lelio Bonaccorso), ma preferii Paolo perché, con Etenesh, aveva affrontato lo stesso argomento una decina d’anni prima. Volevo qualcuno che spiegasse che quei viaggi disperati non erano una novità, e soprattutto capace di dimostrare che c’è stato un tempo, neppure lontano, in cui l’Italia era un po’ meno stupida, ottusa, feroce e cattiva. Meno stronza, in una parola.
Altro salto temporale: eccoci a qualche settimana fa, quando vengo a sapere dalla sua bacheca che Paolo sta per pubblicare proprio un adattamento de La Buona Novella.
Ora, potreste pensare che io ci sia rimasto male. Invece no. Sorpreso, sì. Ecco, forse se io fossi stato più avanti col mio lavoro, se avessi davvero scritto qualcosa più di qualche appunto sparso (sì, quelle 1046 pagine scaricate, sono i vangeli apocrifi) può darsi che…

No, vabbè, lo dico: sì, ci sono rimasto male. NON con lui (neanche da dire), ma un po’ mi è dispiaciuto vedere la mia idea svanire come l’azzurra nuvola di fumo di una sigaretta.
Però: non ricordo chi mi ha detto una volta che le idee sono nell’aria. Il primo che si alza sulla punta dei piedi le afferra. Paolo l’ha fatto, bene così, e dopo pochi minuti all’amarezza erano subentrati due sentimenti. Uno pragmatico («bene, dopotutto non sapevo come cominciare, mi ha tolto da un impiccio! E adesso è meglio dedicarmi ad altro»). Uno più intellettuale («Certamente sarà un ottimo lavoro, sono proprio curioso di leggere cosa diavolo si inventa Castaldi!!»).

La buona novella.

Insomma, invece della mia idea intricatissima (intrigantissima?) di ristrutturare in forma fumetto i vangeli apocrifi, attingendo anche ad altre fonti (vedi sopra), Paolo ha un’idea scarna, essenziale: accompagnare con le sue tavole i testi originali di De André. Tanti capitoli quante sono le canzoni dell’album. E l’idea più semplice, come spesso accade, funziona dannatamente bene. È come se a ciò che manca (la musica) si sostituissero le intuizioni grafiche di Paolo. E così facendo gli stessi testi riescono a indicare suggestioni nuove anche a chi, come me, quell’album lo conosce a memoria.
Penso ad esempio al Testamento di Tito, dove i dieci comandamenti “decostruiti” da Tito/De André sono intrecciati alle vicende di alcune “vittime moderne della società” (definizione orribile ma non me ne vengono di migliori). Ma anche la seduzione di Maria da parte di “un angelo” riesce ad avere una leggerezza davvero poetica. E il passaggio era decisamente più insidioso (per ovvi motivi) in una narrazione per immagini che non nell’originale versione-canzone.
Nel fumetto di Paolo risalta ancora di più la scelta del cantautore genovese di lasciare Cristo fuori dalla scena, facendo parlare tutti tranne lui. Giuseppe e Maria, i ladroni crocefissi, persino il falegname che fabbrica le croci. Insomma, sotto la vicenda umana di Gesù, grattata la crosta metafisico-religiosa, restano altre vicende umane che si intrecciano. E l’idea di lasciare i testi originali, accompagnati a suggestioni visive magari diverse rispetto a quelle a cui l’ascolto de La Buona Novella ci aveva abituato, mi appare vincente nella sua semplicità.
Va bene, direte voi: «Ferma la sviolinata fra amici! Ci sarà un difetto. O no?»
Sì, uno c’è, ma difficile attribuirlo a Paolo. E mi chiede una (ennesima) digressione.
Ho letto varie discussioni sul valore dell’opera di De André, e in particolare se sia stato mai sufficientemente riconosciuto il fatto che (spesso se non quasi sempre) l’opera finale era frutto di collaborazioni, di commistioni di idee, di contributi altrui, ecc.
Il discorso meriterebbe un articolo a sé (chissà, forse lo scriverò…). Per tagliarlo con l’accetta e dire solo quanto ci interessa qui: le sue canzoni cantate da altri possono anche essere/restare belle, ma “la magia” la trovavano grazie alla sua voce. Un po’ il timbro, un po’ il modo in cui scandiva o lasciava scivolare le parole, un po’ l’abilità nel sottolineare quella certa parola (come a farti percepire il perché veniva pronunciata QUELLA e non UN’ALTRA). Era come se la coscienza dell’ascoltatore venisse sintonizzata sulla frequenza del messaggio della canzone grazie alla voce. L’ascolto, in questo senso, si faceva esperienza unica ed emozionale. Non ricordo chi ha detto «il mezzo è il messaggio», ma per Faber ci sta tutto.
Ecco: leggevo il libro di Castaldi e mi mancava quella voce. Quel disco lo conosco a memoria, mi è inevitabile associare QUELLA voce a QUEL testo e sentirlo CANTATO. Un problema, ripeto, legato al mio vissuto più che al mio gusto personale. Sarei curioso di conoscere il parere di un lettore meno legato affettivamente al disco.

Torno al “vago ricordo”: click…

Ricordate il “vago ricordo” di cui vi ho detto parecchie righe sopra? Dove Claudio mi aiuta segnalandomi Lucien the Librarian in Sandman? La storia di cui parlavo era molto simile a quella. Però io sono sicuro che era un’altra, anche se non ricordo dove l’avevo letta.
C’era questa realtà “trascendente”, in cui alcuni tizi (una sorta di monaci) avevano l’incarico di scrivere TUTTE le storie immaginabili per una biblioteca sterminata. ATTENZIONE, non si tratta di ingegno umano, è qualcosa di quasi puramente matematico. Provate a pensarci: le parole esistenti sono un numero enorme, ma comunque determinato. Ora, provate a ipotizzare di poterle assemblare in TUTTE le combinazioni immaginabili, in frasi di senso compiuto. Avrete un numero ancora più grande, tendente all’infinito, certo, ma NON infinito… E quel numero enorme racchiuderebbe TUTTE le storie, ma pure TUTTE le esistenze possibili…
Il bibliotecario Lucien di Sandman effettivamente è simile a quanto ricordo io, e perfettamente attinente al discorso sulle storie mai narrate, ma il tarlo di quella trama con i monaci continua a mordere.
Ho rinunciato in fretta a cercare fra i miei libri (ci perderei una vita), ho spulciato on line, nulla di nulla, quell’episodio non lo trovo. Se qualcuno lo ricorda me lo dica, per farmi ritrovare il sonno.
Ma, forse, la vicenda è significativa già così. Se l’avessi sognata non sarebbe essa stessa una storia mai narrata? Un archivio in cui confluiscono tutti i racconti immaginabili, e quindi ogni possibile esistenza umana, è a sua volta un “racconto mai narrato”, no? E in quell’archivio finisce anche ciò che poteva nascere da quel file txt di 1046 pagine.
Come vi dicevo, ora lo cancello. Ecco.

Click.

Senza rimpianti.

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Una risposta su “Tutto il fascino delle storie mai narrate

  • nandotur

    immagino (e spero) che in tanti ti abbiano segnalato che la storia di cui non ricordi l’origine è “la biblioteca di Babele” di Borges.

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