Playlist: Wish You Were Here

Quasi | If I Can't Dance, It's Not My Revolution |

LATO A

#1

Wish You Were Here è la frase commossa che ci piace leggere su lettere e cartoline che ci arrivano da posti bellissimi. Forse è questo il motivo per cui Charley gioisce quando riceve quella cartolina natalizia che racconta che, in fondo, in questa vita c’è speranza.«Hey Charley I’m pregnant / Living on 9th Street / Right above a dirty bookstore / Off Euclid Avenue / I stopped taking dope / And I quit drinking whiskey / And my old man plays the trombone / And works out at the track». Poi, alla fine, si sa, nelle canzoni di Tom Waits non c’è lieto fine. [PI]

#2

Natale si avvicina e, alle condizioni attuali, se Babbo Natale cercasse di calarsi nei camini sarebbe arrestato come untore. La lontananza, la chiusura delle regioni, il numero controllato di commensali ci faranno desiderare forte che alcune delle persone cui teniamo di più siano con noi. La più bella preghiera sul ritorno a casa fa così: «E tu dice: “I’ parto, addio!” / T’alluntane da ‘stu core / Da la terra de l’ammore / Tiene ‘o core ‘e nun turnà? / Ma nun me lassà, / Nun darme stu turmiento! / Torna a Surriento, / Famme campà!» [PI]

#3

Per uno strano corto circuito non riesco a pensare alla canzone dei Pink Floyd senza canticchiare un brano degli Üstmamò. Nel 1993 nell’ambito di un corso di formazione professionale in quel di Bolzano, tenevo un modulo di calcolo parallelo. Mi aggiravo nell’inverno di quella città con un walkman e un paio di cuffie. Uno dei discenti, non ricordo chi o perché, mi ha regalato un nastro su cui aveva registrato il secondo disco del gruppo reggiano. L’ottava traccia si chiama Malinconicie fa così [PI].

#4

Matt Johnson la fissa per la solitudine e la distanza (sofferte) ce l’ha sempre avuta, anche quando suonava più pop. Anche quando non pubblicava il suo primo album, intitolato The Pornography of Despair. Più oltre ancora, dall’altra parte della sua carriera musicale, quando usciva con un album di pezzi di Hank Williams. Dogs of Lust non suona pop per niente, è densissimo l’album e sodissimo il brano: il desiderio esiste ex ante, primigenio, ancora prima di potersi appuntare su qualcuno – e nella società contemporanea della comunicazione totale “qualcuno” sembra un vero miraggio. Non si vede una via d’uscita. [LC]

#5

Qui nella versione originale – con tanto cowbell che non trova una spiegazione se non così. Ma è un anacronismo perché è venuta prima Missing, la memoria costruisce falsi storici. Nella seconda metà degli anni Novanta girava un remix onnipresente in qualunque locale, discoteca o assimilabile. Il tema della mancanza mi è sempre parso azzeccato da spararsi nelle orecchie di persone spinte dai dogs of lust, assiepate in spazi abbastanza stretti ma spesso più a proprio agio nel non trovarsi con nessuno. Nessuno di nuovo almeno. Venuta sulle scatole a tutti ma una colonna sonora di un’epoca, a modo suo. [LC]

#6

Perché sì. Non si capisce bene se l’aspirazione di cui canta Beth Gibbons verso una rivelazione completa, un’apertura totale, vissuta nel timore e tremore, si rivolge a qualcuno di raggiungibile o meno, però si fa capire indiscutibilmente e in pochi versi. Un suono notturno in do minore, una linea di basso minimal ma che ti fa correre le mani su tutta la tastiera dello strumento tra indugi e accelerazioni, inflessioni profonde che ti scavano dentro come una TAC alla ricerca delle nostalgie e delle distanze dolorose più vive e presenti. Non era una posa maudit, sapevano cosa stavano facendo. [LC]

LATO B

#7

In questa settimana in cui si desidera che qualcuno che non c’è ci sia, a me viene in mente la canzone che per me ha sempre incarnato quello struggimento. La voce di Alison Moyet, così diversa dalle voci femminili che ero abituata a sentire passare per radio, mi ha inchiodata. Una voce che non aveva paura di essere gigantesca. Poi ho capito perché quel pezzo del 1982 fosse così indimenticabile: l’altra metà del duo Yazoo era Vince Clarke dei Depeche Mode. «All I needed was the love you gave/all I needed for another day». Ne stavo registrando una cover in studio il giorno dopo il funerale del mio amico grande S. Ricordo di aver ringraziato dentro di me la coincidenza. Suonare per sfogare un dolore è un privilegio. Comunque, ecco un pezzone degli anni Ottanta, la nuova infanzia condivisa e trasfigurata della generazione che scrive ora le serie tv. [AS]

#8

Vorrei che fossi qui. Tutti i vorrei di tuttǝ quellǝ che dovrebbero essere qui. Il non poter mostrare amore verso la persona amata, il non poter mostrare sé stessi per come si è e ci si sente, è forse la lontananza più terribile che posso immaginare. Non la provo, perché mi identifico in un genere accettato dalla società, anzi, in un genere ad oggi dominante. Non la provo ma posso immaginarla. Anni fa un ragazzo mio conoscente fu picchiato in un bar per aver baciato il suo ragazzo davanti al bancone. Appena me l’hanno raccontato, mi è uscita dalle viscere questa canzone che parla di un bacio, un bacio che si deve continuare a offrire e a ricevere. [FP]

#9

Una delle canzoni più belle in cui viene espresso il desiderio di avere vicino qualcuno che non c’è, è sicuramente La lontananza di Domenico Modugno. Rifiutata nel 1969 dalla commissione del Festival di Sanremo, presieduta da Renzo Arbore – anche i migliori prendono cantonate – sarà portata da Modugno al Cantagiro del ’70. Sarà un successo incredibile. Il fatto che il testo sia stato scritto (sì, certo, e molto rimaneggiato da Modugno) nel 1968 da una Enrica Bonaccorti non ancora ventenne, la rende incredibile. [BB]

#10

C’è stato un tempo, quando non scriveva romanzi, che ho amato Vecchioni. Mi sono sempre crogiolato nel senso di malinconica assenza per ogni amore finito che questa canzone riesce così bene a descrivere. [BB]

#11

Maledetti… aspettavo che qualcuno ce la mettesse e voi niente, lasciate  a me il lavoro sporco. Come sempre. Vabbè. Una canzone che ci hanno provato tutti a cantarla, ma che si può ascoltare in un’unica interpretazione, sennò diventa una roba da piano bar, quella di Brel. Una canzone che, nonostante la sua perfezione formale o forse proprio per quella, non può prescindere dalla voce e dal corpo del suo autore. La disperazione per la futura assenza, di cui questa chanson è il rito apotropaico, la senti solo se a cantartela è lui, il grandjaques. [BB]

#12

Ha ragione Boris. Bisognava mettercela. E aggiungere anche l’unica cover di quel pezzo che meriti di essere ascoltata. Nooo… Non quella di Patty Pravo. Quella di Gigi Proietti. Anche in memoria. [PI]

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(Quasi)