Lo 0-0 dimenticato

Mabel Morri | Play du jour |

Nei corridoi degli intellettuali sportivi, quelli che creano la discussione e digressione su tattiche, statistiche, analisi varie, non tutti sono così noiosi, arcigni quasi nel puntare il dito o trovare per forza la notizia se, per dire, Dybala non ha ancora trovato la forma, alcuni alimentano davvero l’argomento e la narrazione del calcio, sottolineandone alcuni aspetti. Ultimamente, per esempio, va di gran moda parlare dello 0-0.

Un articolo sul sito “Ultimo Uomo”, nel loro solito modo disincantato e scanzonato, elenca una serie di 0-0 (non necessariamente i più entusiasmanti, spesso persino i più soporiferi) che hanno accompagnato il campionato negli ultimi dieci anni.
Il quotidiano “Domani” che non si sta distinguendo sicuramente per i suoi pezzi sullo sport, nell’edizione di martedì 17 novembre 2020 dedica al tema dello 0-0 un trafiletto a pagina 15 a firma di Pippo Russo.
Noi di QUASI ovviamente non siamo da meno, sempre al momento giusto nel posto giusto, allacciandoci le stringhe di pantaloncini e scarpini, rigorosamente Copa Mundial Adidas 6 tacchetti. Siamo gente da 0-0, costruiamo occasioni su occasioni, persino una serie di pali e traverse, e quello che ci rimane in mano è magari uno striminzito punticino, ma che senso di compiutezza, privo di rimorsi e sensi di colpa, perché si è data l’anima.
Gianni Brera definiva lo 0-0 il risultato perfetto, io lo bramavo soprattutto nei derby, un po’ perché con l’età sono diventata un pelino più sportiva e un po’ perché di solito il Milan nei derby perde. A ogni modo, ricordo ancora il turpiloquio di uno spettatore, uscendo da San Siro sulle scale che conducevano fuori, sbraitare per i soldi spesi per assistere a uno squallido pareggio a reti bianche.
Lo 0-0, il risultato ideale per le partite di Coppa in casa dopo un 1-1 in trasferta, perché il gol fuori casa valeva doppio. Nella Coppa dei Campioni 1987/88, quella del Napoli di Maradona che uscì al primo turno contro il Real Madrid, il futuro vincitore di quella Champions, la squadra olandese delle lampadine Philips il PSV Eindhoven, lo usò due volte, nei quarti di finale contro Le Girondins Bordeaux e in semifinale contro quello stesso Real che aveva eliminato i partenopei. Regola che qualcuno ha pensato di ridiscutere nel momento in cui il calcio è tornato nella quotidianità dopo la prima ondata di Covid-19 per il semplice fatto che in quel ritorno le partite si giocavano tutte fuori casa, in città con pochi contagiati, regola che quindi, a quel punto, non aveva più molto senso. Regola che è ancora lì, perché nel frattempo sono ricominciate le partite negli stadi di casa.

Naturalmente ci sono motivi plausibili per cui c’è nostalgia persino dello 0-0, in un momento storico nel quale si ha nostalgia di qualunque cosa.
Tra le prime c’è il cambiamento strutturale del gioco del calcio. Se in anni passati un* stopper poteva avere anche due ferri da stiro al posto dei piedi o un’ala potesse non usare mai il destro, oggi un* giocator* deve essere il più complet* possibile, dai fondamentali all’eccezionalità. Ovviamente non sempre si riesce ad avere giocator* completi, il ruolo nel quale si gioca è spesso ciò che preclude la completezza stessa e, soprattutto, gli schemi che si vanno a interpretare. E poi ci sono le caratteristiche nelle quali si eccelle con tanto allenamento: il colpo di testa, il tiro da lontano, la corsa, il dribbling eccetera.
Inoltre è cambiato proprio il modo di giocare, i giocatori sono multifunzionali: è il caso del portiere, il quale oggi se non sa giocare la palla ha meno probabilità di difendere la porta. Lontani i tempi nei quali l’Italia era la patria del catenaccio, oggi anche la squadra neopromossa dalla Serie B è spregiudicata e se la gioca, anche rischiando la goleada. Gli schemi stessi poi sono completamenti ribaltati: è facilissimo oggi vedere l’attaccante solo soletto colpire di testa in mezzo ai due difensori centrali. Perché? Perché oggi si gioca a zona.
L’Italia calcistica ci ha fatto crescere con l’idea che difendere è il verbo, poi sono arrivati gli olandesi e il calcio totale, Arrigo Sacchi e gli spagnoli con il loro tiki taka e giocare a uomo piano piano ha perso il suo fascino. Va da sé che però la marcatura a uomo si usa ancora, pensiamo a Cristiano Ronaldo o a tutt* que* giocator* che se lasci loro un ciuffo d’erba in più scappano e non li si riprende, né loro né il pallone che piuttosto si raccoglie in fondo alla rete.
Il calcio si è evoluto, l’aspetto atletico si è evoluto, persino i giornalisti sportivi e le loro narrazioni si sono evolute, mentre partite in bianco e nero come Italia – Germania 4 – 3 ci sembrano lontane, lente e commoventi.

Una Chiavari piena di gente tra i carruggi che ordinavano pasta, focaccia e gironzolavano con le mani chiuse intorno a sportine, sacchetti e buste di regali.
La solita polleria dove mi piaceva sempre entrare, oggi ahimè chiusa, esponeva la maglia della Virtus Entella prima che la Virtus Entella diventasse l’orgoglio dello sport cittadino dopo la promozione in Serie B. Un conoscente una volta mi raccontò di come era diventato difficile trovare una disciplina per i ragazzi, tutti volevano giocare coi colori biancazzurri e la selezione, anche nelle categorie pulcini, era durissima. Se poi non giocavi a calcio eri praticamente un escluso. Non ricordo che cosa fece fare al ragazzino come attività sportiva, ma tanto l’atmosfera era comunque triste: il Ponte Morandi era crollato appena il giorno prima e lui stesso era uno che lo percorreva quattro volte al giorno.
L’ultima volta che sono stata allo stadio a vedere una partita dal vivo era il 26 dicembre 2019. Un recupero, nulla di più, da giocare nell’intervallo tra il Natale e il turno di campionato del 29 dicembre. Al Comunale di Chiavari si giocava il derby del Tigullio Virtus Entella – Spezia.
A ricordarlo adesso, un adesso pandemico nel quale gli assembramenti soprattutto quelli da stadio sono preclusi dai vari dpcm, sembra sia trascorso un’era geologica.
L’idea era nata all’improvviso: la classica stanca tra passeggiate con i bimbi, aperitivi, pranzi, cene, damigiane di bianchetta e vermentino, un Natale riuscito in attesa del capodanno, sempre in casa sempre altamente alcolico. Guardo se gioca L’Entella (ci guardo sempre quando sono in Liguria, insieme al Genoa) e dico, tra un bicchiere e l’altro, che giocano al Comunale ed è persino il derby.
Ci muoviamo in strada, lo stadio è vicino, una passeggiata di una ventina di minuti. Intorno allo stadio che come da urbanistica di inizio Novecento veniva costruito in città, orde di tifosi con sciarpe, cuscinetti e bandiere si accalcano nei bar a bere, a chiacchierare, a progettare chissà qualche petardo contro gli spezzini. All’angolo della via di una delle entrate, un negozio con le saracinesche alzate appena sopra delle finestrelle vendeva i biglietti a chi non aveva l’abbonamento.
Sembra una grande famiglia, mezza città e altrettanti spettatori dai paesini limitrofi arroccati dietro la linea del mare (in linea d’aria dritta per dritta, ‘che già passato il fiume Entella c’è Lavagna) si sono riversati in quel mega rave party calcistico.
Il gelo che noi famiglia e mio cognato abbiamo sentito quella notte sugli spalti è qualcosa che è rimasto da qualche parte, nella curva delle nostre rughe, mentre le tre birre che abbiamo bevuto sono rimaste ghiacciate anche finite. Il fatto di essere in curva con i tifosi storici (avremmo scoperto poi che persino nella tifoseria della Virtus Entella ci sono dei daspo) aveva certo un altro sapore soprattutto negli insulti che venivano lanciati nel secondo tempo al povero Scuffet, che alla curva dava le spalle ed ex portiere prodigio che a 18 anni avrebbe potuto andare all’Atletico Madrid dall’Udinese e che invece ha girato un po’, passando da La Spezia, per tornare ai friulani senza lasciare nessun particolare segno indelebile.
Bellissima atmosfera nonostante tutto mentre Scuffet non fa altro che parare qualunque pallone capiti dalle sue parti, reagendo così all’ostilità dei tifosi padroni di casa. È che il livello di Scuffet è palese, quello nei fondamentali non è un portiere da B e lo si nota in ogni dettaglio, dal passaggio di piede a come si posizione nell’area, sia che la palla sia vicina sia che sia lontana, sia in possesso sia contro.
Se la giocano, Entella e Spezia, se la giocano in modo ruvido e combattuto, fisico e contratto.
Direi quasi che mi sono divertita e forse la mente mi inganna, perché non è stata una partita divertente nel senso vero e proprio di gara dalle mille occasioni per l’una o per l’altra squadra, ma al contrario credo che la mia mente voglia davvero farmela ricordare così, non foss’altro al pensiero di quando sarà la prossima partita che potrò permettermi allo stadio, qualunque essa sia, in chissà quale stato di sicurezza sanitaria.
È il sorriso con cui torniamo a casa che ancora oggi ci fa ricordare quella partita. E quel gelo.

Spezia – Atalanta giocata sabato 21 novembre 2020 al Dino Manuzzi di Cesena nell’anticipo delle 18 dell’ottava giornata finisce 0-0.
Ancora lo Spezia, però al Filadelfia Gran Torino sabato 16 gennaio 2021 in quella che sarà anche l’ultima partita di Marco Giampaolo come mister dei granata: uno 0 – 0 in una Torino ghiacciata tra due formazioni che arrancano, il Torino per motivi più di testa e morale che non di condizione fisica e atletica, lo Spezia gioca anche bene e si sta difendendo davvero bene nella sua prima volta in Serie A, ma forse è anche per questo che non è sempre lucido, giocare nella massima divisione è costanza e non concede, non certo alle cosiddette “piccole”, il lusso dell’incostanza.
O come adesso, un’altrettanta fredda domenica di metà gennaio, sul divano con una camomilla fumante nella tazza di ceramica rosa dopo un pranzo pantagruelico mentre il robottino circolare gioca con la polvere e la candeggina sotto i miei piedi. Uno 0 – 0 tra Atalanta e Genoa nella partita delle 18, nella freddissima Bergamo e allo stesso modo freddissime emozioni.

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