Un bar che non c’è

Francesco Pelosi | Ritratti |
disegno de La Came

«Pur sapendo che tutto perisce, dobbiamo costruire nel granito le nostre dimore, fossero anche quelle di una notte».

Che ne dici, la scritta sulla porta ti convince?
Certo, il bar è dimesso e non si sa neppure se abbia visto giorni migliori. Ma l’alternativa sono le guardie e la ronda del coprifuoco. 
Lo so, non hai colpa. È capitato a tutti di tirare tardi a casa di amici. Sempre l’ultimo bicchiere, sempre l’ultima sigaretta. E poi di colpo sono le undici. Tardi. Troppo tardi. Fuori c’è l’inverno, la notte e la ronda del coprifuoco. Le guardie.
Ti hanno intravisto inforcare un angolo di soppiatto, o forse hanno sentito il cigolio delle tue vecchie suole sulla neve. E ora ti stanno dietro, lo sai. Cani affamati. Sbavano, ringhiano, corrono. Fanno rumore anche loro sulla neve, e tu non hai quasi più fiato. Sempre l’ultima sigaretta. Sempre l’ultimo bicchiere. Poi lo vedi.
Un bar.
Un bar che non dovrebbe esserci.

Ci passi almeno una volta alla settimana da questi borghi, ma quel bar lì mica l’hai mai visto. Vecchio, cadente. Ma aperto. Aperto a quest’ora? Con le guardie, i cani, il coprifuoco? Ma soprattutto, perché scappi? Te lo ricordi più perché non si può stare in giro a quest’ora? No, nemmeno io. Eppure, meglio correre verso un bar che non c’è, che star fermi ad aspettarli. Tanto ormai ci sei. Luce fioca dai vetri, qualche ombra all’interno. L’odore di usato e di asciugato male solito di questi posti. Tentennando ancora un attimo sull’uscio, hai letto la scritta vicino alla maniglia. Sembra impressa nel legno.

«Pur sapendo che tutto perisce, dobbiamo costruire nel granito le nostre dimore, fossero anche quelle di una notte».

Ti convince? Ma prima ancora di rispondere, sei già dentro. Mentre fuori i cani passano al passo del falco, in sbavante uniforme. E non vedono niente. Non vedono te. Non vedono il bar. Per forza, pensi, non c’è nessun bar qui. Ci passo almeno una volta alla settimana e non l’ho mai visto.
Ma il bar c’è. Ci sei tu. E c’è un barista. Ha la faccia sdraiata sul palmo della mano e il gomito sul banco. Dorme.
La penombra è fitta. Un orologio sul muro segna mezzanotte meno dieci. Il barista dorme. Lo so, non sembra uno di qui, ma fidati, è del quartiere. Lo chiamano Big En. Proprio così, come un grande orologio, ma senza la seconda B. Big En.
In un tavolo in fondo al locale c’è seduto suo nonno, il vecchio Testa Grossa. Il bar è suo.
Ti avvicini per parlargli (non vuoi certo svegliare Big En) e vedi che la sua testa è davvero grossa. Sembra un essere centenario. Rughe in ogni centimetro del volto, occhi tirati come quelli di un asiatico e una grande palandrana che lo avvolge, come fosse un immenso e antichissimo bambino. Un tempo quella tunica doveva essere gialla, ma ora ricorda solo il colore del vomito o delle interiora di un animale spiaccicato.
Testa Grossa non ti risponde. Ti guarda, ti studia e poi prende a scrivere su un biglietto. Testa Grossa non parla. Non parla mai. Scrive soltanto alcuni brevi messaggi, come quello che ti allunga sul tavolo.

«Se hai sete, serviti. Quando si sveglia, chiudiamo». 

Sembra un vaticino, pensi. Il biglietto di un biscotto della fortuna. Butti un occhio fuori. La notte continua in pace. Niente più guardie. Potresti tentare una sortita, ma Testa Grossa ti ha scritto di servirti liberamente. E far nottata al bar è un lusso che non ti concedi più da chissà quanto tempo.
Ti sporgi dietro al bancone, cercando di non urtare Big En, recuperi una bottiglia, ti versi qualcosa. Dal colore non capisci bene cosa sia e nemmeno che sapore abbia. Una strana bevanda, comunque alcolica. Sul banco c’è un piatto pieno di crostini al formaggio, messi lì da chissà quanto. Meglio non indagare.
Una seconda gollata della bevanda anonima e ti accorgi che c’è qualcun altro là in fondo, alla destra del bancone. Te ne accorgi perché ha cominciato ad accordare una chitarra. Non vedi bene il volto, non capisci nemmeno se è uomo o donna. In realtà, nemmeno se è un essere umano. La sola cosa che puoi stabilire, dalla postura adunca e dai gesti lenti, è che anche quel chitarrista è anziano. Molto. Pensi: un bar che non c’è, pieno di personaggi che non ci saranno più a breve.
Il vecchio indefinito sta cominciando a cantare. Le dita (che sembrano zampe) si muovono sulle corde. La bocca (che sembra un muso) si apre. E poco prima che la voce, anzi il verso, di quella che somiglia sempre più a una vecchia gatta possa uscire, un sibilo ti sfiora l’orecchio destro e le va ad impattare sulla testa. Per poco non prendeva anche te.
L’hai visto con la coda dell’occhio. Un grosso mattone arancione. E mentre ti giri per vedere chi lo ha lanciato, il bastardo sta già correndo fuori, con la porta che si richiuda alle sue spalle in un grosso «SLAM!».
Non hai nemmeno il tempo di pensare, che senti il vecchio Big En lamentarsi. Il rumore lo ha svegliato.
Testa Grossa e la vecchia gattina che si è appena presa una mattonata lo guardano con apprensione. Big En, ancora con la faccia sdraiata sul palmo della mano e il gomito sul banco, mugugna, biascica, tira su col naso, e poi si riaddormenta.
La gatta e Testa Grossa sembrano sollevati. L’orologio sul muro segna la mezzanotte. E d’improvviso, il vecchio Big En esplode in uno starnuto.

«CHOW!», fa. 

E si sveglia.

E Testa Grossa svanisce. Svanisce la vecchia gattina. Svanisce il bar. E svanisci anche tu.
Sul muro, in mezzo alla notte invernale, rimane una scritta:

«Pur sapendo che tutto perisce, dobbiamo costruire nel granito le nostre dimore, fossero anche quelle di una notte».

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(Quasi)