Du’ etti

Lorenzo Ceccherini | Il bassista non se lo incula nessuno |

Per questa settimana il comitato centrale della compagine quasista ha promulgato un tema che parrebbe un invito a nozze per chi tratta di musica. Ovviamente, in virtù di una malmostosità essenziale come una stella di neutroni di malumore compattato, la mente del bassista, che di suo tende al semplice anziché no, e quindi parte dall’idea di raccogliere dalla memoria e dal wèbbe duetti di musicanti vari, ingrana improvvisamente la retro e va alla cieca dove la portano le associazioni di idee, sottraendosi a questa opportunità decisamente amichevole nei confronti di illetterati della bande dessinée come me.

Certo, si fa presto a dire «due», ma cosa distingue un duetto da una coppia? Così a occhio direi che il primo accetta di dover essere necessariamente transitorio, lo si mette su per un’occasione, spesso in via eccezionale. La seconda invece è una società che affronta i patimenti e le corrosioni del tempo in cambio di un percorso insieme. Il primo ha un connotato performativo, la seconda affettivo. Difatti, nello showbiz musicale ci sono duetti, non coppie, a parte poche eccezioni, alcune abbastanza sui generis, tipo Ike e Tina, con tutte quelle botte e quella droga, o Jack e Meg White, divorziati prima del successo ma colleghi nei White Stripes, dove davano a intendere di essere fratello e sorella. Poi ci sono Beyoncé e Jay-Z ma quella è anche un’azienda. Insomma, coi duetti ci si fa le serate e gli album acchiapposi (Sinatra, Elton John), con le coppie, meh, più i film.

Il primo duetto che mi viene in mente è un gelato. Non penso molto all’infanzia, o all’adolescenza, se è per questo, e neppure ai vent’anni (o ai venticinque), età sulla quale la penso come dice quell’incipit di Paul Nizan e pure peggio, almeno per quel che mi riguarda. Rovistando poco da quelle parti, evoco raramente ricordi, non molte immagini riaffiorano – ma lo spunto del duetto ha pescato in un cassetto di memorie quasi sicuramente estive, sufficientemente aspecifiche da consentir loro di riemergere prima di essere obliterate da qualche bomba di profondità.

A luglio si andava, per tutto il mese, in campeggio in Maremma. Più o meno al centro di questo campeggio c’era un bar, piuttosto grande, e i gelati – si era ancora ben lontani da consumazioni più mefistofeliche – erano di marchio toscano. Uno, antesignano, se non intendo male, del Cucciolone (un prodotto legato al fumetto dalla mano di Giorgio Cavazzano che, per un po’, lo «illustrò») era, appunto il Duetto. Doppio biscotto con una successione vaniglia-cioccolato-vaniglia. Mi piaceva parecchio, quindi non mi soffermai mai a chiedermi a cosa alludesse il nome? Due strati di biscotto? Due gusti, però disposti in tre bande? Boh!

Muovendosi un poco oltre negli anni di apprendistato, quando invece si girava a caccia di consumazioni più impegnative, Duetto divenne la macchina del mio amico Francesco, con cui, per diverso tempo, in girum ibamus nocte et consumebamur igni. Che poi, Duetto non era neppure un marchio registrato da Alfa Romeo (avevano indetto un concorso per dare un nome al modello ai tempi della prima serie, nel ’66, però il candidato vincente non poté essere registrato perché, evidentemente, pestava i piedi a qualche altro marchio) ma questo non gli aveva impedito di divenire di uso comune per tutta la storia dell’Alfa Romeo Spider nelle sue quattro serie. Quella che ricordo io era la terza, di un verdino metallizzato forse non ideale ma, nondimeno, una macchina con tanta personalità, ammesso che si possa parlare di personalità riferendosi a un carro col motore a scoppio.

Dal gelato alla macchina, a stati di agitazione intellettuale permanente

Il duetto era un po’ anche la modalità preferenziale della drammaturgia esistenziale della nostra gioventù. Si girava spesso appaiati in sodalizi più o meno catafratti di best friends, sostanzialmente respingendo all’indietro l’incombenza del domani e giocando con le «figurine» preferite: libri, musica, film, un posto nuovo aperto in provincia, un concerto strambo (a volte il tuo…), racconti di viaggio (per chi si muoveva di più) e tanto tirar tardi.

Oggi che tutto questo è stato, come lifestyle indifendibile nel lungo termine – a meno di non essere un rampollo tatuato e/o drogato di qualche ricco patrimonio familiare – smobilitato e smembrato nell’autoclave della vita adulta, il gusto del gioco con le figurine si è abbastanza salvato, per fortuna, e non era scontato. Sempre con un ruolo significativo da parte di amici e persone ancora più vicine. Il domani non si può più respingere: resta un tentativo di addomesticare l’agenda, il calendario, di sistemarsi un po’ mentre il nastro trasportatore dell’entropia ci accompagna, con calma, ma neppure troppa, verso il fine corsa tra un po’ troppi dardi e oltraggi.

Il bassista da salotto non fa duetti. Anche nella modalità da lockdown vedi più che altro i professionisti, e gli amatori mooooolto avanzati, che mettono su i video con i loro amici, duetti, trii, quartetti. Noi non se ne sono fatti prima né durante. Anche perché che duetti vuoi fare: basso e…? Basso e batteria va bene, benissimo in sala prove, per studiare, per agganciarsi sul groove, sul tempo ma, diciamocelo, nessuno vuole sentirci. A meno che uno non sia Victor Wooten, Henrik Linder, Les Claypool (indizio: no, non lo siamo).

Senza la pandemia i duetti possono capitare, al saggio di fine corso alla scuola di musica. Ma difficile che accada per un bassista. Con la pandemia, lasciamo stare.

E allora, non resta che tornare là dove non si poteva non andare, la retromarcia innestata non evade l’ineluttabile: il duetto musicale. E sia. Senza infilarsi in un manuale scombiccherato di storia della musica con elementi di teoria, armonia e solfeggio ritmico coi gomiti, basterà dire che il duetto non è esattamente, come il bassista cialtronescamente suggeriva poco fa, una esecuzione limitata a due voci/strumenti ma un brano nel quale quei due (voci o strumenti) hanno uguale importanza. Quando le persone sono proprio due e solo due allora quello lo chiami duo.

Oh, mettere in chiaro questa cosa è fondamentale, anche perché ci fa ricordare che non tutte le voci o tutti gli strumenti sono uguali, c’è, necessariamente, chi conta di più. È una regola di mercato. Così il duetto altro non è se non due tizi/e in evidenza, con dietro tutti gli iloti a suonare per loro. Se andiamo a vedere chi punta sul termine «duetto» per farci un album intero troviamo: Frank Sinatra, Elton John, Sting, Tony Bennett, Kenny G (cazzo, Kenny G…), Cristina D’Avena (cazzo, Cristina D’Avena…), Barbra Streisand, Notorius B.I.G., Paul Anka e altri ancora. Andando sui pezzi singoli, più facili da piazzare (e anche da realizzare), la lista può essere sterminata. Che volete metterci? David Bowie & Queen per Under Pressure?  Cornell e Vedder in Hunger Strike dei Temple of the Dog? Peter Gabriel e Kate Bush in Don’t Give Up? (a me garba un sacco Alone and Forsaken fatta da Neil Young e Dave Matthews ). Va bene un po’ tutto però più spesso che no il duetto deliberato, pubblicato, è una marchettata molto pop(olare), questa è l’idea che mi sono fatto. Quando ci sono delle «ospitate» estemporanee, o sono dal vivo, e allora magari c’è un video in rete, oppure non è che ci sia tutta questa fanfara. Faccio due esempi, tutti e due prelevati dalla discografia dei Placebo:

  • A Bowie i Placebo gli sono garbati da subito e non ne ha fatto mistero. Without You I’m Nothing però funziona in quel modo sventrante solo con Bowie, c’è poco da fare. Non sono un collezionista, per sapere di discografie devo andare su Wikipedia, però mi pare che non abbiano pubblicato questa versione, almeno non in uno degli album. Spiattellata a tutto volume consente di apprezzare le voci dei due e l’accordatura aperta della chitarra di Molko, un ingrediente fondamentale.
  • Nell’album Meds, del 2006, troviamo Broken Promise, un pezzo con Michael Stipe. Per scoprire che c’è Michael Stipe devi arrivare a sentirlo, farti venire il dubbio e cercare tra i credits (o in rete, se avevi usato altri mezzi e la cover art e il retro non erano inclusi, non diciamo altro). Non ti hanno fatto passare il dirigibile sopra casa con su scritto PLACEBO+MICHAEL STIPE IL DUETTO, ti becchi il pezzo quando ci arrivi. Tieni il volume su, la pettinata non tarderà.

Alla fine però ci piacciono sempre gli incontri tra celebrities, un po’ come nell’aneddoto (fortunatamente apocrifo) del figlio evocato da G.B. Shaw (o Anatole France, a seconda delle versioni) come frutto di una relazione con Isadora Duncan («se avesse la mia bellezza e il suo cervello?»), bramiamo vedere cosa ne viene fuori. Che dire, a volte funziona, e il risultato si nutre del meglio delle parti, altre volte, mah, la puzza di marchettata prevale.

E allora, dal chiuso del salotto, prima che torni il sabbione infuocato della settimana lavorativa, con una mossa di stampo conservatore e passatista, dirigerei il puntatore del mio mouse verso i due esempi che non hanno smesso di baluginarmi in mente quando si è trattato di pensare a che diamine si scriveva questa settimana.

Uno, Duke Ellington e John Coltrane. Duke, tra l’altro era l’unica persona verso la quale Charlie Mingus mostrasse una deferenza assoluta, una reverenza vera e propria verso un essere al quale era complicato anche solo rivolgere lo sguardo. E Mingus era difficile, oh se era difficile. Ho sentito raccontare la storiella da Fran Lebowitz qualche sera fa (su Netflix, non è che vado a bere con lei e Scorsese…). Insomma, Ellington e Coltrane, siamo agli inizi dei ’60 e Ellington è abbastanza incline alle collaborazioni – una è questa, del 1962, e l’album-duetto vive in un quartetto a composizione variabile ma con i due sempre capisaldi inamovibili. In a Sentimental Mood è il pezzo di Ellington, scritto nel 1935, che apre l’album. Se immagino di venire assaltato (a New York, rigorosamente) da un misto di spleen esistenziale e gratitudine per la vita, la musica è questa.

Due, Bill Evans e Chet Baker. Tutti e due bianchi, tutti e due alle prese con la droga, tutti e due lirici, melodici, ricercatori infaticabili di una voce. Però la vedevano diversamente su tante cose, il modo in cui affrontavano la musica era essenzialmente diverso: Evans, con una formazione musicale professionale, era sistematico, preciso, meticoloso e, almeno a suo dire, non lasciava che l’eroina condizionasse le sue prestazioni (discutibile, visto che una volta si è messo fuori gioco un braccio con una iniezione maldestra) – Baker, l’autodidatta, la star in picchiata in un classico gorgo da eroinomane. In studio insieme ci sono stati una manciata di volte, pochissime, e i frutti sono raccolti nell’album The Legendary Sessions. Entrambi hanno fatto, in conto proprio, cose più rimarchevoli, però sono affezionato a questo duetto di incompatibili che, forse, avrebbero potuto fare di più. Ma, si sa, ho un debole per i potenziali accennati e poi dispersi.

Menzione d’onore: al contrabbasso in The Legendary Sessions c’era Paul Chambers. Un mostro. Anche lui mangiato dal baco dell’eroina e dell’alcool, morto a soli trentatré anni.

Il bassista da salotto, intanto, controlla la pressione arteriosa e cura il livello di idratazione, cercando di bere almeno un litro e mezzo d’acqua al giorno.

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