La grolla: Duetti

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[A cosa serve una redazione molto unita e giocosa se poi si rinuncia a giocare? Non lo possiamo sapere, perché facendo QUASI giochiamo un sacco, tutto il tempo. Questa volta, ci siamo dati una regola semplice – raccontare il tema della settimana in poche righe, proseguendo il discorso iniziato dagli altri. Siccome siamo più conviviali che surrealisti, il nostro cadavere squisito si chiama “La grolla”, come una tazza multibecco e una pratica di consumo comune che, in questo periodo, sono più illegali del crack.]

Art Spiegelman dice che i soli fumetti che vale la pena leggere sono quelli realizzati da un autore unico, responsabile tanto delle parole quanto della messa in pagina. Afferma, con assoluta certezza, che la scomposizione dei mestieri fa perdere senso al racconto. Tutto deve essere opera di un individuo che ha un controllo completo sul ritmo, sulla tensione e sulla pagina disegnata. Afferma che non esistono fumetti prima scritti e dopo disegnati. A quel punto, c’è sempre qualcuno che gli fa notare l’anomalia rappresentata dalla coppia argentina composta da Carlos Sampayo e Jose Muñoz. I due, dichiarano di aver lavorato alle proprie storie distinguendo chiaramente i loro ruoli: il primo scrive e l’altro disegna. A quel punto, Spiegelman, senza scomporsi, afferma: «Cosa c’entra? Carlos e José sono un autore unico con due teste e quattro braccia.» [PI]

Due teste e quattro braccia farebbero comodo. Le due teste come Giano, una guarda avanti, l’altra contempla il passato, e ti difende da attacchi alle spalle. A volte mi sembra di essere così; due teste, ma non disposte in modo simmetrico o funzionale, due teste di cui una, pardon my french, nel culo, e quattro braccia per fare troppe cose insieme. Ho visto un mockumentary sui Troll, Troll Hunter, è del 2010, un gruppo di ragazzi con una videocamera si accoda a un cacciatore di Troll, che compie imprese coraggiosissime ma con lo scazzo e la disillusione del dipendente pubblico. Quando compare un gigante con tre teste, spiega che una sola testa è vera, le altre servono a farlo sembrare più grande, e attraggono le femmine.
Mi sono domandata: sono stata attratta da uomini con tre teste? Ci sono uomini che sono stati attratti dalle mie tre teste? Credo di sì. Quella creatura sgraziata, enorme, con tante teste è la metafora mostruosa di una normale serata in un locale pre armageddon del covid, sei lì, fai il giocoliere con le tue personalità, sperando di agganciare un partner, ma anche solo di fare bella figura, si parla di musica, sotto con una band indie che ha fatto un EP in Islanda, si parla di serie tv e via con la serie a cartoni animati su Hitler all’asilo prodotta in Andorra, eccetera. Ma, ci insegna il cacciatore, la testa vera è una sola. Si può sperare che non venga subito identificata, da cacciatori o interlocutori troppo fighi. [AS]

Interlocutori troppo fighi, quanti ne abbiamo subiti. Di quelli seduti sulle panchine di Hong Kong, a tamburellare con le dita sul legno, in attesa che tu dica la tua battuta spaesata di accompagnamento sul come mai anche loro sono lì. E dopo averti guardato con aria torva, lasciando nell’aria la giusta pausa di silenzio, non possono che risponderti che «non è mica tua Hong Kong». O peggio, quelli che mentre sei in prigione ti vengono a trovare in sogno, ma senza tutte le belle donne e i tesori con cui si sollazzano abitualmente. E non puoi nemmeno lamentarti di non essere mai invitato in quei loro stupefacenti mondi onirici, perché stai certo che quell’interlocutore sarà così figo da risponderti: «non è colpa mia se sogniamo sogni diversi». [FP]

Chi nasce unico e chi nasce doppio.
Chi nasce con nella testa aria e chi dentro ha continuamente un tic tic tic, uno scoppio.
Chi nasce per fare un duetto, chi un trittico chi un bondage.
Ma nella testa.
Quella in testa.
Tutti insieme cantano.
Tu, il tuo doppio e il tuo cuoricino escamotage. [AF]

Che poi il tema del doppio sa di solipsismo con lo sconto «prendi due paghi uno». Sei sempre tu ma ti ingegni in modi sempre più ulteriori a creare una frattura, una differenziazione, a occupare spazi narrativi delimitati con caratterizzazioni polarizzate. Sarebbe sana una frammentazione inconclusa, il plurimo, i molti dentro, disorganizzati, confusi, sovrapposti. Due ma proprio due insospettisce – è un inside job, solo un altro tentativo di deflettere l’angoscia dell’esistere e la lotta con quel senso di responsabilità che pare esservi attaccato. Una variante sul tema? L’io invaso, l’alieno dentro o intorno. Un incapsulamento dell’orrore suscitato da quel che appare imponderabile, inevitabile. Viene in mente l’Horla di Maupassant, alla fine non fa niente, è giusto una presenza quasi impercettibile che turba, però, in un modo essenziale, assoluto. Le voci dentro, quelle più preoccupanti, sono quelle silenziose. Ma d’altro canto, il monologo interiore in perfetta solitudine non appare molto più attraente. [LC]

Non appare molto più attraente, pensa, rispetto al giorno prima. E perché mai sarebbe dovuto essere più bello? O anche semplicemente meglio? Continua a guardarsi nello specchio, senza sentire nessuna voce profonda ma, anzi, scrutando con orrore le piccole variazioni che si rivelano sempre più evidenti. Affonda lo sguardo nei pori, penetra nelle rughe che si allargano come vallate senza fine, senza capire dove iniziano e dove, purtroppo, finiscono. È un rito ormai quotidiano quello che officia, in sostituzione di quello, ormai abbandonato della bilancia appoggiata alla parete.
Decide che ha già guardato a sufficienza. Ha già confrontato quello che era ieri con quello che è diventato oggi, sperando che l’immagine del domani che si sta proiettando non si realizzi. Passando nella sala ancora in penombra, accende la lampada accanto al divano, si allunga e prende un libro a caso dalla pila di volumi iniziati. Lo apre alla pagina indicata dal segnalibro e inizia a scorrere velocemente le parole. Senza ricordare dove si era fermato la volta precedente, ma semplicemente immergendosi a corpo morto in quel flusso di concetti e di pensieri. Tanto è sicuro che assaporerà la soddisfazione nell’allontanarsi da tutto quello che lo circonda e ritrovare, forse, la perduta Xanadu. [OM]

Legge qualche riga e subito si distrae e pensa – Sono solo. E allora con chi sto parlando? Chi è che sta leggendo? – Dopo poco abbandona la sala e torna allo specchio. Si riguarda, ma questa volta negli occhi. Poi torna di nuovo sul divano. Riprende in mano il libro, lo chiude e lo lancia nel camino – Grazie al cielo c’è il fuoco, – sospira vedendolo infiammarsi e continua – nessuno merita di perdere tutto quel tempo -. In attesa dell’ultima fiammata nera il pensiero è ormai partito. – Per comunicare bisogna essere in due – dice tra sé – e in questo libro l’autore ha parlato da solo -. Ecco perché non l’aveva mai finito di leggere. [LL]

«Non vi capisco più», esclamò lo scrittore portandosi le mani al petto, vittima di una dolorosa fitta. Aveva perduto quell’empatia con i suoi lettori che lo aveva sempre caratterizzato, quell’introduzione che aveva sempre preceduto le recensioni dei suoi libri che lo ha sempre fatto sentire amato e seguito. Perduto, ma non del tutto. Non capiva come, tantomeno il perché, ma ogni volta che un lettore non apprezzava un suo libro veniva colto da una fitta al torace. Lo aveva scoperto mettendo insieme alcuni indizi, ricostruendo gli sguardi imbarazzati di alcune serate in compagnia, i mezzi sorrisi durante una sessione di dediche in libreria, sempre alternati a quei dolori, fino a prima inspiegabili, di quelli che vai dal medico e ti dice “stress”, quando non sa a che altro santo rivolgersi. In questo esatto momento percepiva chiaramente che qualcuno aveva – addirittura! – gettato un suo libro nel caminetto. I suoi tessuti di parole non attraevano più come un tempo, la sua lingua studiata e calibrata non emozionava… era rimasto solo. Solo, lui con i suoi mondi. (CC)

Ma torniamo a noi. Muñoz e Sampayo, che noi qui chiamiamo Mugnoz e Sampaio ma in realtà ho scoperto due settimane fa che si pronunciano Mugnós e Sampascio, sono protagonisti di una storia a fumetti, oltre che della Storia del Fumetto. In La vita non è un fumetto, Baby I due vanno a trovare Alack Sinner e lo seguono, come ospiti scrocconi e invadenti, nella “risoluzione” di un caso di spionaggio, estorsioni, imperialismo, omicidi istituzionali e pianificazioni di golpe. Alack li tollera con affetto, così come tollera tutta l’umanità, amandola da una certa distanza mentre cerca di non farsene uccidere. Mugnós ha i capelli lunghi e Sampascio non smette mai di parlare e fumare. A un certo punto Mugnós ha un’idea per il prossimo episodio, e questo, se fosse vero, smentirebbe il fatto che prima uno scrivesse e l’altro disegnasse, ma essendo il testo di un balloon, si presuppone lo abbia prima scritto Sampascio, e solo in seguito Mugnós disegnato. Ma se lo avesse vissuto Mugnós e poi Sampascio scritto? [GT]

Già, scusa. Che domanda retorica. Quel titolo (La vita non è un fumetto, Baby) è una litote perfetta. Nega affermando che la vita è tutto quello che ci va che sia. Figurati se non può essere anche un fumetto. E figurati, soprattutto, se il fumetto non può raccontarti una vita. Poi, se ti dice culo, la tua vita – o una di quelle che leggi – te la raccontano Muñoz e Sampayo; se ti dice sfiga ti toccano un Michele Masiero e un Alessio Avallone. Ed è assolutamente irrilevante… cioè no, non lo è. Ma sono questioni tecniche su chi scrive come è fatta la pagina e chi la pagina poi la disegna come deve essere fatta; al lettore quello che interessa e arriva è la pagina. Che sia lo sceneggiatore, che sia il disegnatore o che sia l’alchimia tra i due, se quella pagina funziona o meno lo sa il lettore, il resto son cazzabubbole da mestieranti mediocri. Comunque… è assolutamente irrilevante come funziona il rapporto tra chi scrive e chi disegna. Quello che è rilevante è come lo leggo io, che sono quello che decide se quel cazzo di duetto mi scombussola il didentro al punto di avere voglia di andare avanti a leggerlo, sentirlo e guardarlo, oppure no.
Come sempre, e come non viene mai abbastanza sottolineato, a prescindere da tutti i fottuti duetti autoriali di questo mondo di merda, è il mio- e pure il tuo, ‘nsomma quello del lettore- il lavoro più difficile.
Se pensi che non solo lo facciamo sempre a gratis (e se Paolo me lo corregge, stavolta mi incazzo [non lo correggo, ma mi dissocio]), ma spesso paghiamo per tradurre in senso le opere tue e di tutti gli altri Art Spiegelman del fumetto, concedici, quel tanto di credito che meritiamo. [BB]

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