Sette argomenti per cominciare una storia del Pop–porno

Boris Battaglia | Visiting Professor |

Intro.

Qualsiasi definizione in assoluto della pornografia, scriveva Romano Giachetti nel suo fondamentale Porno Power: Pornografia e società capitalista, Guaraldi, 1971, è falsa in partenza. Categorie come osceno, erotico e pornografico non sarebbero altro che raggruppamenti occasionali e variabili che la morale pubblica di una società propone e accetta per relegare in un ambito controllabile (e spesso censurabile) ciò che la infastidisce. Soprattutto la rappresentazione esplicita dell’atto sessuale. Insomma. La pornografia non sarebbe altro che, (e tiro un po’ per la giacchetta – ma neanche tanto – le conclusioni della commissione Nixon del 1970 su pornografia e oscenità) una sovrastruttura merceologica nella quale vengono classificate tutte le possibili forme di mercificazione dell’atto sessuale (più o meno – a seconda delle varie sensibilità morali delle società – esplicite). La pornografia non è altro che merce. Ha il suo peso nel mercato e la supposta libertà del mercato, nella società capitalista, non si può toccare. Così proprio nel 1970 Richard Nixon fa carta straccia, dopo due anni di lavori (la commissione su pornografia e sessualità era stata fortemente voluta e presieduta, nel 1968, da Lyndon Johnson), delle teorie dei nemici della pornografia che ci vedevano la punta di diamante di un ethos trasgressivo e anarchico che avrebbe minato e sfaldato la società americana (cfr. W. Kendrick, The Secret Museum: Pornography in Modern Culture, University of California Press, 1996).
Eversiva, un cazzo!, concludono le autorità governative, la pornografia è espressione della libertà del mercato (qui potresti invece leggerti Giancarlo Grossini, I 120 film di Sodoma: Analisi del cinema pornografico, Edizioni Dedalo, 1982). Pilastro dell’economia dell’intrattenimento. Ma questo non significa che la pornografia è, almeno dall’invenzione del cinematografo, roba reazionaria. Perché sostenerlo sarebbe come ridurre la categoria pornografica solo allo specifico filmico. La questione è un pochino più complessa.
Infatti la pornografia è uno dei discorsi possibili sulla sessualità. Marie-Françoise Hans e Gilles Lapouge (in Les femmes, la pornographie, l’ erotisme, Paris, Editions du Seuil, 1978) sostengono che essa sia il necessario commento senza il quale la sessualità non può realizzarsi. Ma, abbiamo visto, la pornografia non è un discorso unico, univoco, uguale per tutte le culture e per tutti i campi dell’espressione umana. Lo dice Susan Sontag (ne L’ immaginazione pornografica, contenuto in Interpretazioni tendenziose, Torino, Einaudi, 1975, pp. 33 – 63) che la si potrebbe considerare piuttosto come una macrostruttura, nella quale si articolano gerarchicamente tutti i macro-generi della comunicazione: letteratura, fotografia, cinema, fumetto. A loro volta questi generi si suddividono, nell’ambito della categoria pornografica, in discorsi e sottodiscorsi diversi a seconda del soggetto che li enuncia. Proprio Susan Sontag ha poi dimostrato come la pornografia possa essere «una modalità o una convenzione artistica minore ma interessante».

Uno.

Nella Parigi degli anni sessanta del diciottesimo secolo, tra i frequentatori dei salotti dell’intellettualità illuminista, potevi incontrarci il giovane Nicolas-Edme Restif, più noto dopo il successo della sua prima opera letteraria (La Famille Vertueuse) come Restif de la Bretonne. È un tipo visionario, che si diverte a immaginare una società riorganizzata secondo criteri razionali. Così nel 1769 dà alle stampe il primo di una serie di cinque volumi nei quali esprime con fervore come dovrebbe essere riformata secondo lui la società del tempo. Da gran frequentatore di bordelli quale è, dedica questo primo volume alla discussione di un progetto di riforma e riorganizzazione statale della prostituzione, e lo intitola – recuperando genialmente un termine desueto da secoli (almeno dai Dialoghi delle Cortigianedi Luciano di Samosata): Le Pornographe. È un attimo e il termine pornografia dilaga a designare testi e immagini (che intendiamoci è comunque roba esistente da sempre e ben diffusa almeno dall’invenzione della stampa) rappresentanti sesso esplicito. Ma la prima volta che questo termine fa la sua comparsa in età moderna è in relazione a un’opera politica. Non eversiva, certo, quanto piuttosto, si direbbe oggi, riformista. La rivoluzione (quella francese) è dietro l’angolo. Ci mancano solo vent’anni. Non sarà certo la pornografia a scatenarla, ma in questi vent’anni un profluvio di opere che proprio a partire da qui verranno dette pornografiche (da quelle filosofiche di De Sade a cose dozzinali e meramente descrittive) invadono la Francia con uso fortemente politico. Robert Darntonnel suo L’intellettuale clandestino (Garzanti, 1990), disegno storico della letteratura francese sotto l’Ancien Regime, sostiene che queste opere avevano un valore propagandistico superiore persino a quelle di Rousseau. Mettevano alla berlina l’aristocrazia e il clero raccontando le loro pratiche sessuali contrarie all’ipocrisia morale di cui si ammantavano. Questa letteratura, che veniva raggruppata sotto la categoria pornografica, era profondamente radicale. E in qualche modo concorse a creare quel clima intellettuale che portò poi alla sovversione della monarchia assoluta.

Due.

Certo. L’uso politico, in senso anche eversivo, della pornografia ci dà, tra la seconda metà del settecento e il primo decennio dell’ottocento, capolavori letterari assoluti. Diderot con I gioielli indiscreti, Sade con i suoi romanzi sterminati, lo stesso Restif con la sua AntiJustine, e poi De Musset. Se preferisci la letteratura anglosassone puoi dedicarti al testo che sconvolge l’Inghilterra puritana, la Fanny Hill di Cleland. Poi basta. I libri e le stampe pornografiche scivolano lentamente ad alimentare un mercato clandestino destinato più che altro alla soddisfazione dell’onanismo maschile borghese. Certo. Ci saranno ancora e a lungo accuse e processi per pornografia e oscenità contro autori, diciamo, grandi: Flaubert e Baudelaire, Zola e Maupassant, Mirbeau, Lawrence e Joyce finendo con Miller. Certo: la lotta delle società borghesi occidentali otto-novecentesche contro questi autori è una lotta contro idee eversive che mettono in discussione i fondamenti di quelle società stesse. Ma. Le opere di questi autori non sono assolutamente pornografiche, proprio per nulla. Non nell’accezione che oggi le diamo. Certo parlano di sessualità, e alcune come quelle di Mirbeau, Joyce o di Miller, si servono liberamente dei topoi pornografici ma con tutt’altro intento e risultato. La pornografia, ormai disarmata di ogni velleità politica, finisce altrove. In fondo lo sai, no? che nel 1839 compaiono i primi dagherrotipi e, come vuole la storiografia ufficiale, nel 1898 nasce il cinematografo.

Tre.

Te l’ho detto. Nel 1839 Louis Jacques Mandè Daguerre mette a punto un’idea sulla quale a lungo avevano lavorato, per migliorare le proprie litografie, Joseph Niepce e suo figlio. In questo modo fornisce agli sguardi dell’umanità il primo procedimento fotografico della storia, che – lo sai- prenderà il suo nome. Non c’è neanche da dirlo. Nel giro di pochi anni la dagherrotipia ha uno sviluppo esponenziale. Tanto che nell’estate del 1842 la Segreteria Pontificia istituisce un processo teologico per indagare se questa nuova invenzione abbia o meno sostanza morale. Sono ridicoli i preti e non ci hanno un cazzo da fare: il loro esilarante dibattito teologico sulla fotografia durerà più di trent’anni, con vari processi e varie assoluzioni e poi condanne e poi ancora assoluzioni. Ma il processo che interessa a noi, quello lì del 1842, si conclude con piena assoluzione: la Commissione Pontificia per la difesa e la propaganda della fede, ritiene la dagherrotipia fornita addirittura di qualità metafisica e potente strumento per la diffusione della religione. Fatto. Con lungimiranza impressionante, prevedendone i futuri sviluppi, la canaglia pretesca ammanta –come suo uso- di opportunità morale ciò che diventerà merce molto redditizia. Intanto però viene il 1848 e il popolo romano, spontaneamente insorto, caccia il papa e abbatte la sua dittatura teocratica, instaurando la Repubblica. Dura fino al luglio del 1849 l’ebbrezza della libertà. Poi le truppe francesi al comando del generale Oudinot, comunque dopo un logorante assedio, entrano a Roma. Al loro seguito c’è un fotografo parigino, tale Messieur Lecchi, che ha immortalato i giorni dell’assedio. Ma non passerà alla storia costui. Almeno non a quella della pornografia, anche se gli piaceva un sacco ritrarre, per suo personale onanismo, rigorosamente nude, le opulente matrone della restaurata aristocrazia romana. Sarà il suo ragazzo di fatica che lascerà un segno in questa storia della fotografia. Martin Sauvedieu, che si era portato sulle spalle da Parigi a Roma, le camere oscure del suo maestro e gli aveva preparato tutte le lastre e bruciato tutti i sali di mercurio, non tornerà a Parigi con lui. Cambierà nome in Martino Diotallevi e si sposerà con Carolina, una sarta molto piacente. Aprirà, primo a Roma, una bottega di commercio della fotografia. E primo fra tutti, comincerà, con la sollecita attiva e manageriale partecipazione della moglie, a produrre e vendere fotografie pornografiche. Ti consiglio, se l’argomento è di tuo gradimento, di leggerti la Storia della fotografia pornografica, di Ando Gilardi edita da Bruno Mondadori.

Quattro.

Nella Roma del Papa Re, anche di quello restaurato dai francesi, non era inusuale che una giovane sarta esercitasse anche la più remunerativa professione della prostituta. Non è difficile da capire il perché. Le sartine erano, per dispensa canonica quando c’era motivo di “temporanea necessità”, ammesse senza scandalo al domicilio dei prelati. Va da sé che, essendo statisticamente il previtoccolume la categoria più numerosa tra gli utilizzatori finali delle puttane, convenisse a ogni ragazza di vita farsi anche sarta. Così la nostra Carolina, moglie del Diotallevi, in quanto sarta e bagascia, aveva vasta clientela per i suoi “ricami e cuciti” presso il sacerdotame romano quello più in vista, quello che punto niente tollerava l’indipendenza politica ma che apprezzava e di molto quella sessuale (la propria in primis) e che oltre alle prestazioni della Carolina apprezzava anche la loro rappresentazione dagherrotipa. Aggiungici poi che pagavano bene. Ecco perché Carolina e Martino tennero bottega (il famosissimo Atelier dei quattro Pontefici) al numero 9 di vicolo del Farinone fino al maggio del 1862. Quel mese lì, in una splendida mattina di primavera il Diotallevi e sua moglie videro, per aver confuso pornografia e politica, interrotta bruscamente dalla sbirraglia pontificia la loro redditizia professione, e furono tradotti in catene lui nel carcere di San Michele, lei nelle carceri delle Terme di Diocleziano. Il pretesto fu un fotomontaggio pornografico dedicato alla borbonica e devotissima e bellissima anche, regina di Napoli, Maria Sofia esule con il marito Franceschiello proprio a Roma, ospite graditissima di Pio IX; per quell’oltraggio si dice avesse chiesto la testa del Diotallevi. In realtà la questione era politica: il Diotallevi e sua moglie erano coinvolti in un complotto volto a screditare i due borboni e il loro ospite, i cui mandanti erano i piemontesi. Ci si potrebbe cavare una spy-story storica, ma questa storia non ci interessa. Preme qui altra questione. Il dagherrotipo, che sarà sostituito già negli anni Sessanta del diciannovesimo secolo dalla calotipia, richiedeva tempi di esposizione lunghissimi. Dagli otto minuti fin quasi al quarto d’ora. Te li immagini due prestanti porno modelli restare in posa fissa mentre si fottono per quell’eternità? Una tortura impensabile. Improbabile. Impossibile. Bisognava, per avere dagherrotipi osceni, ricorrere a un trucco complicato. I fotopornografi che operavano prima della diffusione delle innovazioni di Talbot (la calotipia, appunto che permetteva tempi di esposizione di un decimo rispetto a quelli del dagherrotipo) e di Eastman (il fondatore della Kodak che nel 1889 fabbricò la prima pellicola 35 mm in nitrocellulosa aprendo la strada al cinema) facevano, e la semplifico assai, più o meno così: impressionavano un lastra di rame per un tempo minimo; poi su quel pallido fantasma di cui si intravedevano solo i contorni applicavano un procedimento simile a quello delle incisioni arricchendolo con dovizia di particolari. Alla fine stampavano quell’acquaforte sulla carta. A questo punto impressionavano una nuova lastra di rame usando come posa l’immagine ottenuta precedentemente. Avevano così agio di prolungare l’esposizione finché era opportuno. Ottenevano così un nuovo dagherrotipo da vendere a carissimo prezzo. I coniugi Diotallevi, al soldo della sabauda marmaglia, sopravvalutato il valore della loro pornografia si pensavano capaci di riscrivere il reale (cioè far cadere Pio IX con un po’ di propaganda libertina). Gli sfuggivano due cose, una: che il loro lavoro si basava tutto su di un falso ontologico. Come avrebbero potuto anche solo scalfire chi di un falso ontologico (l’esistenza di dio) si era fatto piedistallo di potere per duemila anni circa? due: che è il reale (come in modo molto divertente ci dimostra un film come Inception), come aveva ben capito Freud, che riscrive ed everte sempre le narrazioni.

Cinque.

Succede così. I cacciatori americani, andando a caccia con la loro carabina Weatherby, spesso si trovano –come tutti i cacciatori- a dover fare fuoco in modo del tutto istintivo. Il colpo fulmineo tirato d’istinto senza prendere la mira, loro lo chiamano snapshot. George Eastman, oltre che buon cacciatore, era un fabbricante di lastre fotografiche. Un giorno ha un’idea di quelle che, se uno ha il coraggio di perseguirle, cambiano poi e di un bel po’ i paradigmi culturali di un’epoca (e di quelle a venire- alle volte). Nel 1888 Eastman, che non difettava certo di coraggio, realizza la sua idea. Una macchina a cassetta per le fotografie di dimensioni ridotte (un parallelepipedo di circa 9 cm per 10 per 15) sulla quale ha innestato un obiettivo a fuoco fisso con una lunghezza focale di 27 mm e un diaframma di f/9. Oltre alle dimensioni, due sono le cose destinate a fare rivoluzione del modo di fotografare: il fatto che la macchinetta monta un rullo di pellicola al collodio (lo sai che Talbot già aveva liberato i fotografi dall’unicità del dagherrotipo grazie all’introduzione del negativo, la pellicola di Eastman né è praticamente la serializzazione) lunga a sufficienza per almeno 100 pose per la quale la ditta di Eastman garantisce sviluppo, stampa e ricarica; e cosa fondamentale un otturatore ingegnosissimo che permette tempi di esposizione brevissimi rispetto al passato. Con un atto di fantasia e genialità quasi onomatopeiche Eastman battezza (spiegando che scelse quel nome perché suonava bene e non significava nulla) quella macchinetta Kodak. Chi se la comprava per 25 dollari, non doveva che guardare nell’obiettivo e tirare la cordicella dell’otturatore. Come tirare un colpo di fucile. Snapshot, così gli americani chiamano l’istantanea. Torniamo all’applicazione pornografica. Quale libertà, grazie all’invenzione di Eastman, per il pornofotografo e per i pornomodelli: finalmente esentati da quelle pose estenuanti e quei lunghi trucchi calcografici. Il dagherrotipo impressionato sempre in positivo, era per sua natura tecnica, un’immagine unica, irriproducibile: una specie di simulacro, una cosa per cui (in qualche modo) il significante avrebbe potuto coincidere perfettamente con il significato. Ma se così fosse potrebbero avere ragione quelli, e ce n’è in giro alcuni, che sostengono la pornografia sia eversiva perché non è rappresentazione ma realtà che incide sulla realtà stessa. Eppure abbiamo visto che proprio in quei primi dagherrotipi pornografici non c’era verità alcuna dell’atto, ma solo rappresentazione; abbiamo visto come pur non essendo riproducibile il dagherrotipo pornografico non svolgeva assolutamente nessun discorso veritativo (che sarebbe stato in questo caso socialmente vincolante e di conseguenza sì: eversivo), quanto piuttosto un discorso manipolabile e falsificato. Dalle tecniche usate per svolgerlo. Però cazzo! L’invenzione di Eastman sembra proprio che rivoluzioni tutto. La Kodak permette un’aderenza maggiore alla verità. Quando poi l’anno dopo (1889) Kodak commercializzerà la prima pellicola da 35 mm di celluloide, la cosa diventerà ancora più evidente. Edison se ne servirà per progettare la prima cinepresa e l’aderenza alla realtà diverrà, secondo certe teorie ontologiche grazie al cinema, totale. Stai a vedere che allora, alla fine ci hanno ragione proprio quelli lì, che sostengono che la pornografia è atto veridico e che influisce sulla realtà evertendola. Stai a vedere che Edison progetta la prima cinepresa proprio perché si potessero girare i primi filmetti con penetrazioni integrali e non che l’invenzione della cinepresa stimola subito in qualcuno l’idea di fare soldi vendendo a ricchi segaioli borghesi la riproduzione animata di gente che scopa.

Sei.

Approfondendo quell’intuizione gramsciana, accennata nei Quaderni del carcere (Letteratura e vita nazionale, Ed. Riuniti, 1975), secondo la quale chi legge un romanzo poliziesco lo fa per un impulso pratico, Leonardo Sciascia ci spiega (nella sua Breve storia del romanzo poliziesco, raccolta in Cruciverba, Adelphi, 1998) quale sarebbe questo impulso pratico: trovare un modo per passare il tempo. Secondo Sciascia l’aspirazione alla bellezza e all’avventura che dovrebbe caratterizzare ogni lettore, in quelli di gialli si esaurisce in un’esperienza vicaria. Molto simile a quella del fruitore assiduo di pornografia cinematografica. Infatti l’impulso pratico che ne spinge alla visione (la spinta sessuale) si esaurisce in un’esperienza vicaria: la masturbazione. Il segaiolo con l’hardisk carico di pornazzi (nessuna denigrazione; appartengo alla categoria) è un po’ come il filosofo kantiano: l’osceno lo attrae, non lo pratica se non intransitivamente e non può farne a meno, pur essendo puntualmente (in punta di cazzo) consapevole del rischio che corre. La perdita dell’Io (l’ineludibilità di un attività sessuale). In favore dell’Es (la nevrosi dell’attività sessuale ridotta a sega). C’è un solo rimedio al rischio di questa perdita. Ciò che i filosofi e gli psicologi si sono provati a fare, con assai scarsi risultati, dalle origini del pensiero a oggi, e che i cinepornografi sono riusciti a fare bene e in breve tempo: la costruzione di un SISTEMA.
Nel 1953 Theodor W. Adorno spara una fucilata a bruciapelo contro il più odiato (da lui) epifenomeno dell’industria culturale: il jazz. Come è possibile si chiedeva (in quel –comunque- capolavoro che è il saggio Moda senza tempo, raccolto in Prismi: Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, 1972) che una struttura armonica e metrica così elementare, inviolabile e monotona, basata sull’uniformità del ritmo basilare in cui persino le cosiddette improvvisazioni si riducono a perifrasi delle formule fondamentali e lo schema riappare ad ogni tratto sotto il loro velo, possa eccitare milioni di persone che non ne sembrano mai sazi? Si dava anche una risposta il caro Adorno. Una palese cazzata che tirava in ballo una parodia della catarsi mischiata a una caricatura della reificazione marxiana, definendola –se non ricordo male- come una variante dell’umiliazione sociale (seriale?). Ti apparirà chiarissimo che Adorno non ce l’aveva con il jazz in generale, quanto piuttosto con l’idea di “genere”. Un po’ quello che fa chi sostiene che la pornografia è un genere reazionario perché ha sostanzialmente una struttura narrativa basilare, inviolabile e monotona. Perché è, insomma, un sistema (più o meno) diegetico. Quello che capisco è che se per costoro la pornografia non è, come era per Adorno il jazz e come è per, una filosofa che invece non capisce niente come Michela Marzano, proprio la pornografia, un dispositivo totalitario per la cancellazione dell’umano, è quanto meno un dispositivo reazionario per l’induzione della noia. Il punto è che l’eccitazione necessaria per giungere alla masturbazione, dovuta alla visione dell’attività sessuale ha la sua base proprio nella NOIA, se per noia intendiamo (insieme a Bataille) quello stato indottoci dall’osservazione metodica propria della scienza.

Sette.

«Play something different, man, play something different. This is jazz, man. You played that last night, and the night before». È con queste parole, ci racconta l’etnomusicologo Paul Berliner (leggiti, mi raccmando, il fondamentale Thinking in jazz), che Mingus apostrofò un giovane sassofonista della sua band che aveva ripetuto per tre sere di seguito lo stesso assolo. Quanto fosse grande, quindi, l’abbaglio preso da Adorno, ce lo spiega poi – pur cercando di salvare qualcosa del pensiero adorniano sul jazz- Davide Sparti (nell’ottimo Suoni inauditi. L’improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana, Il Mulino, 2005) raccontandoci che già Bud Powell e Cecil Taylor avevano liberato l’improvvisazione da qualsiasi riferimento a un beat costante, arrivando a Coltrane per il quale la progressione di accordi non rappresenta più la base melodica, fino a Miles Davis del quale non si può nemmeno più parlare in termini armonici: butta via le complesse sequenze di accordi per concentrarsi su uno solo e sviluppare le sue fantasiosissime idee di ritmo. Quando qualche segaiolo che si crede originale sostiene che il porno è eversione perché sovverte il rapporto tra finzione e reale; che non è “rappresentazione di atto” ma atto in quanto tale, non simulacro che aspira al vero, ma atto che altera la realtà, afferma una cosa falsa. Perché in ogni film porno, come in ogni film, l’attore non fa veramente quello che sta facendo, ma finge di fare ciò che sta veramente facendo. Non c’è bisogno di aver studiato semiologia. Basta aver letto Ovidie (e il suo Pornomanifesto) o Stoya  (e il suo Philosophy, Pussycats and Porn). È vero, i porno attori sono performer, più che veri attori, ma le posizioni che i assumono, non sono scelte liberamente dagli stessi, ma sono imposte dalla struttura che finalizza tutto alla noia del dettaglio anatomico. Lo sforzo ginnico di mantenere quelle posizioni, e il montaggio dei dettagli, bastano a tramutare l’atto in rappresentazione. Sistema. Beat costante. Noia in effetti, se non intervenisse una cosa simile a quanto accade nel jazz, l’improvvisazione. Un diffuso luogo comune, smascherato da Simone Regazzoni (nel suo Pornosofia, Ponte alle Grazie, 2010), vuole che il porno sia costituito solo da sequenze di dettagli di organi genitali. Questo è vero, costituisce la base melodico-armonica del porno, ma nel porno – come dimostra Regazzoni tirando in ballo Agamben e Levinas- si presta grandissima attenzione ai volti. E su questi volti, se hai letto David Foster Wallace (Considera l’aragosta) lo sai, quando capita che si mostri l’anima nascosta dell’attore, così Wallace definisce quella che a me sembra essere l’espressione di consapevolezza del proprio corpo sul volto dell’attore, in questo momento la fredda meccanica del pornocinema, varia improvvisamente ritmo, coinvolgendoti come l’assolo di un grande jazzista. Non hai più bisogno di farti la sega. Guardi e basta.

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(Quasi)