Dei bambini non importa a nessuno

Mabel Morri | Play du jour |

Al minuto 25 e 49 secondi dell’episodio 1 della prima stagione di Sunderland ‘till I die, disponibile su Netflix e che voleva raccontare, almeno nelle intenzioni originarie, la risalita del club dalla Serie B inglese al ritorno nella loro A e che invece ne testimoniò addirittura la discesa negli inferi della C, i giocatori entrano nel centro sportivo e, ad accoglierli, schiena dritta lungo la parete, tanti bambini che tendono loro la mano per il “cinque”.
Vestono tutti con le divise giovanili del Sunderland, righe verticali rosse e bianche, bambinetti che sognano di segnare un gol in quello stadio, con indosso quella maglia, acclamati dalla loro gente, quella che li ha visti crescere, quella del pub al porto, quella del mercato.
Uno di loro, un bimbetto dai capelli biondi cortissimi e un ciuffo sbarazzino, guarda rapito uno dei giocatori che di nome fa Lamine Koné, un ragazzone francese dalle spalle larghe quanto un armadio: gli sorride e gli occhi azzurri del bimbetto lo guardano come solo si può guardare un Dio sceso in terra il cui passaggio ci sfiora in questa mortale vita terrena.

Una delle infinite pubblicità che le televisioni mandano prima delle partite di Champions è di una carta di credito. I colori sono abbastanza inconfondibili anche per via di slogan decisamente efficaci in campagne passate. Nei diversi filmati, uno su tutti per me spicca ed è l’unico che davvero rispecchia ciò che prova un bambino a vivere certi istanti. Nella pubblicità c’è uno spogliatoio, c’è l’attesa, c’è l’uscio socchiuso e c’è un bambino che, emozionato, si appresta a vestirsi confusamente. È un attimo: il suo sguardo si illumina, gli occhi si sgranano increduli perché da quello spiraglio vede passare il campione per cui tifa. Ovviamente è lì perché il padre evidentemente ha vinto un concorso con la già citata carta di credito che fa avverare anche i sogni del figlio, ma non è questo ora che ci interessa. È la possibilità di essere vicini, tanto così, a realizzare un sogno, anche se è un sogno sciocco, col senno del poi, a vederlo da lontano nel tempo, un tempo di rughe visibili in volto e sguardi un po’ più spenti, ma in quel momento sembra che la vita ed essere vivi siano pazzeschi e incredibili. Lo spot finirà col bimbetto che, prima di entrare in campo, nel rituale che da qualche anno accompagna l’ingresso dei giocatori, terrà la mano proprio del “suo” campione.

Più della metà dei calciatori è stata raccattapalle. Negli anni ‘80 i raccattapalle erano ragazzetti vestiti con tute di due taglie più grandi che da dietro i cartelloni pubblicitari, sgomitando coi fotografi, si lanciavano nel recuperare palloni, piano o veloce a seconda del risultato e dell’orario sull’orologio del tabellone sopra la curva.
Di solito sono i ragazzi delle giovanili e delle squadre minori, alle volte persino figli degli allenatori e dei giocatori, ragazzi che chiaramente desiderano essere dall’altra parte, su quel rettangolo verde, sempre con la speranza di vestire la maglia della loro squadra e di baciare lo stemma sul cuore.

Da quando la pandemia da Covid-19 ci ha reso tutti un po’ più lontani, quantomeno fisicamente, nei nuovi rituali i bambini non ci sono più. Non potendosi toccare, prendersi per mano è diventato pericoloso.
La mente corre romanticamente a tutte quelle volte che ho tenuto per mano chi mi piaceva, un gesto così semplice, come i baci che qualcuno dice che non ci si scambia più, atti definiti demodé che si compivano solo in Sapore di mare, come se la modernità portasse con sé anche l’esclusione di gesti che, il più delle volte, hanno segnato, i nostri ricordi.
Penso a tutti quei bambini privati non solo del sogno di avere a fianco i propri campioni, ma dei loro sogni in generale: che generazione può venire su se li si tiene distanziati fisicamente da ciò che più desiderano toccare?
Perché da quando il calcio è ripreso a stadi vuoti, i bambini all’entrata del campo, sia quelli vestiti con le maglie delle due squadre sia quelli vestiti da arbitro a uno dei quali il direttore di gara passerà il pallone del calcio d’inizio – un gesto semplice, un passaggio naturale e imprescindibile, tenere il pallone tra le mani prima di posizionarselo per una punizione (c’è chi lo bacia prima di un rigore) –, non sfilano più mano nella mano dei loro campioni.
Tutto finito, tutto sospeso chissà fino a quando.
Sospensione che si sta insinuando anche negli animi più forti, quelli che si consideravano inscalfibili. In una delle mie “figurine”, piccoli ritratti del formato delle vecchie fotografie da pellicola Agfa o Kodak, disegno lo psicanalista lacaniano Massimo Recalcati: non è importante che sia lui ritratto quanto la categoria che rappresenta, una categoria che avrà, dal coronacene 2020 in poi, una sfida di studio e di ricerca che sarà la base delle nuove patologie dei futuri adulti, quegli stessi bambini tra i quali anche quelli che non entrano più in campo coi loro campioni.

C’è il sole.
Ci sono 15 gradi.
Il cielo è di un azzurro potente in un déjà-vu che sta stancando.
La giornata è bellissima ma siamo in zona rossa: quel cielo posso guardarlo solo dalla finestra.
Di fronte casa, nell’ex cimitero ebraico il giardino Anna Frank, la cui memoria è simboleggiata da un monumento in cemento grezzo e ferro, è popolato di passeggini, mamme e bambini, qualche nonno sopraggiunge a distanza.
Il campo esorta all’interesse, è un campo da basket invece del solito campetto da calcio senza reti e coi pali arrugginiti. L’immagine che mi rimane è quella di una ragazzina, in solitaria nel crepuscolo serale, un giubbotto e uno zaino abbandonati in un lato del campo, che si allenava nel tiro, lei che da piccola Zandalasini sognava un canestro come il suo idolo. Scema come sono, continuando a camminare, ho scimmiottato Geri De Rosa quando con la sua voce un po’ rauca dice «Zaaaaaandalasiniiii» per un suo canestro: la ragazzina mi ha guardato sorridendo.
L’ultima volta che ho buttato lo sguardo al campo due gruppi di ragazzini, felpe e zainetti divisi in quattro mucchietti a limitare le porte, si affrontavano nella loro personale finale di Champions. Il pallone era uno di quelli simili al campionato 2016/17, è un pallone bello, si sposta dalla concettualità Adidas e torna in esagoni che a noi del secolo scorso ricordano tanto il pallone di quando eravamo bambini. Molti di loro vestono con abbigliamento tecnico, due indossano la maglia della Juventus coi nomi Ronaldo uno e Dybala il secondo, un terzo invece la maglia di Icardi. Icardi non gioca più nell’Inter dalla stagione 2019/20. Penso a quel bambino che sceglie la maglietta per giocare, penso che probabilmente avrei fatto la stessa scelta: se ne devo rovinare una preferisco quella di un giocatore che ha infranto i miei sogni andandosene a Parigi invece che lottare per i colori della mia squadra del cuore. Il disprezzo si dimostra anche così, distruggendo una maglietta il cui numero e nome sulle spalle era preziosa fino a poco tempo prima.
È da quando ero piccola io – che sicuramente mi sarei ritrovata in una situazione simile – che le tipologie di bambini sono sempre le stesse: c’è sorprendentemente quello a cui piace fare il portiere, quello istrionico tutto doppi passi e veroniche, quello pragmatico, quello che se la crede, quello che ha già sviluppato lo spirito di gruppo anche se il gruppo è gente incontrata due secondi prima ma dallo slogan «si vince insieme, si perde insieme», quello che vuole solo divertirsi e giocare.
L’azione che osservo è un misto di iniziative personali che solo con il bambino avversario in difesa porta chiunque a passare palla prima del contrasto, in fondo è sempre stato così, quando giochi vuoi tener palla tu e fare gol, in un modo o in un altro, meglio se con un tiro plastico ma generalmente l’idea di passaggio filtrante non è ancora metabolizzata come una caratteristica vincente. Per cui l’azione si sviluppa in passaggi orizzontali e persino al portiere, portiere già formato nella modernità del suo ruolo, quel saper giocare anche coi piedi che era qualcosa di assolutamente sconosciuto ai numeri uno del secolo scorso.
A un certo punto, involontariamente il virtuoso si muove senza palla in diagonale tagliando la linea difensiva, quello che vuole solo divertirsi lo vede con la coda dell’occhio e prova un filtrante di cui sopra che viene intercettato malamente da un difensore, non abbastanza da deviarlo fuori dal campo e non altrettanto forte per un recupero in una zona del campo lontano dalla porta. Il rimbalzo che ne scaturisce arriva al pragmatico che non ci pensa due volte e calcia al volo dell’ennesimo rimbalzo del pallone.
Il tiro che ne risulta non è fortissimo, incrocia anche un riflesso del portiere avversario che con la punta del piede smorza ulteriormente la traiettoria e la potenza.
Il pallone rimbalza sul mucchietto di felpe e giubbotti e, lentamente come in una slow motion ironica, fa due lievi rimbalzi e scivola via.
I bambini rimangono interdetti quel nanosecondo prima che il più prepotente, il virtuoso, quello che oltre ai numeri si lamenta sempre, esplode in un «Fuori!» che viene subito ripreso dagli altri che poi formano un capannello e iniziano a discutere.
Penso a come non sia cambiato niente.
Penso a come tutto quel discutere sia finalizzato solo al gol.
Penso al palo di felpe e zaini e a come, se ci si concentrasse maggiormente sul significato metafisico di un palo immaginato, quel mucchio di indumenti rappresenterebbe proprio la vita: per quanto tu possa essere bravo, finanche il più bravo, alle volte perdi.

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