Brucerai all’inferno se bestemmi ancora!

Mabel Morri | Play du jour |

La Ronde van Vlaanderen, o più comunemente chiamata Giro delle Fiandre, è una gara ciclistica che si svolge, nel calendario pre coronacene dell’UCI (l’Unione Ciclistica Internazionale, organo vigilante di tutte le gare e che detta le regole disciplinari), nella prima domenica di aprile.
Di solito è quella quindicina di giorni di ciclismo che orbita tra la regione belga delle Fiandre, i Paesi Bassi e la regione del Nord dell’Alta Francia e che culmina con la famosissima Parigi – Roubaix. Si distingue per il tempo uggioso, il fango e il pavé su cui passano i corridori.
Al Giro delle Fiandre si chiamano muri e sono letteralmente spaccagambe: Koppenberg, Molenberg, Paterberg, Bosberg e Vecchio Kwaremont sono nomi che ai più non dicono nulla ma sono divenuti leggendari per il passaggio della corsa. Colline o inizi di foreste di ciottolato la cui pendenza si inasprisce improvvisamente: alla Roubaix sono diventate epiche insieme al trofeo (un sanpietrino su un piedistallo) la Foresta di Aremberg e la Carrefour de l’Arbre: un passaggio dimenticato il primo, e risistemato ogni anno dai volontari dell’Associazione Les Amis de Paris – Roubaix; un collegamento tattico il secondo per gli abitanti della frazione di Camphin-en-Pévèle verso la catena di supermercati altrimenti isolata.
Entrambe le gare sono amatissime e suscitano simpatie, chi è per il Fiandre chi per la Roubaix. In una stanza su Clubhouse proprio in occasione dell’attesa inebriante della gara belga, il giornalista Carlo Gugliotta, autore del bel libro Giro delle Fiandre, la classica dei tifosi: 70 anni di vittorie italiane edito da Alba Edizioni, spiegava con voce misurata da deformazione professionale perché il Fiandre è più amato dai tifosi di ciclismo. In sintesi, il Fiandre è da sempre la gara del popolo, passa tra la gente, nel mezzo delle loro cittadine abitate e vissute quotidianamente, è una gara che dà colore alla zona e fomenta l’economia; la Roubaix passa in mezzo al nulla, stradine di campagna in campi abbandonati persino dai francesi e non a caso sono le associazioni di volontari a curarne e mantenerne l’epica. Dunque se al Fiandre ci si vuole abbandonare su una sedia di un pub a bere una delle diverse birre dei birrifici locali, tra abbazie e schiuma che non scende nemmeno sottoposta alla forza di gravità, alla Roubaix prima di arrivare a un luogo abitato si fa prima a tornare a Parigi.
A sottolineare l’amore e l’importanza anche storica delle due gare basta vedere gli esiti in tempi di covid: nel 2021 il Fiandre si corre, pur in una situazione belga di contagi difficilissima; la Roubaix no, messi leggermente meglio dei belgi. Aspetto che non fa altro che alimentare l’odio viscerale sul confine e su quale sia la gara più leggendaria: va da sé che i francesi riescono a rendere charmant anche il camembert, mentre per i belgi c’è un’antipatia atavica incomprensibile, forse perché visti troppo freddi rispetto a noi mediterranei. Non che i francesi siano più simpatici: arrivano a litigare anche sull’importanza mondiale dei rispettivi personaggi dei fumetti, Asterix e Lucky Luke contro i Puffi, Gaston Lagaffe, Spirou e Fantanasio e Tin Tin, con cortocircuito di quest’ultimo che nelle sue avventure più di una volta preferisce correre al Tour de France senza mai dedicare un’avventura al Giro delle Fiandre.

Apriti cielo.

Il Fiandre è bello anche perché non vince mai chi è favorito.

Nel 2019 noi italiani ci siamo resi conto che il nostro ciclismo è sì messo male ma ha ottime frecce al suo arco e che se ci fossero strutture, attenzione (anche civile sulle strade) e investimenti non saremmo da meno rispetto ai belgi e agli olandesi (e ultimamente colombiani e sloveni). Quando Alberto Bettiol, vestito col rosa dell’americana EF Education First, taglia il traguardo in solitaria facendo la mossa con le dita a V i commentatori Rai esultano incontenibili, così come, in mattinata avevano acclamato la vittoria inaspettata di Marta Bastianelli della fu Virtu Cycling danese.
Nel 2021 memori degli inaspettati italiani si punta su un ventaglio di nomi, nel maschile, ma quello più accreditato oltre ai soliti noti è quello di Matteo Trentin con la maglia della UAE.
È il giorno di Pasqua, è zona rossa, siamo tutti a casa e si corre il Fiandre: perfetto. C’è un po’ meno perfezione il giorno dopo, Pasquetta, giornata iellata da decenni piovosi mentre in lockdown sono due anni che splende un sole da bestia.
In Belgio è tempo brutto, nuvoloso e freddo, minaccia pioggia.
Matteo Trentin corre bene, rimane nel gruppo dei migliori e contro ogni previsione la gara è decisa dal vento: nei larghi campi che si aprono tra un paese e l’altro, nelle lunghe lingue dritte d’asfalto apparentemente immacolato e che invece presenta ghiaia malefica, tira un vento beffardo. In gergo si chiamano “ventagli”, quelli che i ciclisti usano per sferzare e non perdere velocità quando non hanno riparo dal vento: si allineano obliqui e percorrono uno dietro l’altro il tratto di strada esposto.
Capita però che qualche ventaglio si apra troppo e qualche gruppo rimanga indietro. Trentin si trova a inseguire. Non paga (e nemmeno cieca) la fortuna si accanisce sulle sue ruote nel momento cruciale della corsa, quella nella quale si decide la strategia e si prova a far propria la gara: ai meno 28, su quell’asfalto apparentemente drenante e che invece è subdolamente pieno di sassolini invisibili dalla televisione, Matteo Trentin buca. È a 14 secondi dal primo gruppo, il secondo, nel quale è lui, fatica.
Trentin è uno di quei ciclisti che probabilmente hanno raccolto meno di quanto meritavano. Nel ciclismo globalizzato dei primi vent’anni del nuovo millennio, scevro di formazioni élite italiane, un ciclista di buone prospettive deve barcamenarsi tra stage e prove in grandi squadre belghe o francesi, comunque se anche la gavetta viene fatta nei team U23 o in piccoli team italiani, i giovani buoni vengono venduti per sopravvivenza, a volte perdendone il potenziale perché viene chiesto loro di essere subito vincenti quando in realtà, come in ogni cosa, bisogna dare tempo al tempo. La metà dei corridori che abbiamo avuto dal 2010 al 2020, Vincenzo Nibali e Michele Scarponi a parte, sono stati tutti bruciati così.
Matteo Trentin ha fatto un’onesta carriera, facendo esperienza nella Wolfpack Deceunick Quick Step belga ma di fatto gregario e chiuso dai ciclisti più importanti, riuscendo a mettere a segno qualche bella vittoria anche con la maglia blu della formazione dello squalo Lefevere. Quando lascia la DQS per l’australiana Michelton Scott, vince l’Europeo ed è libero di gareggiare liberamente.
Questo Fiandre sembra suo, o almeno è uno dei nomi spendibili e, per noi italiani, sul quale sperare.
Quando arriva l’ammiraglia e gli cambia la ruota ha già perso troppo per recuperare.
Inquadrato mentre sale sulla bici per riprendere la gara, nel silenzio che le telecronache di ciclismo offrono per mescolare il commento ai rumori meccanici, dalla bocca di Trentin esce un Porco Dxx strepitoso, limpido, inequivocabile.

Riccardo Sottil è un giocatore della Fiorentina in prestito al Cagliari. Ha 21 anni, gioca da ala e fa parte della Nazionale U21. Un ragazzo come tanti di questa generazione, belloccio, occhi chiari, mascella importante, capelli mori fluenti spesso racchiusi in una mezza coda che quando Brad Pitt, nel suo periodo di figaggine bionda, la sfoggiò in Troy noi ragazze degli anni Novanta trasalimmo. Riccardo Sottil è il figlio di Andrea Sottil che le ragazze dei Novanta che seguivano il calcio di trent’anni fa ricordano nel bellissimo Torino di Emiliano Mondonico, quel Torino che raggiunge la finale di Coppa UEFA (vedi alla voce sedia in aria per protesta del buon Mondonico) e che vince la Coppa Italia. A seguito di un brutto infortunio, girovaga per l’Italia arrivando a una buona continuità nell’Udinese prima di finire persino al Rimini post Bellavista, Catania e Alessandria nell’ultimo atto della carriera. Nel 2011, un anno dopo il ritiro, è già diventato allenatore.
Non sono tutti Pirlo che da Coverciano e diploma ancora in tasca passano senza passare dal via direttamente alla panchina della Juventus: la gavetta la fanno tutti ed è un ricominciare da capo, di nuovo.
Sottil è un allenatore discreto che sta costruendo una sua seconda carriera.
Arriva nella fascista Ascoli sostituendo Delio Rossi, un altro che di fango e fatica se ne intende, e si gioca la partita Reggiana – Ascoli nel giorno di San Valentino.
È ormai un anno che gli stadi sono vuoti e l’eco delle urla è perfettamente udibile persino dagli spettatori a casa.
Un episodio dubbio, una decisione arbitraria non in linea col pensiero dell’allenatore, nel vuoto dello stadio di provincia nella reggiana padana si ode un filotto di ben 12 bestemmie che le cronache non vogliono riportare.
Sottil patteggia, paga 1.250 euro e torna in panchina.
I calciatori non sono nuovi a episodi simili, Bryan Cristante della Roma, Manuel Lazzari della Lazio, persino Gianluigi Buffon, quello per il quale «l’arbitro ha un bidone dell’immondizia al posto del cuore» (è bene sempre ricordarlo negli annali dell’ennesima eliminazione Champions della Juventus, arbitro reo di aver fischiato un rigore nei minuti di recupero sancendo col successivo gol la suddetta eliminazione), hanno rischiato o sono stati squalificati per un turno e l’elenco chissà quanto sarebbe lungo se in epoche precedenti gli stadi fossero sempre stati vuoti, anche se nel caso di Buffon gli sono stati fatali i microfoni dietro la porta.

Peter Sagan corre per la tedesca Bora Hansgrohe. La Bora fa cucine ultra tecnologiche la cui cappa si trova in punti improbabili del piano cottura, le penisole sono eleganti e moderne. La Hansgrohe fa rubinetti. Insieme alla Specialized, marca statunitense di biciclette, hanno un team che per anni è stato l’antagonista della Deceunick QS. Peter Sagan nello specifico non ha indossato per quasi dieci anni la maglia dei colori ufficiali (verde acqua marina in varie sfumature su sfondo bianco o nero) perché impegnato a indossare quella di Campione del Mondo alternata a quella da Campione di Slovacchia.
Peter Sagan è il ciclista che muove le masse, è quello che ha cambiato volto alle due ruote rendendole cool, sui social e sulla strada. Per anni è stato il campione inarrivabile delle volate e maglia verde del Tour de France.
Il tempo passa per tutti e ultimamente, tra stagioni lunghe e bizzarre compresa la quarantena da covid, vederlo vincere una tappa, di forza, di senso dello spazio infilandosi nell’unico pertugio fisico disponibile, in volata alla Volta a Catalunya è ormai romantico.
Ma nel 2017 Sagan era ancora Sagan, il Sagan cannibale che le classiche le vinceva quasi tutte.
Nel Fiandre del 2017 i muri sono transennati e pieni di gente. A rivedere la scena sembrano immagini di un altro mondo, incomprensibili oggi pur avendole vissute nel passato, ai concerti, allo stadio, all’aeroporto, in discoteca, ovunque, e difficilmente replicabili nel coronacene senza vaccino. Forse l’ineluttabilità che quella vita lì non tornerà più, che il covid accompagnerà le esistenze fino alla fine almeno dei miei giorni e quella spensierata sensazione di perdersi nella folla, pur scioccati dalla nuova patologia creata dagli eventi (ho tantissimi amici che hanno sviluppato fobie di attraversamento ponti, vedi alla voce Ponte Morandi, Genova 2018, e disagio nello stare tra la gente in piazze o luoghi chiusi, vedi Bataclan, Parigi 2015), non saprei, ma al momento mi è impossibile pensarmi in un luogo affollato senza pensare alla mascherina, al gel e al distanziamento fisico.

Il vociare e le grida di incitamento sono una colonna sonora costante.
Peter Sagan rompe gli indugi e a 17 chilometri dal traguardo si stacca dal gruppo inseguito dai soli Greg van Avermaet e Oliver Naesen. Sul muro del Vecchio Kwaremont Sagan si sposta lateralmente, nello scolo liscio ai lati del pavé che ne impedisce le accelerate a causa delle oscillazioni. Il punto è un falso piano, qualche metro di strada che spiana prima di tornare a salire. La telecamera non riesce nemmeno a inquadrare subito ciò che accade da quante teste offuscano la stradina larga appena un metro e mezzo.
L’immagine successiva, quella dalla moto in gara, chiarisce chi sono i corridori coinvolti e replay successivi ne chiariscono la dinamica della caduta.
Una felpa e un semplice giubbotto grigio appoggiati stancamente alla transenna preso (infilato) in pieno dal povero Sagan, che a quel punto non può più riprendere per tentare la vittoria.
Inquadrato l’interno dell’ammiraglia della Bora con tecnici e staff che ascoltano la notizia da Radio Corsa della caduta di Sagan, Francesco Pancani e Silvio Martinello della Rai provano a coprire con il loro commento il turpiloquio del guidatore. Inutilmente.

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