Disappunto partigiano

Boris Battaglia | Una pietra sopra |

Ho ripescato questo pezzo, che pubblicai sul mio blog – Bistrot Babeuf- nel lontanissimo 2013, non per quello che dicevo sui fumetti di Baldazzini o di Pagliaro, sono passati otto anni e onestamente non me li ricordo così bene da non poter dire di aver pure cambiato idea, ma per la riflessione che facevo – partendo da Sartre e Foa – sulle forme del possibile. Argomento dal quale partono e sul quale vertono le mie attuali “ricerche“. Invito quindi le non-lettrici e i non-lettori di Quasi a tenere conto di questo contesto. [BB]

Nel settembre del 1969 Rossana Rossanda intervista Sartre per “il Manifesto mensile”. A un certo punto, mentre parlano della guerra del Vietnam e del ’68 Sartre le dice che in fondo il campo del possibile è molto più vasto di quel che le classi dominanti ci hanno abituato a credere.

Mi colpì molto quando nel 1994 leggendo il fondamentale saggio di Claudio Pavone sulla Resistenza (Una guerra civile, BollatiBoringhieri,1991) trovavo più o meno lo stesso concetto espresso da Vittorio Foa. Il quale, uscendo dal carcere nell’agosto del 1943, aveva regalato al suo compagno di cella la sua copia della Scienza Nuova, apponendoci come dedica alcune parole dello stesso Vico: «per varie e diverse vie, che sembravano traversie ed eran infatti opportunità». Parole che certo Foa intendeva mettere a suggello del recente passato, ma che valevano anche come speranza dell’immediato futuro. La caduta del fascismo apriva alle giovani generazioni tutte le strade del possibile. Strade che sono state percorse dai migliori esponenti di tutte le sfere dell’espressione umana. Con una strana eccezione. Il fumetto. Non c’è tra gli autori di fumetto italiani qualcuno che abbia sentito la necessità di affrontare un momento della storia nazionale di tale rilevanza.

Si. Lo so. Se vai a leggerti un campionario di confuso nozionismo come questo qui scopri che a ridosso della guerra, su “Intrepido” e “Pioniere” varie serie con argomento resistenziale furono anche prodotte, ma diciamocelo francamente: tutta roba, fatta eccezione per quella tavola crepaxiana che è un dichiarato omaggio alla sequenza finale di Roma città aperta e surrettiziamente avulsa dal contesto narrativo originario, retorica e didascalica, che nemmeno con la più benevola ottica improntata alla politica degli autori si può considerare rilevante. E aggiungerei al mucchio le Storie di Resistenza di Calegari , più recenti (furono pubblicate nel 1995 su Il Giornalino) ma viziate dalla stessa ideologia catto-divulgativa e quindi orribilmente semplificativa esizialmente diffusa dalle storie d’Italia di Biagi.

Il primo che ci ha provato con un risultato interessante è stato Alberto Pagliaro che dal 2007 ha realizzato una serie (poi raccolta nel 2012 in volume da BD con il titolo I figli della schifosa) ispirata alle vicende partigiane. Un lavoro appunto interessante ma con un limite fortissimo: la struttura dettata dai ritmi del periodico su cui fu pubblicata (“Il Vernacoliere”) unita a una documentazione storica superficiale se non inesistente, hanno costretto l’autore a ovviare alla debolezza del respiro narrativo puntando tutto sul carico emotivo. Cosa che se in alcuni momenti funziona molto bene (penso per esempio all’episodio I Tedesconi, dove l’orrore della guerra civile è evocato solo per sottrazione e mai mostrato direttamente: un bambino si rifiuta di far assistere l’amico al massacro che i nazifascisti hanno appena compiuto e meno l’autore mostra più cresce il disagio del lettore), perpetua nella globalità dell’opera quella retorica sentimental-istituzionale che ha offuscato nel tempo la vera immagine della guerra resistenziale. Ricollegandosi a quel poco che il fumetto italiano già aveva dato sull’argomento.

Capirai la mia sorpresa quindi quando ho trovato in libreria un volume a fumetti sulla Resistenza di un autore che ho sempre reputato tra i più trascurabili (salvo che per alcune necessità onanistiche). L’inverno di Diego, di Roberto Baldazzini edito da The Box. Guarda quanto è vasto il campo del possibile, mi son detto, aveva proprio ragione Sartre! Non vedo l’ora di leggermi questa bella storia di nazitrans nerboruti che seviziano giovani procaci partigiane comuniste.

Invece.

Le intenzioni di Baldazzini sono di tutt’altro tenore. Dopo otto tavole didattico didascaliche in perfetto stile storiaditaliabiagesca, comincia un racconto di formazione che banalizza la lezione della nostra migliore letteratura sull’argomento (da Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino al Partigiano Johnny di Fenoglio) in modo talmente scolastico da lasciare disarmati.

E capirai, un libro ispirato alla resistenza che ti disarma non ti rende un buon servizio.

I personaggi sono stereotipi costruiti con un manicheismo conservatore che ricorda la lezione del fumetto pornografico più che di qualsiasi altro; infatti la straordinariamente veloce crescita umana e politica di Diego passa attraverso una scopata, quella con Luisa e raggiunge il culmine in una sequenza che ricorda, nella costruzione grafica della tavola, più un qualche Training of O che una vera e propria presa di coscienza resistenziale.

Il problema è questo. La violenza di una guerra civile è un fattore morfogenetico della società. Conferisce ordine e determina equilibri. È la principale modalità costitutiva degli stati: anche della Repubblica italiana.

Ora. Non ci trovo nulla di male se tu spacci le tue fissazioni sessuali per il motore di quegli eventi e di quella violenza quando lo fai dichiaratamente su un piano di finzione narrativa: te l’ho detto mi andava proprio di leggere un tuo pornazzo alla TransEST ambientato in quegli anni; non posso che trovarlo esteticamente reazionario quando lo fai spacciandolo su una modalità addirittura cronachistico didattica.

Siamo sempre lì. I fumettari italiani non sanno affrontare la propria storia nazionale, e sanno raccontare solo le proprie ossessioni. Almeno farlo bene e dichiaratamente, cazzo!

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(Quasi)