Il sigaro di Manetta

Francesco Pelosi | Fuori tempo |

Da qualche mese ho ricominciato a leggere “Topolino”. Mi é venuta voglia di vedere cosa stava succedendo a quei personaggi che ho frequentato con assiduità fin da prima di imparare a leggere, e che ho perso di vista ormai da vent’anni. Volevo soprattutto rendermi conto di come la contemporaneità fosse penetrata nel giornale.
Quel che mi ha colpito di più è il grande spazio dato ai personaggi “giovani”. Qui, Quo e Qua non sono più dei bambini ma degli adolescenti e hanno sviluppato caratteristiche che li distinguono fra loro, e lo stesso accade per Tip e Tap. Si tratta soprattutto di una caratterizzazione data attraverso le prime “cotte” o le passioni come la musica, i videogiochi, i social, che ognuno di loro sperimenta autonomamente dagli altri gemelli. Questo grande spazio dato alle storie con personaggi giovani (anche Topolino, Pippo e Paperino partecipano a vere e proprie serie in versione ringiovanita in cui seguiamo le loro gesta al college) dà l’idea che si punti a realizzare storie sugli adolescenti per gli adolescenti.
Nel “Topolino” storico invece, sia quello degli anni ’90 con cui sono entrato in contatto io, sia in tutto quello precedente, da Romano Scarpa e Massimo De Vita fino a Floyd Gottfredson e Carl Barks, i topi e i paperi hanno un’età indefinita e ci si affezionava a loro non in quanto pseudo stereotipi in cui identificarsi, bensì in quanto maschere.
Nelle storie contemporanee con protagonisti Qui, Quo, Qua e tutto il giro di personaggi giovani creati attorno a loro, i protagonisti sembrano invece aver abbandonato questa funzione di maschera, così come anche l’avventura e in parte la comicità, per darsi quasi totalmente alla narrazione del contemporaneo e quindi all’intrattenimento come identificazione (seguendo peraltro un solco che in Italia va per la maggiore anche nel fumetto “adulto”). Sforzandosi di dare un’identità “ai tre paperini” e di fare muovere loro e tutti i parenti in un contesto dichiaratamente contemporaneo – abbandonando quindi il richiamo simbolico che erano le città e la vita nel Calisota – si è arrivati a togliere la funzione allegorica e fiabesca dalle loro narrazioni, limitandone l’azione immaginativa.

Il fatto sintomatico di questa prassi, ovvero di questa realtà che influenza e invade l’immaginario (quando sarebbe invece auspicabile il contrario), è la scomparsa del sigaro di Manetta.
Facendo qualche ricerca ho scoperto che l’attributo fondamentale dell’ispettore è scomparso dalle pagine del topo – e dalla sua bocca – già da anni, se non ho capito male, dal 2016, probabilmente durante la stessa ondata di censure morali che portò anche il Logan/Wolverine della Marvel a dover rinunciare alle sue fumate.
Devo ammetterlo, non ci ho fatto subito caso. Ma alla seconda o terza volta che ho incontrato quello strano tizio con la bombetta rossa e la giacca verde in giro per il commissariato di Topolinia, mi sono reso conto che qualcosa non andava. Sapevo che era Manetta ma non riuscivo ad identificarlo come tale. A quel punto mi sono accorto della mancanza del sigaro. Quell’assenza aveva reso il personaggio quasi invisibile ai miei occhi, barcollante, zoppo.
Il discorso è lo stesso fatto prima: tolto l’attributo simbolico, la maschera crolla. Qui, Quo e Qua, se attualizzati a tutti i costi, rischiano di perdere la loro entità mitica e allegorica, l’essere in grado di impersonare di volta in volta questo o quell’archetipo, trasformandosi invece in personaggi ben definiti. Tra molte virgolette, in personaggi adulti. Ma a Manetta è andata peggio. Non è stato riscritto, semplicemente gli è stato tolto il sigaro come atto moralizzatore, e operando questa censura di stampo progressista si è di fatto impoverito il personaggio in maniera quasi totale.
Prima Manetta era un bellissimo coglione che voleva darsi un tono, la parodia di un ispettore di polizia duro e tutto d’un pezzo, figlio di Raymond Chandler e Dashiell Hammett. Ora è solo un coglione e nulla più. Non so se sia un caso, ma svanito il sigaro, che del resto era tutta la sua espressione, anche l’ottusa flemma gottfredsoniana o la simpatia sciocca e supponente che gli  hanno cucito addosso Tito Faraci e Giorgio Cavazzano in epoche più recenti, gli sono scomparse dalla faccia. E così anche il suo ruolo all’interno delle storie ha vacillato, diminuendo drasticamente il suo spessore e la sua personalità.
È ovvio, il tentativo, soprattutto per quanto riguarda Qui, Quo e Qua, è quello lodevole di  aggiornare alla sensibilità contemporanea i personaggi (anche se a quel punto comincia a stridere e a diventare sempre più evidente, ad esempio, l’inesistenza dei genitori). Ma nel caso di Manetta, personaggio completamente figlio del secolo scorso, legato ad abitudini e realtà passate altamente evocative (il detective con il suo sigaro, appunto) e la cui grande forza risiede nella sua funzione di simbolo universalmente riconoscibile, l’operazione di censura e rinnovamento forzato è disastrosa. Proprio perché “Topolino” è un fumetto fatto di maschere, i loro attributi sono ciò che le determinano. 

La confusione tra mondo immaginario e mondo reale è uno dei grandi problemi del nostro tempo. Le storie, nel momento in cui abbandonano il loro essere amplificatori di archetipi e la loro valenza evocativa e simbolica, per sottostare ai dettami della contemporaneità sempre più specifica e tecnicamente avanzata, fanno un pessimo servizio all’immaginazione.
Un mondo di pupazzi animati dove il sigaro non è più un oggetto comico di scena ma assume lo stesso ruolo nocivo che ha nella nostra realtà, e dove tre giovani paperi fanno e promuovono pedissequamente le stesse cose che fanno i giovani umani che li leggono, da una parte introduce l’idea pericolosissima che i mondi inventati corrispondano a quelli reali, e dall’altra, ancor peggio, occlude la visione fantastica, restringendo il campo dell’immaginario.
L’attenzione per la tecnica e per la quotidianità contemporanea ha sostituito nelle narrazioni quella per l’avventura fantastica, per l’ignoto pericoloso, contribuendo a produrre automi freddi e distaccati, convinti che quello che gli viene offerto – pulito, asettico e senza pericoli – sia il migliore dei mondi possibili, invece che esseri umani appassionati in grado di discernere, scegliere e agire.

Scrive Matteo Meschiari nel suo Antropocene fantastico (Armillaria, 2020), riferendosi alla letteratura contemporanea che descrive ossessivamente sé stessa:

«(…) un canone letterario incentrato sulla famiglia disfunzionale, sul lavoro sottopagato e sui libri degli altri è la naturale prosecuzione di una scuola dove il bambino viene addestrato a essere un cittadino, dove la scrittura è una funzione sociale, non antropologica, dove in un mondo di soli adulti c’è sempre qualcuno che è più adulto di te. Se “scrivete mostri”, invece, siete già nella Resistenza.»

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