Conversazione con Ibra

Mabel Morri | Play du jour |

A un certo punto arriva Massimo Ambrosini.
Alla fattoria Mancini, un dorsale che si affaccia sull’Adriatico pieno di vitigni in quel sali e scendi che sono le colline marchigiane della costa e che confluiscono nell’imperioso Monte Conero, non fanno solo il loro vino ma anche aperitivi tra i più frequentati del pesarese. E come ogni luogo che diventa di moda, arrivano anche i vip. In più il luogo – un’idea semplice quanto banale: si beve il vino che si produce lì, qualche stuzzichino in contenitori compostabili in sacchetti di carta riciclabile, musica pop poco invasiva, botti e casse come tavolini, sedie di plasticaccia impolveratissime tra salsedine e terriccio rosso, il tutto consumato in mezzo ai filari –, un crinale incantevole dai colori splendidi durante il tramonto che scende dietro la collina dove c’è Fiorenzuola di Focara, un luogo altamente instagrammabile e dunque molto ambito.
Massimo Ambrosini è appena passato da Sky a Dazn nel calciomercato dei giornalisti-telecronisti-opinionisti, questi ultimi di solito ex calciatori che si ritrovano a dover coniugare verbi e a usare congiuntivi sconosciuti negli anni di campo quando al massimo dovevano solo rispondere, più per contratto che per educazione, a domande spesso inutili.
Ambro arriva tranquillo, in compagnia di due ragazze molto magre che calzano tacchi vertiginosi su un terreno altrettanto vertiginoso se preso male. Solo per entrare in fattoria bisogna risalire il già citato dorsale percorrendo una salita di terra scivolosa che non lascia scampo a scarpe bianche e abiti scuri.
Viene chiamato più volte e accetta volentieri selfie, veste di una camicia di lino verde e pantaloncini cachi, i suoi polpaccini lunghi ed esili calzano sneakers bianche e il suo ciuffo biondo schiarito dagli anni lo rendono comunque ancora un bellissimo ragazzo, a chi piace il genere.

Nell’ultimo anno a Sky Ambrosini e la produzione se ne escono con “Conversazione con Ibra” che credevo ancora disponibile nell’on-demand dell’emittente e che invece per rivedere si è costretti alla pirateria, anche se in realtà si trova comodamente su Youtube.
È dicembre, non c’è neve ma fa un freddo pungente.
È appena passato Natale e il Milan è primo in classifica dopo anni di insoddisfazioni e oblio a metà classifica. Il Milan che arriva primo in classifica in quel dicembre 2020 non ci arriva a caso: terremoti societari e giravolte di allenatori lo hanno tormentato fino a un momento nel quale dirigenti come Paolo Maldini che si ritrova in società ma che ha da imparare tutto e allenatori seri ma costantemente sottovalutati come Stefano Pioli si incontrano e si incrociano in un progetto che prende forma quasi inaspettatamente. O almeno con risultati che superano ogni aspettativa iniziale. Tra cui il ritorno di Zlatan Ibrahimovic per esempio, mal visto dai più all’inizio come una “minestra riscaldata” che non sempre ha sortito buoni effetti. Eppure in questo mix di esperienza e umanità di Pioli (è stato l’allenatore della Fiorentina di Davide Astori e che ha attraversato lo squarcio che una perdita simile può lasciare in un gruppo affiatato), giocatori trascinatori come Ibra, giovani da crescere e valutare stimolati da un ambiente che rinasce e comunque storico trasforma il Milan del dicembre 2019 appena preso in mano dall’allenatore emiliano e appena uscito dallo stadio di Bergamo con una sconfitta altisonante di 5-0 contro la fluidissima Atalanta in una squadra unita, compatta, viva, giovane, entusiasmante e prospettica.
Quando Ambro intervista Ibra, è lui innegabilmente il volto incontrastabile di un Milan che vola come non si vedeva da tempo. Scommessa vinta, gli scettici si rimangiano la minestra riscaldata, e Ibra delira di onnipotenza, giustamente, da spaccone qual è. Va da sé che il personaggio piace, vende e fa parlare. Nella realtà della conversazione con Ambro viene fuori invece che è un professionista di quelli bravi e seri, che vive lontano dalla famiglia direttamente a Milanello nella camera che era di Berlusconi, che quando parla di Milan e di Milanello dice di sentirsi a casa e che, nel flusso di parole e pensieri, alla fine è solo uno come tutti noi in campi chiaramente diversi e decisamente meno soddisfacenti economicamente che ha fatto un percorso, è maturato, ha capito cose, ha trovato una “balance”, termine che se ogni tanto si sente in bocca ai giornalisti tipo Pierluigi Pardo è dovuto proprio a questo documento.

Per essere in mezzo alla steppa varesina in pieno dicembre e con gennaio a vista l’abbigliamento dei due fa venire i brividi all’istante: collo alto per Ambro sotto un giubbottino inconsistente su jeans chiari e sneakers bianche; felpa girocollo per Ibra nera con fascione rosso sotto a un giubbottino di pelle che nemmeno in estate può coprire, jeans neri slavati e sneakers nere con fascia bianca. Entrambi portano i giubbotti rigorosamente aperti. Non una sciarpa, un paio di guanti, non sia mai un cappello a rovinare le criniere. Ma fa freddo perché Ibra continua a sfregarsi le mani e la metà del tempo le tiene in tasca.
La prima parte è una passeggiata lungo il vialetto di ghiaia che porta ai campi, quelli che all’epoca del Milan che ho amato di più erano alla mercè dei fotografi: Paolo Maldini è un giocatore ancora giovane ma è un veterano, gioca ancora con Franco Baresi e Alessandro Costacurta e gli altri, i rossoneri sono ancora sponsorizzati Adidas. Su una delle siepi che perimetrano i diversi campi, il telo del Milan – quello che io per anni ho usato come telo mare orgogliosamente mostrato e sfoggiato sulle coste romagnole, marchigiane, croate, portoghesi e francesi e che oggi, bucato, è stato messo in pensione –, è abbandonato inerme. Maldini stende le braccia a mani aperte a metà tra un saluto e un avviso, sorride: è abbronzato, coi capelli lunghi, i suoi occhi azzurri sono luminosi ed è di una bellezza che non è di questo mondo.
Qualche anno prima, prima di tantissime mode, di tantissime politiche, di tantissime società e di tantissime vittorie e sconfitte, Marco van Basten passeggiava su quello stesso vialetto calzando ciabatte da piscina coi calzini bianchi sotto il polpaccio. Le foto che di lì a poco sarebbero state scattate non avrebbero compreso niente che andasse sotto la cintura, per cui un giocatore, volendo, poteva anche stare a piedi nudi. Qualcuna però venne comunque scattata fuori da quelle ufficiali: era l’anno dei tre olandesi, vagonate di giornalisti e fotografi frequentava assiduamente Milanello, oggi come allora una foto poteva essere uno scoop. Una serie di scatti vede i tre olandesi in più pose: in una, in verticale tipo totem indiano, van Basten è accasciato sulle ginocchia, Frank Rijkaard in mezzo e Ruud Gullit in piedi, sorridente tra le sue treccine che hanno fatto la storia. Su quei vialetti di ghiaia sono passati così tanti giocatori, storie, memorie, vite, vittorie e sconfitte che forse involontariamente del peso che significa percorrerli, o forse no, è una scelta consapevolissima, Ambro ricorda del primo giorno di Ibra e Ibra glielo racconta.
Ambro gli dice che è cambiato, racconta di quel Milan che hanno vissuto insieme, un Milan che per me era già un Milan lontanissimo dal mio amato di fine anni ‘80 inizio ‘90, e Ibra gli risponde che il loro aveva giocatori fenomenali, che al terzo cross sbagliato si arrabbiava a posta perché i compagni erano appunto fenomeni, come per dire che con quelli di oggi, giocatori bravini, ci sta che sbaglino spesso, anche se lui, Ibra, si arrabbia lo stesso, perché comunque si è “a certi livelli” nei quali non si può sbagliare.
Su quel vialetto Ambro rimbalza continuamente tra quel Milan e quello che Ibra è ora.
L’Ibra di ora, si evince, è meglio di quello di prima. Gli obiettivi di oggi sono più stimolanti di quelli di un tempo, proprio perché conquistarli con una squadra che non è propriamente di campioni è più bello.
Nella seconda parte i due sono seduti. Uno di fronte all’altro, uno su una sedia rossa e uno su una nera, dopo un po’ compare anche un tavolino nel mezzo sul quale un cameriere in camicia bianca, con paranza con pettorina e papillon porta due tè caldi.
Di fatto sono due uomini di quarant’anni, in forma indubbiamente, che chiacchierano di calcio, di spogliatoio e di vita. In alcuni punti la conversazione è anche tecnica nella misura in cui è comprensibile solo a chi il campo lo ha calcato come loro e ha vissuto le dinamiche molto particolari di uno spogliatoio.
Quando Ambro e Ibra giocano insieme, il calcio ha già intrapreso la via della globalizzazione: i giocatori hanno i nomi sulle spalle e i loro numeri preferiti, la Coppa Campioni ha cambiato nome e si chiama Champions alla quale partecipano più squadre della stessa nazione, la Coppa delle Coppe non esiste più, semplicemente il mondo è diverso, vuoi la caduta del muro di Berlino vuoi quella delle Torri Gemelle si arriva nel nuovo millennio come se per forza si debba cambiare. Ciò che non cambia è la fame che ha gente come Ibra, fame di vittorie naturalmente.
Tutto ruota comunque, ancora, intorno a Ibra, Ibra come sta, Ibra cosa vuole, Ibra cosa sente, Ibra che parla con Pioli che gli dice di rimanere, Ibra e solo Ibra.
Una carrellata di sensazioni che nascono e si affievoliscono, esperienze come quelle di Barcellona e Manchester non del tutto totalizzanti, e una sfida, altra parola molto citata, su questo Milan che a dicembre 2020 era una creatura ancora da capire, oggi nel 2021 è sorprendentemente una certezza.

Non so quanto questi prodotti siano davvero importanti o mera istantanea dovuta alla popolarità catalizzante del personaggio del momento, giornalisticamente parlando.
Sicuramente la domanda e l’offerta della nuova narrazione è di un pubblico che queste storie le vuole, non a caso viene nominata The last dance su Michael Jordan, altro personaggio su cui raccontare tanto e prodotto che sempre in quello strano dicembre 2020 di ennesimo lockdown è stato molto visualizzato su Netflix.
Certo è che la narrazione sportiva in video sta assumendo nuove forme, nuovi orizzonti, nuove prospettive, tanto è vero che su Raiplay Sogno azzurro stravisto e seguitissimo soprattutto dopo la vittoria di Euro 2020 (2021) degli azzurri ha stupito persino gli stessi dirigenti RAI che avevano dato l’ok al progetto, dinosauri che scoprono che l’azienda può tornare a produrre qualità, come poi è quasi sempri stato.

Nella domenica in cui chiudo questo articolo, sabato sera il Milan vince di rimonta contro il Verona, in un sabato umido e freddo di metà ottobre. Ibrahimovic viene da mesi difficili, qualche infortunio ripetuto principalmente a causa dell’età, nella gara col Verona Pioli lo convoca mandandolo in panchina.
A metà secondo tempo Ibra entra in campo tra gli applausi del pubblico di San Siro.
Qualche minuto dopo, in una partita complicata per i rossoneri, sotto di due reti alla fine del primo tempo e capaci di pareggiare ora che entra Ibra, nemmeno un minuto e su cross intelligente di Samuel Castillejo che i giornalisti ritengono sbagliato ma giusto a mio avviso (Ibra è sul secondo palo, Castillejo lo manda basso a posta per il tap-in dello svedese), il difensore del Verona sentendo la presenza di Ibra alle sue spalle lo anticipa e fa autogol, permettendo al Milan di vincere.
I telecronisti dicono che persino l’ombra di Ibra fa paura.
Ha avuto ragione Ibra.

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