Contro la municipale: Freaks out, quando Gabriele Mainetti fa i film di supereroi

Stefano Tevini | Due calci al balloon |

Uno spettro si aggira per il cinema italiano. Lo spettro del cinema di genere, in particolar modo del fantastico. In un paese, ricordiamocelo, dove fino a ieri chi parlava di quel termine ombrello che raccoglie fantasy, fantascienza e tutti i filoni e sottogeneri immaginabili veniva guardato di traverso, come se avesse scoreggiato in ascensore. E pure oggi, che il genere è cresciuto in popolarità fino a diventare un elefante nella stanza che non può più essere ignorato tout court, perché se guardi dall’altra parte il pachiderma non se ne va, anzi magari ti respira vicino con la proboscide soffiandoti addosso l’aria calda e umidiccia che fa pure un po’ schifo, c’è chi ci si avvicina a chiappe strette. Ci sono film come La terra dei figli, tratto da un fumetto di Gipi, o serie TV come Anna, tratto da un romanzo di Niccolò Ammaniti, che fanno genere sì ma con moderazione, che si preoccupano molto poco di raccontare una storia e fin troppo di rassicurare gli spettatori, non sia mai che possano credere veramente di trovarsi davanti qualcosa di diverso dal solito cinema italiano impostato, intellettualoide, teatrale, menoso e ombelicale, ci mancherebbe, e allora giù di pause drammatiche interminabili, personaggi che sembrano tirati fuori dal classico film sulle menate esistenziali di un gruppo di quarantenni che si ritrova vent’anni dopo il liceo e fa il punto della situazione, lunghi momenti di niente, tempi morti pieni di roba visivamente potente che dovrebbe far dimenticare il fatto che la trama è esile, spesso pretestuosa e perché no, mettiamocelo qualche buco che tanto a che cazzo ci serve, noi abbiamo le pause drammatiche e le scene visivamente potenti. In Italia qualcuno fa cinema di genere perché in giro si dice che adesso sia quel che va di moda, ma senza crederci troppo, e sempre con quella punta di scopa nel culo che fa tanto cultura alta.

E poi c’è Gabriele Mainetti, che ci crede un casino, e cazzo se si vede, finalmente. Lo chiamavano Jeeg Robot è stato un colpo di cannone nel silenzio, un fulmine a ciel sereno che quando stavo in sala me lo guardavo e pensavo «Ma a questo è matto. Che gli dice la capoccia?». Sì, perché il primo lungometraggio di Mainetti si pone un obiettivo molto semplice: raccontare una storia. Diretta. Delicata come un maglio. Onesta. Senza far finta, senza strizzare l’occhio a un canone ormai ricoperto di muffa quasi a scusarsi di aver osato fare cinema di genere. Sai quanto gliene fotte, a Mainetti. Lui ti racconta una storia di supereroi italiani, ambientata in Italia, con una sensibilità tutta italiana. Magari senza un budget stratosferico, gli effetti speciali visivamente sono quelli che sono ma l’energia c’è tutta. C’è la voglia di fare e di divertire senza sensi di colpa o di inferiorità. Risultato? Bomba. Lo chiamavano Jeeg Robot funziona. Piace. La gente se lo vede e se lo rivede. Un cult istantaneo. Bene, e adesso? Facciamo il bis, no?

Ed ecco arrivare Freaks Out. Qualcuno dice: eh ma qui Mainetti fa gli X-Men. E sticazzi? Per caso van Vogt ha fatto gnegnegne quando Lee & Kirby hanno realizzato ‘sto fumetto che tanto assomigliava al suo Slan? No, perché reinterpreta quanto ti pare ma le storie e gli archetipi quelli sono, non se ne esce. La differenza la fa il come. E in tal senso Freaks Out funziona. Racconta di un gruppo di fenomeni da baraccone che sbarca il lunario con un circo sgarrupato nel 1943, dopo l’armistizio di Cassibile. Hanno sì delle capacità straordinarie ma neanche troppo, dei poteri sì e no super, di cui forse avrebbero fatto volentieri a meno. E restano vittime. Da soli non vanno da nessuna parte. Si salvano insieme, non da soli, ovviamente dai nazisti cattivi e in particolar modo da un nazista fragile e sfortunato quanto loro ma di certo un poco più stronzo, altrimenti cosa sei nazista a fare, in un ottovolante non troppo lineare di situazioni che non li vede sempre trionfare come eroi senza macchia ma che, anzi, ne mette per lo più in evidenza quelle debolezze e quelle fragilità profonde che li rendono più umani di tutti gli altri personaggi. Poi l’azione non manca eh, perché comunque Freaks Out è un film avventuroso, che ha i suoi momenti di dolcezza ma non teme di essere ruvido e in più di un occasione, complice un gruppo di partigiani incazzati come pantere, gli schiaffi volano in copiosa abbondanza.

Ma in definitiva, sto Freaks Out com’è? Disordinato, a tratti confusionario, non esente da difetti. Ma anche pieno di energia, sfrontato, divertente, con una storia solida da raccontare e alcuni momenti davvero epici. E coraggioso. Soprattutto coraggioso. Voglio dire, Gabriele Mainetti fa i film di supereroi. In Italia. Mi spiego? In Italia. E ci riesce pure! Il suo modo di fare cinema è lo stesso di Mondocane, il film di fantascienza di Alessandro Celli con Alessandro Borghi fra gli interpreti. Un cinema di genere figlio del cinema di genere degli anni Settanta e Ottanta, un cinema con un forte orientamento alla narrazione, in cui tutto è funzionale alla narrazione, sì la sceneggiatura ma anche tutti gli elementi visivi. La Taranto futuristica di Celli, per esempio, è realizzata con pochi mezzi che raccontano però tantissimo. I blindati della polizia, l’abbigliamento della gang delle formiche, niente è sprecato, tutto serve a costruire un’ambientazione credibile che dà corpo e profondità a una storia solida fatta sì di personaggi e di relazioni, ma anche e soprattutto di scene, movimento, eventi che accadono con un ritmo sostenuto. Proprio come nel cinema di Mainetti che si dichiara, fotogramma dopo fotogramma, felicemente a servizio della narrazione. Senza vergogna, senza complessi, senza pippe mentali.

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