“The House”, o meglio, “La salvezza nell’oblio”

Francesco Milo Cordeschi | Affatto |

No, non è un ennesimo (improbabile) sequel o spin-off dell’ormai antologica saga inaugurata nel 1981 da Sam Raimi, Bruce Campbell e Robert Tapert. Anche perché a voler esser pignoli, in quel caso, la trascrizione anglofona corretta corrisponderebbe a The Evil Dead III, come scandiva il titolo originale del primo film (piccola nota di colore, che forse già conoscerete: il nome La Casa, liberalmente deciso dalla nostra distribuzione, giovò non poco a un certo Umberto Lenzi che, sul finire degli anni Ottanta, fece leva sul successo delle opere di Raimi, oltre che sul limbo legale nel quale gravitava il titolo italofono, per partorire una pletora di spaghetti-horror ‘apocrifi’; film del tutto avulsi dalla linea narrativa statunitense – era d’altronde il tempo in cui, a dispetto delle loro modeste ambizioni, alcune frange del cinema art-house non disconoscevano il potenziale commerciale dei loro prodotti).

Ma bando alle digressioni e, tanto più, a effimeri passatismi. È chiaro che davanti a The House, eccentrico lungometraggio in stop-motion recentemente affiorato sul catalogo Netflix, si è al cospetto di un prodotto di tutt’altra fattura. Va tuttavia riconosciuto che, rapportato all’anzidetta trilogia La Casa (per nominarla a modo nostro), l’ultima fatica dei londinesi Nexus Studios non lesina certo in quanto a registro orrorifico e grottesco. In alcuni passaggi, potremmo paradossalmente coglierne delle contiguità. Sono anni ormai che la produzione si districa nell’animazione sperimentale di vario calco (e in CGI e in ‘passo uno’ – vedasi il suggestivo promo The Fearless Are Here per le Olimpiadi invernali 2018, o il cortometraggio To Build a Fire, ispirato al racconto di Jack London). Ma questo The House sigla un’indubbia maturazione stilistica del team, inscenando uno dei più intriganti baluardi dell’animazione europea degli ultimi anni; intendiamoci, parliamo di una maturazione da non ascriversi al mero minutaggio, di gran lunga più ‘libero’ rispetto al precedente repertorio, ma anche e soprattutto al tema affrontato dalla pellicola (lo stesso che tra l’altro la titola): letteralmente ‘la casa’; nulla di più vicino a ciò che, in due anni pieni di pandemia, tra lockdown e quarantene plurime, ha innervato la nostra quotidianità, ridefinendone vizi e abitudini.

Potremmo condividere il commento di Paolo Di Paolo, uscito qualche mese fa su “la Repubblica”, a proposito di Tre Piani di Nanni Moretti (altro film di cui, incredibile a dirsi, potremmo ravvisare delle consonanze con l’opera targata Netflix): «I personaggi, i protagonisti, siamo noi: come in uno specchio. Induriti, segnati; più chiusi che realmente aperti, più ansiosi che solari, goffi e incerti come dopo un trauma ortopedico. Abbiamo atteso così a lungo di ritrovarci – com’è che si dice? – in presenza.» Il lavoro corale di Emma de Swaef, Marc James Roels, Niki Lindroth von Bahr e Paloma Baeza si articola in tre episodi, quasi tre cerchi concentrici; uno schema antologico per ironia non troppo dissimile da quello presente nel dramma di Moretti e nell’omonimo (intenso) romanzo di Eshkol Nevo. Questo pattern è qui però cadenzato da un tono surrealista e lisergico, destinato ad allentarsi nell’ultimo episodio; un climax che vede coinvolto non un personaggio (umano e/o antropomorfo) ma uno spazio fisico, una dimora.

Il primo episodio vede per sfondo un ‘800 astorico: in una non precisata provincia campestre britannica, una famiglia di bassa estrazione viene irretita da un misterioso architetto. L’uomo persuade il nucleo a trasferirsi in un’abitazione edificata da lui. Non ci vorrà molto perché quelle quattro mura disvelino il terribile maleficio di cui sono pregne, similare al decantato Necronomicon dei film di Raimi. Grande differenza sta però nella fonte dell’incantesimo, stavolta da non deputare a un arcano manoscritto ammuffito, ma ai protagonisti stessi. Sembra, in effetti, che ne siano proprio loro gli artefici e i detentori. È infatti la smaniosa cupidigia della coppia ad aver imbrigliato l’abitazione in un macabro onirismo: un’atmosfera fantasmatica, sospesa tra l’Overlook Hotel di kubrickiana memoria, e l’estetica frammentaria di Francis Bacon. Rincariamo la dose. C’è molto anche di David Lynch (quello, per chiosare, dei bellissimi corti The Alphabet o Dumbland, debitori di un altro grande artigiano del ‘passo uno’, il ceco Jan Švankmajer).

Ma il vero sottofondo lynchiano trasalirà forse più avanti, nel secondo episodio: l’ambientazione si trasfigura in una città moderna abitata da topi civilizzati, dalla scorza vagamente ammiccante ai conigli di Rabbits, la serie di Lynch del 2002, confluita poi nel film Inland Empire. Protagonista è qui un costruttore, trepidante all’idea di sottoporre ‘la casa’ a dei potenziali acquirenti. Peccato che, di lì a breve, dovrà fare i conti con degli inopinati coinquilini: una sterminata schiera di parassiti e una bizzarra coppia dalle sghembe fattezze che, sebbene si dica interessata all’abitazione, ne ha preso possesso senza alcun accordo. Queste due ingerenze combinate daranno la stura ad ossessioni e fobie recondite (seppur abusata in altri intrecci, ho apprezzato non poco la misofobia compulsiva del personaggio; senza scomodare inutili elucubrazioni, ammetto che mi ha ricordato una sequenza formidabile del cult Creepshow del maestro George A. Romero, con protagonista un faccendiere spregiudicato, anch’egli vittima di un’infestazione massiva di blatte). Sopraffatto dagli accadimenti, il roditore si vedrà costretto a un’inesorabile dissociazione, sublimata da un exploit kafkiano di grande impatto visivo. Subirà una metamorfosi regressiva; una transizione, per certi versi, salvifica: Per la prima volta, riuscirà di fatto a riconciliarsi con una natura primordiale, fino a quel momento sommessa (se non rinnegata).

Nei suoi esiti mostruosi, quest’epopea preluderà l’alone ottimistico del terzo e ultimo episodio, forse il più significativo; questo si pone in effetti come il corollario risolutivo di tutti i nodi congiunti nei precedenti capitoli. Paradosso vuole che la protagonista sia una gatta, un felino (predatore quintessenziale dell’animale protagonista dell’episodio precedente). Paradigmatico il titolo: Listen Again and Seek the Sun, un invito ad affrancarsi dalle mura delle nostre facili convinzioni; a non fare della nostra casa uno sterile fortilizio. Nonostante la coltre post-apocalittica del capitolo (avrà infatti per cornice un futuro imprecisato, in un mondo piegato da un’inondazione, simil-Waterworld), ciò che ne emergerà sarà un messaggio di vera ascesi: la protagonista Rosa, anch’ella costruttrice, vorrebbe rinverdire l’arredo della magione, ormai galleggiante, nella speranza di restituirle la linfa e lo splendore andato perduto col cataclisma. Ma la sua febbrile smania non troverà il favore dei suoi stravaganti affittuari: una micia dalle velleità mistico-orientali, e un fatuo pescatore di poche pretese. Contro ogni aspettativa, i due sapranno rendersi dei solidi supporti, incoraggiando Rosa a vincere le sue inibizioni, e ad accogliere il mondo all’infuori delle sue rigide planimetrie mentali.

L’epilogo sentenzia una riuscitissima parabola, degna delle migliori scuole narrative junghiane (la fabula del topo, in particolare, è la mesta allegoria dell’alienazione dell’Io; una coscienza animalesca e incompleta, con cui la sfera armonica e razionale dovrà interagire per ambire all’equilibrio – la stessa successione dei capitoli sembra di per sé predittiva; il roditore viene letteralmente ‘fagocitato’ dal gatto). I personaggi maturano parallelamente alla loro relazione col domestico, con le loro fragili riservatezze, anticamere di un mondo remoto, selvaggio e caotico, difficile perfino da concepire; un mondo astruso, complesso da valicare, ma necessario a scoprirci. Lovecraft lo avrebbe descritto nell’Altrove, un universo a rovescio, di cui la follia ne era il solo viatico (l’inneggiata Trilogia di Raimi sembrava comprovarlo). Per The House questo ‘oblio’ è, al contrario, una tappa obbligata; l’unico solco frapposto alla vita oltre le nostre soglie.        

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