Alan Moore nel mondo del Mito: Sesto passo

Francesco Pelosi | Mappaterra del Mago |

Sorge l’alba sulla Mappaterra del Mago. Ci siamo alzati di buonora e abbiamo raggiunto la periferia della cittadella di Supreme appena prima che il sole spuntasse all’orizzonte. Notiamo un piccolo avamposto di case fatiscenti, a pochi chilometri dall’ingresso della città dorata. Un cartello dice: “Vecchi Edifici”. E d’improvviso ricordiamo che proprio da quelle parti si era consumato anni prima un piccolo omicidio.

Le storie, tanto più sono immersive, tanto più fungono da rimedio contro l’angoscia del pensiero nichilista occidentale, quella voce ormai completamente interiorizzata nella nostra essenza cosciente che ci dice che veniamo dal niente e che al niente torneremo.
Il mondo pre-filosofico, quello che potremmo chiamare il mondo del Mito, viveva invece una coscienza diffusa in cui esisteva solo il Tutto (anche se a chiamarlo così furono i primi filosofi), e di cui il niente era solo una parte, non come una mancanza assolutama come qualcosa che manca.
«Il Tutto include sia l’ “uno” sia “tutte le cose”, ma nell’ “uno” stanno già e tornano a trovarsi raccolte “tutte le cose” che da esso provengono e a esso ritornano». Emanuele Severino, nel primo volume del suo La filosofia dai Greci al nostro tempo, scrive questa frase in relazione al pensiero di Eraclito, filosofo del VI secolo a.C., di poco successivo ai tre di Mileto – Talete, Anassimandro e Anassimene – considerati i primi filosofi occidentali.
Il nostro pensiero nichilista contemporaneo, non è dunque un dato di fatto, come siamo abituati a credere, poiché connaturato alla nostra esistenza, ma un’idea che supera a malapena i duemila anni di storia. È come se una linea di demarcazione nettissima dividesse il pensiero antico, quello del mondo del Mito e quello dei primi filosofi, da quello moderno e contemporaneo, cresciuto con il progredire della filosofia e dal quale si sono poi sviluppati tutti i nostri metodi attuali.
Il mondo del Mito diceva, senza saperlo e cioè senza averlo teorizzato, ma vivendolo, che “dal Tutto si genera il Tutto”. Noi oggi, e da qualche secolo ormai, siamo arrivati invece a concepire come verità l’estremo opposto: “dal nulla si genera il nulla”.

Il mondo del Mito è eterno, al di là del visibile e dell’invisibile. È un mondo incorruttibile, nel senso di non diviso. È questo tipo di visione quella che Alan Moore vuole recuperare quando, a metà degli anni Novanta, torna a lavorare sull’idea di supereroi con 1963 e Supreme. Il mondo della filosofia occidentale è invece il mondo di un pensiero diviso, in un costante divenire dal nulla al nulla, e cioè finito.
Per Moore le cose del mondo originano dalle idee, non nascono dal nulla e men che meno al nulla poi ritornano. Le idee sono eterne e abitano il luogo che lui chiama Idea-Spazio, l’unico in cui «gli dèi esistono indiscutibilmente». E se le cose appaiono come “finite” in una concezione 3D della realtà, non lo sono invece dal punto di vista delle dimensioni superiori, parti integranti di quella medesima realtà.
In questa visione del mondo non c’è il nulla perché c’è solo il Tutto, e allo stesso modo non c’è un Dio, né inferni o paradisi in mondi al di là del nostro, perché semplicemente al di là del nostro non c’è mondo. Tutto ciò che è, è qui, solo che normalmente non lo vediamo. La realtà è un insieme integrato di infinite dimensioni, di cui noi percepiamo, per la maggior parte della nostra vita di veglia, solo una minima parte.
Dice P. D. Ouspensky, citato da Rudy Rucker in La quarta dimensione: «Potremmo avere ottime ragioni per affermare che noi siamo esseri a quattro dimensioni e che siamo volti verso la terza dimensione con uno solo dei nostri lati, cioè solo con la minuscola porzione del nostro essere. Solo questa parte di noi vive in tre dimensioni, e noi siamo coscienti solo di questa parte del nostro corpo. La parte maggiore del nostro essere vive nella quarta dimensione, ma di questa parte maggiore siamo inconsapevoli. Sarebbe ancor più vero dire che viviamo in un mondo quadridimensionale, ma siamo consapevoli di noi stessi solo in un mondo tridimensionale». 

In questo caso il concetto di “uno”, non riguarda strettamente un essere creatore come può essere il dio dei monoteisti. Si avvicina molto di più al Grande Spirito dei Nativi americani: un’essenza diffusa nel mondo stesso che ha generato, ma completamente spersonalizzata. La definizione migliore mi sembra proprio quello dei filosofi del VI e V e secolo a. C., riassumibile come “dal Tutto si genera il Tutto”.
Charles Hinton, con cui Moore in From Hell continua a chiedersi che cos’è la quarta dimensione?, scrisse di avere con questa essenza-non essenza in cui siamo completamente immersi «un’intima comunione». Hinton non era un mistico né uno spiritista, ma un insegnante e uno scrittore, e si può dire che per questo aveva dimestichezza con entrambe le aree del suo cervello, quella sinistra-razionale e quella destra-intuitiva, condizione che gli permetteva di avere, come dice, «l’intima percezione dello spazio». Uno spazio che, come lo consideravano Eraclito e i suoi predecessori, comprende ed è sia le cose che lo abitano, sia se stesso. Sembra quasi di sentire l’intuizione di Einstein riguardo al campo gravitazionale che non è diffuso nello spazio ma è lo spazio.
Scrive Rucker: «Andando verso concezioni sempre più elevate dello spazio, si arriva a concepire un “superspazio” ideale in cui tutte le cose – vicine e lontane, passate e future, grandi e piccole, reali e immaginarie – stanno insieme in una grande unità». 
Come dire: un’Idea-Spazio immersa in un Universo Blocco. Il luogo dove gli dei sono reali, il mondo del Mito. Qui vivono Supreme e gli altri eroi della Image-Awesome con cui Moore ha a che fare per alcuni anni a partire dal 1993.

Poco prima però, nel 1991, realizza già questo “superspazio” nella sua unica opera considerabile a tutti gli effetti un  graphic novel: A small killing, in coppia con Oscar Zarate.
Pubblicato in Italia nel 2010 da Magic Press e (purtroppo) mai più ristampato, Un piccolo omicidio nasce dall’incontro casuale fra i due autori – incontro che entrambi ricordano in maniera differente – e da un’idea lanciata da Zarate a Moore a proposito di un bambino misterioso che perseguita un uomo.
Dice Moore: «La cosa mi ricordava vagamente un sogno che avevo fatto quando ero adolescente o avevo poco più di vent’anni, in cui incontravo me stesso da bambino e mi accorgevo che il piccolo me stesso era inorridito da quello che ero diventato, quello che ero da grande. E ho pensato che sarebbe stato interessante se il bambino che seguiva l’uomo fosse stato lui stesso, o una specie di spettro o di fantasma di lui da bambino. In questo modo la storia poteva raccontare il divario che c’è tra i sogni, le ambizioni e gli ideali dell’infanzia e quello che alcune persone diventano crescendo».
La storia di questo tradimento verso sé stessi e verso il mondo, è anche l’occasione per fare il punto sulla china intrapresa dalla società occidentale negli anni Ottanta del XX secolo. Se i Sessanta/Settanta sono per Moore il punto più alto raggiunto dall’immaginazione e dall’ingegno della specie, il decennio seguente, esattamente come accadde cento anni prima, non è altro che l’orrendo presagio della decadenza (come evidenzia anche Carlos Sampayo nella sua introduzione al volume).
A small killing non a caso è ambientato nel mondo della pubblicità e il protagonista, l’indolente e “vuoto” Tim Hole, è uno yuppies che si appresta a fare la sua scalata sociale progettando una serie di spot per la Coca Cola da vendere al di là del Muro di Berlino appena caduto. Tutto questo sarà messo in discussione però dall’incontro con l’inquietante bambino che costringerà Tim a fare i conti col passato.
Secondo la visione di Zarate, la storia sarebbe dovuta essere scandita come una filastrocca dal semplificarsi dei mezzi di trasporto usati dal protagonista. E così vediamo Tim intraprendere questo viaggio verso la sua infanzia partendo da New York, dove oggi lavora e sta per fare successo, in aereo, in direzione di Londra, città del suo primo impiego e del suo primo tradimento sentimentale, per poi proseguire verso Sheffield, paese dove ancora abitano i suoi genitori, e infine raggiungere in bicicletta il quartiere, i vecchi edifici, in cui è nato e dal quale ritornerà a casa a piedi. A ogni tappa del viaggio, come in un canto di natale, Tim rivive le situazioni cardine della sua vita.
Mentre avanza tornando ai luoghi del suo passato, gli eventi di quel passato avanzano verso di lui e quando ricorda un preciso momento del tempo, Tim si ritrova nello spazio di quel tempo. Se la direzione del presente e quella del racconto avanzano linearmente da A a B (New York-Londra-Sheffield-vecchi edifici), la direzione dei ricordi, quasi come stessimo leggendo la storia in versione manga, si muove al contrario da B a A (vecchi edifici-Sheffield-Londra-New York), incrociando fra loro eventi e luoghi nei momenti esatti in cui avvennero. Anzi, in cui avvengono.
Un piccolo omicidio, così come sarà molto più avanti anche Jerusalem, è un’opera che ha in sé il senso di se stessa: è ciò che descrive, rappresenta ciò che è. Un Universo Blocco (sia nella forma narrativa che in quella fisica di libro a fumetti) «in cui tutte le cose – vicine e lontane, passate e future, grandi e piccole, reali e immaginarie – stanno insieme in una grande unità».

Le storie di Moore sono movimenti geografici nel tempo – testi psicogeografici che fanno assumere alla mappa valenza di territorio reale – ma A small killing è forse l’unica costruita in modo tale che spaziotempo e tempospazio siano perfettamente palindromi, esaltando pienamente il contenuto nella forma.
Se fin qui il lavoro di Moore é identificabile soprattutto con il procedimento alchemico del solve, smontando le storie a cui si approccia in tante piccole parti e analizzandole per poi ricomporle in qualcosa di nuovo (è ciò che lo ha reso celebre con Miracleman, V for Vendetta, Swamp Thing, Watchmen e From Hell), andando avanti, sciolti e districati ormai tutti i meccanismi intrinseci alle narrazioni, lo scrittore si dedicherà maggiormente al coagula, sintetizzando e distillando sempre meglio la materia del mito in cui si immerge.
I suoi lavori successivi, 1963 e Supreme, ne sono un esempio perfetto.

[Continua]

Arnesi del cartografo

A quanto pare, l’unica edizione italiana di Un piccolo omicidio di Alan Moore e Oscar Zarate è davvero quella Magic Press del 2010. Nel solito e preziosissimo Le straordinarie opere di Alan Moore (Black Velvet, 2011), George Khoury afferma che quello è probabilmente il suo libro più sottovalutato e Moore risponde, ridendo: «Lo considero un segreto gelosamente custodito». E ancora: «(…) continuo a pensare che Un piccolo omicidio sia uno dei fumetti migliori che abbia mai scritto, e tra tutti i volumi a cui ho collaborato è sicuramente uno dei più belli a vedersi».
Certo, lo si può trovare usato in rete, ma la speranza è che qualche editore faccia un piacere a tutti e lo ristampi.

La citazione e le considerazioni di Emanuele Severino a proposito del mondo pre-filosofico vengono dal suo La filosofia dai greci al nostro tempo – La filosofia antica e medievale (Rizzoli BUR, 2004).

Il brano di Ouspensky è tratto da Rudy Rucker, La quarta dimensione (Adelphi, 1994).

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