Tutta la cattiveria di Tuono Pettinato

Boris Battaglia | Pantomime del Calisota |

Leggere è sempre un problema. Almeno per me. Non è mai stato un piacevole passatempo. Che il tempo passa meglio e più veloce se scopi, se bevi, se fumi, se chiacchieri, se ascolti musica, se giochi ai videogiochi o se cammini. E non mi è mai neppure capitato, che non sono uno stolido cartesiano, durante la lettura di avere avuto commercio con quegli spiriti eccelsi che di quello che leggo sono gli autori. L’unico commercio che ho è quello con la cassiera carina della libreria quando le lascio il corrispettivo in corrente valuta per quel mucchio di carta, parole e disegni che mi porto a casa. Poi, come diceva il Califfo, «tutto il resto è noia».
Leggere è una cosa che richiede strumenti appropriati, e non è un diritto (contrariamente a quello che vorrebbero tutti i Pennac del mondo), semmai purtroppo un dovere. A questo proposito ti dico una cosa che ho fatto un bel po’ di tempo fa. Sono andato, qualcosa come più di dieci anni fa, camminando e fumando, a sentire una conferenza di John Berger.
Intendiamoci. Il posto dove si era tenuta, la Casa della Cultura, qui a Milano, non mi piace. Gente che si interroga sul presente e sul dove andremo ma che al limite raggiungono la carissima caffetteria in Corso Matteotti. A qualsiasi luogo dove si faccia dichiaratamente cultura, io preferisco i bar e le trattorie a menù fisso, ma John Berger a pranzo con me non ci sarebbe mai venuto, così invece, quella volta, andai io a sentirlo in quel posto (che odiavo) dove parlava.
Ora. Quello che diceva Berger, per me è un problema. Tutto il suo pensiero si basa su un’incondizionata fiducia nelle storie. Questa sua speranza nelle storie, quella quasi cieca fiducia nel suo storyteller, avrebbero tutte le carte per lasciarmi freddo, per trovare poi annacquato il suo invece lucidissimo pensiero politico (una delle poche chiare attuali percorribili declinazioni dell’anarchia), per farmelo disertare quel pensiero. Però John Berger diceva anche altro.
Diceva che più importante del trovare una storia, è trovare la voce per raccontarla quella storia… mica arrivano insieme storia e voce (certo a volte capita), ma sai quante volte la voce è sbagliata, quanto lavoro ci vuole per costruire quella giusta. Il come, perché altrimenti il cosa non funziona.

A me, del pensiero di Berger, interessa quel come. Sgombro subito il campo da fraintendimenti. Se l’autore per me è figura centrale non mi interessano però posizioni come quelle di Carla Benedetti, completamente antistrutturaliste. L’autore mi interessa da un punto di vista materialistico e razionale. Sì, quello del troppo rimosso Gaston Bachelard. Perché vedo, riguardo ai fumetti, in questa commistione tra natura (la storia) e cultura (la voce che la racconta) l’unico luogo di possibile ricerca. Una ricerca fatta per mezzo di continue “rotture epistemologiche”, piccoli frammenti di frattempo (che assomigliano così tanto agli spazi bianchi tra le vignette) che ci avvicinino sempre un po’ di più alla verità.

Sul finire degli anni Settanta la televisione di stato produceva un sacco di sceneggiati. Non credo fossero migliori di quelli che fanno adesso (non ho voglia di riguardarli che troppe cose che mi sembravano belle e importanti a riguardarle oggi mi si sono rivelate invecchiate proprio male), è solo che li guardavo con occhi diversi, più impressionabili.
Me ne ricordo uno con Rossano Brazzi che mi aveva affascinato particolarmente. Raccontava di un commissario per il quale la ricerca dell’assassino di una bambina diventava una tale ossessione da condurlo alla pazzia, con la tragica beffa che pur avendo intuito la verità, non avrebbe mai potuto catturarlo, perché l’assassino era morto casualmente in un incidente. Ricordo la brutale sorpresa della sequenza finale, in cui l’inconsapevolezza del commissario in attesa di catturare l’assassino seduto sotto la pioggia, si scontrava con la mia consapevolezza dell’impossibilità di quella cattura. Uno iato epistemologico che divenne un attimo rivelatore sul come funzionano le storie (di cui realizzerò piena coscienza un bel po’ dopo).
Nel 1979 non amavo i gialli. La mia esperienza di lettura di quel genere si era arenata nell’arcipelago delle banalità dei gialli dei ragazzi Mondadori e nella noia consequenziale delle Agatha Christie. Il noir e l’hard boiled ci metterò ancora un paio d’anni prima di scoprirli. Amavo invece la fantascienza. Cazzo. Avevo incontrato sulla mia strada di lettore disordinato un cofanetto degli Oscar Mondadori con i tre volumetti del primo ciclo della Fondazione asimoviana, e da allora non ho più smesso. Ma questa è un’altra faccenda e ne parliamo un’altra volta.
Torniamo ai gialli.

Torniamo ai gialli. Se non hai ancora letto niente di Friedrich Dürrenmatt smetti la lettura di questo pezzo, potrei rovinarti qualche interessante sorpresa. Vai a leggerti almeno Il giudice e il suo boia, ma soprattutto La Promessa. Poi torna pure qui, che riprendiamo il discorso partendo da quello sceneggiato di cui ti stavo parlando prima. Quello sceneggiato era ispirato, come scoprii qualche tempo dopo, a un romanzo breve (e la sua brevità mi convinse subito a leggerlo) di Dürrenmatt intitolato appunto La Promessa e che recava un sottotitolo molto eloquente: Un requiem per il romanzo giallo.
L’opinione diffusa, quella che ti snocciola chiunque abbia dimestichezza con questa letteratura di genere, è che con questo romanzo Dürrenmatt abbia voluto mettere in crisi la struttura classica del romanzo giallo, imbastita sulle regole drammatiche di Aristotele e fatta tutta di tali e tante formalità razionali e logica consequenzialità degli eventi da portare Sigfried Kracauer ad affermare che «la fine di ogni romanzo poliziesco rappresenta la vittoria della ratio…». In realtà io credo che a Dürrenmatt della struttura del romanzo giallo gliene importasse sega, e ancor meno gli importava, come invece vorrebbe Ernest Mandel, di conferire al romanzo poliziesco un tono nuovo e paradossale.
In fondo prima di lui (La promessa è del 1957) che il romanzo poliziesco, invece di segnare il trionfo della logica, dovesse consacrare il fallimento del ragionamento per colpa del caso, già lo avevano sostenuto (con quelle testuali parole) Boileau e Narcejac in due romanzi fondamentali Celle qui n’etait plus (del 1952) e D’entre les Morts (del 1954). Da questo secondo romanzo Hitchcock ci trarrà il bellissimo Vertigo, ma stravolgendolo completamente: la trama del romanzo infatti è il trionfo dell’assurdo, quasi Ionesco si fosse divertito a scrivere un noir.
In realtà l’interesse di Dürrenmatt è tutto epistemologico. Non è vero, come sostenuto da più parti, che l’intervento del caso impedisce di arrivare alla verità. La tesi di Dürrenmatt è esattamente contraria. L’ha esposta chiaramente ne Il giudice e il suo boia (romanzo del 1952). È proprio il caso «il quale tuttavia ha la sua parte in tutto… il motivo per cui la maggior parte dei delitti vengono immancabilmente alla luce». Con la logica si arriva solo a un passo dalla verità. Bisogna sapere guardare l’imperfezione per procedere verso la verità.
Il commissario Matthäi non impazzisce per il motivo di non avere scoperto l’assassino di bambine che imperversava per i Grigioni, impazzisce per essere venuto meno all’imperativo morale di non avere mantenuto una promessa (altro tema filosofico, quello dell’etica e della giustizia, presente in Dürrenmatt dai tempi dell’altro commissario, Barlach, ma che qui non ci interessa). Matthäi la verità la scopre eccome, e praticamente già a metà del romanzo. E la scopre perché sa fare una cosa che gli altri non sanno, o non sono interessati a fare: sa guardare e decifrare un disegno. Quello che la piccola Gritli Moser ha fatto del suo assassino e stupratore, prima che egli si rivelasse tale, e che fa bella mostra di sé appeso nella classe della scuola elementare del paese dove la bambina viveva.
Già. Non è un caso allora se ci pensi: Walter Benjamin aveva notato che esiste una corrispondenza cronologica tra la scoperta della fotografia e la nascita del romanzo poliziesco. Non è una questione di (con)sequenzialità. Alla verità ci arrivi se sai guardare le immagini. Capirne non tanto le sequenze, quello sanno farlo tutti, quanto l’intenzionalità. Capisci l’importanza fondamentale di quel libro?
E adesso la faccenda si complica.
A questo punto non so se riuscirò già a cominciare a parlarti, come mi riproponevo quando ho cominciato questo pezzo, dei fumetti di Tuono Pettinato. Ma giuro che cerco di arrivarci il più in fretta che posso.

Ecco. Uno quasi si vergogna a sottolineare l’evidente banalità che la nostra società è immersa nella profusione del vedere. La vista è il senso principale con cui ci avviciniamo al mondo, al punto che Merleau-Ponty non provava nessun imbarazzo nello scrivere una scemenza (non avertene a male per come li tratto, io gli voglio anche bene ai filosofi: sono persone capaci di scrivere le più grosse assurdità come fossero verità scientifiche, che più bravi conosco solo i sociologi e gli economisti, a differenza dei quali i filosofi possiamo almeno sollevarli dalla responsabilità di avere qualche impatto sulla realtà) come quella che «l’esistenza è principalmente ed essenzialmente visiva e non si potrebbe fare un mondo con profumi e suoni» (puoi anche buttargli un occhio, se ti va al suo Il visibile e l’invisibile).
Non c’è da stupirsi quindi che l’incapacità e impossibilità di vedere, la cecità insomma, sia stigmatizzata come uno stato d’angoscia, di solitudine, di vulnerabilità, arrivando come ha sottolineato Pierre Henri in Les Aveugles et la Societé a essere un derivato metaforico di carattere peggiorativo. «In tutte le lingue cieco è colui che manca di lumi, di ragione… che agisce senza discernimento».

A mio avviso la grandezza innovativa de La Promessa di Dürrenmatt sta non tanto nello smontaggio della logica ferrea del racconto giallo (in fondo è proprio una logica ferrea quella che porta Matthäi a capire la verità) quanto il capovolgimento di questo assunto culturale. Matthäi perde il discernimento, piomba nelle tenebre della follia per aver saputo vedere più e meglio degli altri. Te l’ho già detto no? Che giunge alla verità attraverso la precisa e corretta interpretazione di un disegno. Matthäi è consapevole che il guardare è condizione necessaria dell’azione, se guardi non sei più al riparo, non puoi invocare nessuna innocenza. Ti tocca sentirti responsabile di ciò che vedi. Questa responsabilità ha un’implicazione etica, un patto che stringiamo con la realtà: una promessa. Ogni vista è un’interpretazione, ogni interpretazione è un atto morale. (Come ho già detto, Matthäi impazzisce perché non sa reggere questa responsabilità, perdendo la fiducia della donna e della bambina che aveva usato come esca). Questa cosa la teorizza in termini antropologici David Le Breton, nel suo fondamentale, anche se non sempre condivisibile, Il sapore del mondo. Ma già molti anni prima, era il 1992, il trio francese Rémy Belvaux, André Bonzel e Benoît Poelvoorde ci aveva fatto un film originalissimo e controverso: Il cameraman e l’assassino.

Non c’è bisogno che ti leggi le 490 pagine del libro di Le Breton. Vediti il film.

E adesso che l’hai visto. Possiamo passare al vero argomento che ci sta a cuore. Come il dittico capolavoro formato da Corpicino e da Nevermind di Tuono Pettinato si ponga con forza teorica e innovativa nella problematica etica del vedere e del sentire: in ultima analisi di un’epistemologia a fumetti.

Una delle più riuscite letture della fiaba di Cappuccetto Rosso è quella del film di Cory Edwards: Cappuccetto Rosso e gli insoliti sospetti che, parodiando film classici come Rashomon e film furbetti come I soliti sospetti, dà della antichissima fiaba l’interpretazione più corretta: un viaggio, che non lascia illesi, attraverso le difficoltà della conoscenza.
Che La Promessa, come ho cercato di dimostrarti fino a qui, sia una riflessione filosofica sulle complicazioni etiche della conoscenza, lo avvalla quindi il fatto che l’archetipo su cui Dürrenmatt l’ha costruita è la versione di Cappuccetto Rosso, quella tremenda, raccolta da Charles Perrault nel suo I racconti di Mamma Oca del 1697. C’è tutto. La bambina vestita di rosso, l’essere feroce che la stupra e la uccide, e come nella versione di Perrault nessun lieto fine. Il lupo si mangia la bambina e nessun taglialegna interviene a salvarla. Poi, soprattutto, c’è il bosco.
Se hai letto Propp (e se non l’hai fatto fallo: procurati subito Morfologia della Fiaba) sai che il bosco è luogo di pericoli e insidie che, se sai superarle grazie alle tue abilità, ti permette l’accesso alla conoscenza.
È con una lunga sequenza di tavole che mostrano un bambino che si avventura da solo nel bosco che si apre Corpicino di Tuono Pettinato. A differenza però della bambina di Dürrenmatt, e invece come la Cappuccetto Rosso di Perrault, il bambino Marcellino Diotisalvi non è innocente. Perché guarda il mondo. Hai fatto attenzione alla rilevanza degli occhi nella sua anatomia infantile? L’occhio, spiegava Merleau-Ponty (che stavolta l’ha detta giusta) nella Fenomenologia della percezione, non è mai innocente, quando percepisce le cose lo fa attraverso i filtri di una cultura, di una storia, di un inconscio. Lo sguardo appartiene a un soggetto preciso, non esiste uno sguardo assoluto, ed è radicato nel corpo di quel soggetto; non riflette il mondo, lo costruisce con le sue rappresentazioni.
Lo sguardo di Marcellino crea una rappresentazione di violenza. Vede delle formiche (hai notato come Tuono Pettinato sottolinei il suo vederle con la ridondanza di quelle lineette che vanno dagli occhi all’oggetto?) e scatena il massacro. Come lo sguardo (la serie di inquadrature in semisoggettiva) dell’assassino scatena l’azione dell’uccisione della quale Tuono Pettinato ci rende, con abile maestria, complici: non mostrandocela (le tre tavole nere) ci obbliga a immaginarla e quindi a esserne creatori. Più responsabili di così!

Nel 1873, qualche anno prima del Pinocchio, Carlo Lorenzini volge (come amava dire lui) in italiano I racconti di Mamma Oca di Perrault. Come sostiene Paolo Paolini (nel suo Collodi traduttore di Perrault) molto del materiale narrativo e filosofico delle favole perraultiane scivolerà nel suo capolavoro. In particolare la poliedricità ermeneutica (delle svariate possibilità interpretative di Pinocchio ci ha dato conto Beniamino Placido, nel gustosissimo Tre divertimenti. Variazioni sul tema dei Promessi Sposi, di Pinocchio e di Orazio). Non c’è quindi da stupirsi se, dopo il fulminante inizio che ci chiama, come minimo, a correi, il libro prende una piega che definirei manganelliana, attraversando sulle tracce del libro parallelo di Manganelli (il Pinocchio parallelo), e riscrivendola… no scusa, ridisegnandola, l’esperienza di Pinocchio – il vero, molto più dei Promessi Sposi, romanzo fondativo della narrativa italiana- alla luce della nostra società dello spettacolo. Quasi fosse un gioco di ruolo o da tavola e detournandoci debordianamente la verità.

Cioè.
Ogni lettura epistemologica di Pinocchio è possibile. Allora Tuono Pettinato lo trasforma in un giallo classico. E qual è il giallo classico che se non tutti hanno letto, ci hanno almeno giocato una volta? Cluedo. Alla fine della fiera la soluzione dell’omicidio il lettore la trova nella bustina infilata al termine del libro: tre figurine con l’arma del delitto il luogo e l’assassino.
Ma. Ti dicevo ci detourna. Si prende gioco della nostra buonafede di lettori. Perché per ogni libro quelle tre figurine sono diverse. Perché l’unico assassino è il lettore. L’omicidio non è mai avvenuto. Tre tavole nere, ricordi? Non succede niente dentro tre tavole nere se non quello che tu, che le stai guardando, vuoi che ci succeda.
Insomma. Corpicino è un libro di una cattiveria senza eguali, perché afferma perentoriamente che la qualità di ciò che guardiamo dipende dalla nostra volontà di guardarlo. Non abbiamo giustificazioni.
Quindi ogni volta che guardiamo un fumetto ci macchiamo di colpe innominabili. E non possiamo neppure fare come Edipo: punire la nostra colpevolezza privandoci del senso attraverso cui passa tutta questa responsabilità: la vista.
Te l’ho già detto. Merleau-Ponty diceva una cazzata quando postulava l’impossibilità di un mondo fatto solo di odori o di rumori. Il mondo esiste anche se abbiamo gli occhi chiusi. Il mondo si dà nonostante la nostra cecità.
Non so se hai letto Sotto il sole giaguaro (nel caso rimedia) di Calvino… ‘spetta, però… adesso dobbiamo affrontare Nevermind

Il sole giaguaro è una di quelle furbate editoriali che sfruttano la passione necrofila dei lettori. Calvino muore nel settembre del 1985. Nel maggio dell’anno dopo Garzanti fa uscire questo volumetto che spaccia per l’embrione di un più articolato libro che l’autore avrebbe voluto realizzare sui cinque sensi, nel quale raccoglie tre racconti usciti tra il 1972 e il 1984. Dei due racconti sui sensi che mancherebbero (la vista – cazzo, fosse vero che perdita!- e il tatto) non c’è alcuna traccia se non qualche vago appunto preparatorio. Ma non è di strategie necroeditoriali che mi interesso. In questo libretto c’è un racconto potentissimo. È il terzo, l’ultimo, della raccolta che riguarderebbe l’udito. Si intitola Un Re in ascolto e racconta, appunto, come diranno i miei piccoli lettori, di un Re il quale, per timore di essere deposto, non lascia mai il suo trono. Non ti elenco tutti gli accorgimenti che il Re si è inventato per espletare tutte le necessità fisiologiche senza mai alzarsi dal trono. La cosa che conta è un’altra.
Questo Re attraverso l’attentissimo ascolto dei rumori e dei suoni che lo circondano ricostruisce attimo per attimo la vita cui il compito che si è dato lo sottrae e interpreta e conosce il mondo attraverso l’udito. Per farlo, per capire continuamente la quotidiana successione dei rumori, il Re si affida ai ricordi d’infanzia, perché come sostiene David Le Breton (in quel mattonazzo che ti ho detto: Il sapore del mondo) l’infanzia è soprattutto un bagno sonoro.
Quando i REM danno alle stampe il loro settimo album (ma il secondo per una major come Warner) Out of time, nel 1991, Tuono Pettinato ha 15 anni. Fai attenzione. Out of time, che per quanto avessi adorato Document (ultimo album prima della firma con Warner) è a mio avviso il capolavoro dei REM, esce lo stesso anno del secondo album dei Nirvana: Nevermind. Credo che avere 15 anni, piena e maledetta adolescenza, quando escono due dischi come quelli sia una cosa che lascia il segno; come avere 15 anni (io) quando esce Combat Rock dei Clash: roba che ti permette di continuare senza soluzione di continuità il bagno sonoro dell’infanzia. E di capire molte più cose del mondo di chi non ha avuto la tua stessa fortuna.
Ti faccio notare una cosa. Nevermind di Tuono Pettinato comincia come Corpicino, con un bambino che si avventura nel bosco. Non c’è bisogno di ribadire cosa sta a significare il bosco. Solo che gli occhi di questo bambino che si chiama Kurt, ma che potrebbe chiamarsi Calvin perché ha un amico che si chiama Boddah ma potrebbe chiamarsi Hobbes, sono due puntini insignificanti. Non è il suo sguardo che muove l’azione e porta alla conoscenza, quanto l’ascoltare come il Re di Calvino.
Un piccolo passo indietro. La canzone sotto scusa diegetica di suoneria del cellulare che, in Corpicino sottolinea l’entrata in azione di quello che possiamo considerare come il protagonista (il Matthäi di Durrenmatt) della storia, il giornalista Gianni Martinelli è Shiny Happy People, sesta traccia di Out of Time dei REM. Ascoltala.
La canzone che in Nevermind accompagna il vagabondare del bambino nel bosco è Lithium, quinta traccia di Nevermind dei Nirvana. Ascoltala.
Il fumetto è un ordito di sguardi regolari, quasi sempre uguali con una storia che li lega uno all’altro. Gianni Martinelli è un adulto, la musica non può più salvarlo, e non può quindi fare a meno di cercare il senso che lega questi sguardi usando il suo sguardo. Non giungerà ad altra verità che quella banale di un giallo classico, le figurine seriali (come il fumetto) di un Cluedo qualsiasi. Il senso, la verità, non è nell’architettura logica degli sguardi. La vita non è logica. Lo puoi capire solo se oltre a guardare sai ascoltare, se conosci le pause che separano le battute di una canzone, se non hai dubbi sul quando, che è il dove, deve entrare ogni strumento. Perché il fumetto, come una canzone, è un seguito di conseguenze necessarie solo nel momento che accadono. Ma potrebbero non accadere. È una cosa che finisce per coinvolgerti.
Nevermind è la traccia che viene prima. È ciò che succede prima che Marcellino Diotisalvi si avventuri nel bosco a pestar formiche. È Kurt e Boddah che si avventurano nel bosco, armati di fucile, a caccia di tutti gli stupidi Marcellini del fumetto seriale.
E come Calvin e Hobbes nell’ultima splendida tavola di Watterson, hanno davanti a sé tutte le meraviglie possibili dei mondi possibili. C’è solo da esplorarle.

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