Raymond Briggs: È veramente ora di spegnere le luci

Paolo Interdonato | Pantomime del Calisota |

Saronno. Ottobre 1984. Il mio anno scolastico è appena iniziato e già sento il morso dello schifo. Trascino i miei sedici anni su un autobus che tracima carni adolescenti per i tredici chilometri di bruttezza provinciale che ormai conosco a menadito. Arrivato in stazione mi precipito in edicola, tempio pagano del solo culto che mi garantisce la sopravvivenza. Adocchio un volume cartonato che occhieggia tra le riviste. Dalla copertina scura si affacciano due anziani signori. I loro volti paffuti sono delineati con rassicuranti matite colorate. Lei ha lo sguardo spaventato; lui sorride con misura e, protettivo, le cinge le spalle. La finestra da cui si affacciano è un fungo atomico minaccioso, benché tracciato a pastello. Il titolo, apparentemente innocuo, sovrapposto a quell’immagine, fa davvero paura: Quando soffia il vento. Il nome dell’autore non mi dice niente: Raymond Briggs. Mi annoto il prezzo e mi preparo alle rinunce che dovrò affrontare per averlo. Alla fine di lezioni che non mi lasciano nulla, lo compro. Inizio a leggerlo prima che l’autobus lasci la stazione e non mi ci stacco più. Ancora non lo so, ma quel fumetto mi cambia per sempre.

La mattina del 10 agosto, Tiziana mi scrive un messaggio. Dice solo: «Raymond Briggs 🙁 <3». Inizio a piangere prima di controllare la notizia.

Aveva 88 anni, me lo dovevo aspettare. Eppure, saperlo morto mi strazia. Un dolore lacerante mi costringe a sedermi. Sono a casa, da solo. Appoggio la faccia tra le mani e inizio a singhiozzare. Forte. La presenza di Briggs nella mia vita è sempre stata assai discreta. Non l’ho mai incontrato, non ho mai saputo cosa facesse delle sue giornate. Era sempre con me, sulla mensola, con tutti i suoi libri. Pronto a farmi una carezza sulla testa, a mostrarmi il senso della vita e a dirmi, senza alcuna intenzione consolatoria, che non è vero che andrà tutto bene. A volte, la vita può fare davvero schifo ed è questo il motivo per cui bisogna gioire dei momenti in cui è anche solo accettabile. Con la sua faccia arcigna, con il suo noto caratteraccio, sempre esibito senza pudore, Raymond Briggs mi raccontava storie che mi aiutavano a stare al mondo.

Guardo la mia copia di Quando soffia il vento. Un albo cartonato indistinguibile da un volume francese. Ma c’è qualcosa che non va: ha solo trentotto pagine. In quel numero incongruo e indifferente al formato c’è tutto il senso dell’opera di Briggs: proprio non gli riusciva di rispettare le regole. Sono andato a contare le pagine dei libri che ha pubblicato, prima di Quando soffia il vento, dopo aver abbandonato il formato rassicurante del picture book: Father Christmas, Father Christmas Goes on Holiday, Fungus the Bogeyman, The Snowman, Gentleman Jim. Il numero di pagine di ciascun volume è completamente arbitrario: si prende esattamente le pagine che gli servono per raccontare la storia che vuole dire.

Il picture book è un formato estremamente standardizzato: trentadue pagine su cui dispiegare grandi immagini e poche parole. A un certo punto, a Briggs quel limite va strettissimo. Ha bisogno di più disegni, di maggiori interazioni tra i personaggi, di più emozioni. Non è mai stato un lettore di fumetti: era il figlio di un lattaio e di una casalinga con pochi quattrini in tasca. Li scopre da adulto, cercando un modo del racconto, in un mercato dell’usato. Afferra una manciata di albi a caso e capisce come funzionano. Mi piace pensare che fossero albi poveri, realizzati frettolosamente da agenzie. E guardando quegli inchiostri stampati male sulle pagine porose di albi spillati, si inventa un linguaggio. Non c’è nulla di casuale nel fatto che questa invenzione arrivi subito dopo la morte, a pochissimo tempo di distanza l’uno dall’altra, dei genitori. Al racconto della vita della madre Ethel e del padre Ernest, l’autore avrebbe dedicato gran parte dei suoi lavori successivi.

Infilandosi in questa nuova forma, Raymond Briggs fa tutto quello che la pagina gli permette. È un creatore di mondi. Può decidere di spezzare la gabbia e il ritmo di lettura, di lasciarsi andare a fiumi di parole (come fa in Fungus, che prima o poi dovremmo affrontare come merita), di coltivare un silenzio assoluto, di spaccare il racconto serratissimo con illustrazioni che occupano due pagine affiancate (e di lasciare, addirittura, due di quelle pagine completamente bianche), di costruire tutte le pagine su una gabbia tipografica che ha la stessa struttura della facciata della casa dei genitori… Un coraggio inaudito che gli permette di fare tutto quello che gli serve, che può e che vuole.

La sua produzione maggiore finisce nel 2004 con The Puddleman. A quel punto si dedica ad altro. Nel 2015 esce Notes from the Sofa, una raccolta di annotazioni, per Unbound, un editore che finanzia le sue pubblicazioni con crowdfunding. Un oggetto editoriale anomalo: un tascabile poverissimo che presenta un’infilata di materiali eterogenei, dedicati alla vita quotidiana di Briggs; scritti estemporanei, destinati a rimanere in un cassetto, come possono esserlo le pagine di un diario.

Nel 2019, dopo una lunga attesa, esce Time for Lights Out. Il titolo dice già tutto. Quando il libro mi arriva in mano, il dolore è fortissimo. Raymond Briggs riversa in quelle pagine tutta la sua vita ma, siccome «Quando diventi vecchio, fare qualsiasi cosa richiede un sacco di tempo», lascia il libro incompiuto. I disegni, soprattutto, sono spesso appena abbozzati. Come se non avesse avuto il tempo di arrivare ai definitivi. Un libro grandioso (che esiste anche in italiano, con il titolo È ora di spegnere le luci) che sembra un’opera postuma pubblicata mentre l’autore era ancora in vita. Un atto d’amore nei confronti dei lettori.

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