Adesso vado

Ugo e Michel | La grande abbuffata |

(Le illustrazioni sono di Lucia Lamacchia, che è responsabile di quanto segue almeno quanto lo sono Ugo e Michel.)

Adesso vado.
Ancora un attimo. La noia, quando ti coglie, inizia ad avvolgerti. È pesante sul petto e sui pensieri. Li tiene fermi, impedisce loro di scuotersi e agitarsi. Resta lì, grave, come le suole delle Oxford stringate che ho indossato per darmi un tono. La sigaretta tra le dita a consumarsi lentamente. La sola boccata tirata è quella per accenderla. Sposto la ghiaia muovendo un poco il piede sinistro; cerco consolazione in quel rumore di sassolini che sfregano tra loro.
Cosa fanno due pietre quando si strofinano? SASSOttigliano! E se sono indistinguibili? SASSOmigliano. Tutti vicini? SASSOciano. E alticci? SASSIcaia…
Ecco. Non funziona.

Adesso vado.
La noia, dopo che la indosso per un po’ – giorni, settimane, mesi, non importa quanto – mi calza a pennello, Diventa comoda. La porto a spasso con grande disinvoltura. Un po’ alla volta non ci faccio più caso. Mi abituo alla noia e quella si trasforma. Dapprima diventa malinconia, poi la morsa si stringe. Quando arriva la tristezza non so neanche darle un nome. A volte non la riconosco. Sicuramente non ricordo più cosa l’ha causata.
A quel punto va a indole. C’è chi inizia a incolpare chiunque gli giri intorno, vede nei comportamenti altrui continue delusioni, e non solo la felicità non arriva mai, ma la noia e la tristezza si rifocillano e, fameliche, crescono sempre più. E c’è chi, come me, dà la colpa di tutto solo a se stesso. Si odia, si disprezza, si trova brutto e stupido. Si rassegna.
Quel fatto apparentemente piccolo, la noia, potrebbe essere spazzato con un solo gesto. Basterebbe andare. Invece, mi sento più a mio agio spostando i sassi con il piede e vedendo sbuffi di polvere appoggiarsi opachi sulla pelle nera delle mie scarpe.

Adesso vado.
Tocco la borsa appoggiata accanto a me. È una ventiquattrore nera, un attrezzo obsolescente da vecchio arnese. Proprio come me. Erano oggetti bellissimi, da bilanciare nella mano e impugnare il meno possibile. Nessuno che portasse una ventiquattrore avrebbe voluto esibire calli nel palmo della mano. La comodità degli zaini ha risolto un paio di grossi problemi: innanzi tutto, un posto dove mettere il pc, il tablet, i caricatori, gli alimentatori, le cuffie, i power bank, e tutta la chincaglieria elettronica e i fili che un mondo che ci vuole sempre connessi e wireless ci costringe a nascondere; in secondo luogo, basta calli nella mano che solleva la valigetta. Ma davvero preferiamo le spalle della giacca gualcite e la schiena sudata alla ruvidità del palmo della mano?

Adesso vado.
Do a tutta quella tristezza, che non riesco a riconoscere, nomi diversi. A volte Mi sembra rabbia. Altre paure. In un paio di occasioni, una fitta fortissima al petto mi ha fatto credere di essere sul punto di morire. I muscoli si induriscono, e scariche elettriche mi attraversano il corpo: inizio a contrarre le mani ritmicamente. Chi mi vede si allontana, sentendosi minacciato. La palpebra destra fibrilla. Sento vampate di calore risalire dai talloni alla nuca. inizio a sudare. Cazzo! Tanto valeva portare uno zaino di merda. Lo stomaco si contrae e lascia risalire una sensazione di acidità. Calcolo la distanza dal punto più vicino in cui vomitare senza essere visto, mantenendo un poco di decoro. Poi respiro forte e il conato si seda. L’ossigenazione improvvisa mi produce vertigine. Appoggio la schiena alle assi di legno che compongono la panchina e, quando sollevo un poco la testa, per sentire l’aria fresca sul collo umido di sudore, mi accorgo del ritmo tumultuoso del cuore. In testa una sarabanda di immagini che cadono in tutte le direzioni come la cascate di carte alla fine di Alice nel paese delle meraviglie.

Devo recuperare Michel e Michela.

Ma prima raccolgo tutte le carte.

Ecco. Adesso vado.

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(Quasi)