Ma se vai al Cinema Zenit con Andrea Bruno, leggi o guardi?

Boris e Paolo | Facoltà di cazzeggio |

Paolo: Boris! Devi leggere Cinema Zenit di Andrea Bruno e poi recensirlo. È proprio tuo!

Boris: Naah… non l’ho mai amato Bruno.

P: Lo so. C’è troppo Muñoz per te nelle sue cose. Soprattutto quello del periodo intimista e politico di Nicaragua e Trovare e ritrovare… ma qui è diverso.

B: Boh… non è il suo muñozismo a darmi fastidio. Piuttosto i continui rimandi al Breccia di Rapporto sui ciechi… una cosa estetizzante che ho sempre trovato gratuita, e che – a differenza che in Breccia – è priva di una reale necessità narrativa.

P: Ma qui ci sono Frank Miller e Godard, Mort Cinder e Billie Holiday riletta da Muñoz. E poi c’è un sacco di fantascienza del dopo Dick e del pre Gibson. Ribadisco è proprio roba tua.

B: Va bene. Mi hai convinto. Lo leggo e chiedo all’editore di farsi mandare un pdf per la recensione su QUASI.

P: Ottimo.


[Tre giorni dopo… mentre su Milano calano le prime ombre della notte, il cellulare nella tasca di Paolo vibra sommessamente, di un fremito latore di sventura.]

B: Cazzo Paolo! Mi hai messo in un bell’imbarazzo. Ho letto Cinema Zenit e mi ha riconfermato la mia idea su Bruno. Intellettualismo estetico senza nulla da raccontare che punta tutto sull’emotività. Adesso come faccio a recensirlo?

P: Ciao anche a te, Boris. Hai un problema ancora più grande. Prima di stroncarlo, devi spiegarmi dove sbaglio, perché a me è piaciuto tanto. Ti confesso che la prima edizione, quella gigantesca in tre albi, mi aveva proprio sconvolto. Bruno fa delle pagine da tascabile del fumetto nero/erotico italiano. Con due vignette per pagina. Usa neri densissimi che – è vero – si rifanno moltissimo a Muñoz, ma sembrano continuamente dichiarare la prossimità a Magnus e alle sue campiture geniali per finire un albo in quindici giorni. Vederlo in questa versione più piccola (ma non abbastanza), con le sue 96 pagine tutte in fila, mi ha dato quel gusto. Non è che stai iniziando a leggerli, ‘sti fumetti, invece di guardarli?

B: Mah! Mica è un problema, quello. Io non credo che sbagli. Credo che il motivo per cui Cinema Zenit a te è piaciuto e a me no stia proprio in quello che dici. E questo lo trovo molto interessante. E spero che arriveremo a sviscerare i nostri due diversi processi di godimento. Dato che siamo noi che facciamo lo sforzo di leggerla/guardarla, una volta che l’autore ha rilasciato la sua opera, siamo anche gli unici titolati a dirne e a incazzarsi se ci sentiamo presi in giro.
E, cazzo!, se mi sento preso in giro da Bruno. In quest’opera noiosissima, ha costruito l’enciclopedia del suo immaginario, ma come se fosse una mostra allestita in un museo.
Vero. Fa della struttura dei neri degli anni ’60 la cifra stilistica di questa roba che ci ha messo un badaluffo di anni (il genio era quello che ci metteva 15 giorni!) a chiudere (chiudere poi, un po’ alla cazzo: con quei due capitoli finali narrativamente avulsi e tutti estetizzanti), ma buttandoci dentro una furbata. Due vignette per tavola: alle volte quella sopra o quella sotto divisa in due, come in “Diabolik”, ok. Ma poi collega le due vignette con trovate un po’ troppo scaltre: o il disegno è unico, diviso da una righina bianca, o ci pianta quei cazzo di tubi di bambù a far collegamenti, credendosi Crepax (secondo me si ispira più alla struttura di Baba Yaga che a qualsiasi cosa di Muñoz o di Magnus), ma perdendo di vista il punto fondamentale. Che Crepax le sue tavole le costruiva in modo che ognuna fosse un universo narrativo che mi raccontava una storia a parte, lui ci deve piantare, in ogni riquadro, quelle didascalie (con quel lettering che grida vendetta!) per farmi sapere che ha studiato la storia e la letteratura, ma che non mi aggiungono niente. Non sono io che mi sono messo a leggere i fumetti invece di guardarli, è Bruno che non sa montare le sue immagini per raccontarmi la sua idea del mondo, senza passare dalla scrittura.

P: E non ti incazzare. Sono mica qui a fare la difesa di Bruno, ché ci avrò scambiato dieci parole in tutta la mia vita (come chiunque altro, immagino, essendo una delle persone più silenziose al mondo).
Mi sembra che tu stia recensendo il fumettista e non il fumetto, Bruno e non Cinema Zenit. Al punto che chiami quel fumetto “opera” (e, lo sai, quando qualcuno mi parla di arte, metto mano alla pistola). Quella storia si chiudeva nei tre albi giganteschi ed è stata raccolta in questo volume con altri due fumetti brevi. A te sembrano appendici; a me pare una scelta editoriale (o anche dell’autore) per far quadrare i sedicesimi a stampa. Se arrivi a 144 pagine, sembra più “libro”, o addirittura “graphic novel”.
Poi tiri in ballo Crepax e mi interessa molto. Non ce l’avevo visto e, ora che me lo hai indicato, mi è così evidente che non riesco a togliermelo di mente guardando quelle pagine. Guido Crepax è il più complesso tra i fumettisti italiani: quello che ha lasciato pochissimi eredi, perché impossibile da emulare. La sua non è stata una lezione di segno o di stile, ma proprio di pagina e fumetto. Quelli che non capivano niente di fumetti, come il critico catalano Román Gubern, ci vedevano una lezione di cinema e parlavano di “montaggio analogico”. Crepax, che è un fumettista gigantesco, è forse l’unico di cui continuo a guardare le pagine senza mai sentire il minimo bisogno di leggere le parole, scritte con quel lettering meraviglioso.
Mi pare che, in Cinema Zenit, la lezione di Crepax sia filtrata dalla lettura che ne ha dato Frank Miller, che è uno dei pochissimi ad aver studiato con profitto quelle pagine. Bruno lo cita esplicitamente in un graffito in quarta di copertina. Mi sembra che il riferimento sia soprattutto a 300. E lì c’è veramente una lezione di narrazione che – per ammissione dello stesso Miller – grida «Kandinskij». Scontro tra forme geometriche e masse. Proprio come quelle masse nere, attraversate da tubi e da canne che ti infastidiscono tanto.

B: Boh… Può darsi. Riprendere Crepax attraverso la lezione di Miller per rifare la trilogia dei Sotterranei di Valentina avrebbe anche potuto essere una buona idea. Il problema invece è che la discesa agli inferi di Anna a me risulta fastidiosamente didascalica: l’ambientazione a Sparta occupata dai tebani dopo le guerre beotiche l’ho trovata stucchevolissima, con la sua pretesa brechtiana che però non assolve a nessuna funzione né narrativa, né ideologica, né teorica… l’unica intenzione che ci trovo è simbolica. Un simbolismo talmente esasperato (la barca acherontea che la porta in città, la guida turistica, la pseudo Billie Holiday, lo strappo nello schermo della sala del cinema Zenit, la maschera, la pistola, il cavallo e altri mille ce n’è) e affastellato che perde ogni valore di riconoscimento e di significato, assumendosi nella totalità quello di vuoto significante. E fosse una critica al sistema dei simboli quella che muove Bruno… invece no. Questo fumetto mi è parsa una di quelle inutili, e nello specifico disidentica (anche perché frammentaria), ricerca di profondità. La profondità… che roba inutile se non la racconti con la consapevolezza pop di Crepax. O, ancora meglio, di Tardi.

P: Come al solito, sei troppo colto. Io ho comprato Cinema Zenit, un numero alla volta, con una periodicità assurda e un costo che un tempo mi sarei mandato affanculo, e ho letto un fumetto. Ho goduto di quella costruzione meravigliosa di pagine e racconto. Mi ha fatto molto godere la volontà di dedicare al cinema, all’idea di cinema, un fumetto che, per sua natura, non può che esserne lontanissimo.
M è parso che il gioco fosse quasi generazionale, che ammiccasse a cose che possono capire solo i boomer (o gli X). Come a dire «Ho fatto un albo gigantesco e lo chiamo con un nome altisonante da sala cinematografica d’altri tempi, quando le locandine gridavano, come fosse un valore da vendere, “cinemascope”!»
Ho letto la stessa storia in volume, senza estrarre dalle mensole la versione precedente (e quindi senza vedere quanto il disegnatore ha rilavorato quella storia), ed era identica a come la ricordavo. Però, a vederli in piccolo, i neri di Bruno sono meno avvolgenti. Forse più neri, ma sicuramente occupano meno spazio. E allora ho sentito il desiderio di sapere come sarebbe stata quello stesso fumetto se riportato al formato che mima: quello di “Alan Ford”. E ho pensato, cercando di mantenere quell’accostamento incongruo, che sarebbe stato un po’ come guardare un film di James Cameron sul cellulare.
Nella mia assoluta incapacità di capire Godard, mi è parsa una cosa che a lui sarebbe piaciuta. Ed è questo il motivo per cui sono venuto da te, che sei il mio godardiano di riferimento.

B: Vabbè adesso però ti attacco una pippa su Alphaville. Non so se è il caso…

P: Ho un sacco di tempo. Prendo i popcorn.

B: Saranno le canne e le pertiche, che in questo fumetto abbondano, e che mi riportano alla mente la Parigi tutta tubi e insegne in cui si muove Lemmy Caution, o più probabilmente quel bianco e nero così contrastato, quasi un livore lunare, ma se devo pensare a un film di Godard a cui probabilmente Bruno ha guardato, penso a Lemmy Caution: Missione Alphaville. Le coincidenze ci sono. Il confronto con il proprio background pop: per Godard i polar e la fantascienza distopica, e per Bruno i neri degli anni Sessanta (ma non solo: se Anna è Valentina, Octavius è decisamente Corto Maltese) e la fantascienza di Oesthereld, (penso a certe atmosfere de L’Eternauta). La messa in discussione dei formati e della storia del proprio mezzo espressivo. L’impossibilità dell’amore. È che Godard, surfando, da genio qual era, sulla superficie di tutto questo materiale mette in crisi su due livelli – teorico e ideologico – le mie certezze: la fondatezza della mia visione, la mia fede nelle storie e le mie idee sulla vita in Alphaville sono portate a un punto di crisi. Bruno invece, sovraccarica tutto, alla ricerca, a mio avviso e come ti dicevo, di una profondità che non esiste. Non lo so… guardo le sue (bellissime, per carità) tavole e mi sento come davanti alle frasi dei romanzi di Cognetti. Suggestioni, che mi lasciano esattamente dov’ero.

P: Man mano che parliamo, però, Cinema Zenit diventa sempre più denso. Già c’è quella carta, pesantissima, ricoperta da inchiostro e biacca.
L’hai mai visto un originale di Bruno? Lo so che non te ne frega niente dell’originale e che il fumetto non è fatto per le pareti dei musei, noiosone! Però, quando li guardi, capisci un sacco di roba. Tutto quel nero, tutto quello stratificare, è il senso stesso del suo fare fumetti.
Quando parliamo di strati, ci viene subito in mente l’idea dei layer dei programmi di disegno digitale. Un lavoro fatto affastellando trattamenti dell’immagine che, alla fine, costruiscono uno Shangai di segni. Prova a sfilarne uno, senza far cadere gli altri.
E forse, vedendo il reticolo di tubi, anche tu hai pensato a quello.
Credo che invece il lavoro di Bruno sia esattamente l’opposto. Forse, proprio come fa il suo maestro José Muñoz, costruisce matite dettagliatissime. E poi aggiungendo inchiostro e biacca, fa un enorme lavoro di sottrazione. La sintesi – enorme – che ottiene con il nitore contrastato dei bianchi e dei neri è il punto di arrivo.
Non voglio far assurgere a metafora questo approccio. Ma se anche con i riferimenti letterari e cinematografici fosse lo stesso?
Te li ricordi i due fumetti di Muñoz con Charyn, Panna Maria e Il morso del serpente. Prendeva la sceneggiatura supercodificata di uno degli scrittori di genere più riconoscibili e ci litigava montando contrasti iconici e anche verbali. E alla fine le parole di Charyn scomparivano sotto il nero di Muñoz.
A me pare che Cinema Zenit sia l’esplosione su pagina di uno che vuole raccontare una storia sghemba, confusa, di cui non sa tutto, e fottendosene della linearità.
Vuole sembrare complesso? Secondo me, no. Però, lo è. Soprattutto nel segno. Soprattutto in quelle pagine da tascabile porno erotico degli anni Settanta.

B: Ahahah! Vero. Mi hai fregato. Volevo stroncarlo, e invece – in qualche modo – pur sottolineandone le criticità, ne stiamo tessendo l’elogio. Comunque, la complessità del segno di Bruno non è in discussione. Alcuni momenti anche di vero palpabile erotismo (con riferimento, appunto, ai porno dei Settanta). Ma se il discorso si sposta dagli strumenti fisici del suo lavoro – cioè le matite, gli inchiostri, la biacca – a quelli culturali, per me non riesce a reggere, diversamente dall’esempio muñoziano che hai fatto, e subisce un crollo verticale che va al contrario rispetto alla stratificazione materica del suo disegno. Credo che il mio fastidio nasca proprio da questo capitombolo, spacciato per profondità.

P: Diciamocelo, Boris. Il problema è che, per una volta, non ti è bastato guardarlo quel fumetto. Hai proprio voluto leggerlo. Contravvenendo alla “Prima Legge di Boris Battaglia”: «I fumetti non si leggono si guardano».
Ti sei distratto… Non è grave. Solo, non farlo più.

B: Ahahah! Ma se me lo hai detto tu di leggerlo! Comunque, se mi sono distratto è perché mi stavo proprio annoiando. Ma, ok! Ci riprovo. A guardarlo.

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