C’è del Buono: Perché non racconto Oreste

Paolo Interdonato | Pantomime del Calisota |

Otto anni fa, ho pubblicato un libro che raccontava la storia dei primi anni del mensile “Linus”. Quando, qualche anno prima, avevo iniziato a scriverlo, ero convinto che avrei raccontato mezzo secolo di Italia e di fumetti, usando quella rivista come prisma attraverso il quale leggere la realtà. Mi pareva un’ottima idea.
Poi mi sono ritrovato a guardare il mondo on gli occhi di Giovanni Gandini, l’inventore di “Linus”, maestro di gioia e cazzeggio, e non sono riuscito a riemergere.
Appena chiuso quel libro, mi sono detto che sarebbe stato buono, bello e utile proseguire quel racconto, inseguire il registro narrativo che mi era parso di aver trovato dicendo di “Linus”.
Avrei voluto dedicare un nuovo libro a Odb, a Oreste del Buono.

L’idea era semplice. Raccontare l’uomo che si vantava del maggior numero di dimissioni da testate, periodici e case editrici attraverso le riviste e le collane cui aveva collaborato come redattore, caporedattore o direttore. Un elenco lunghissimo: dal “Politecnico” al “Candido”, da “Oggi”, a “Epoca”, da “Linus” a “Playboy”, da “Alter Alter” a “Dolce Vita”, e così via.
Mentre compilavo un elenco dettagliatissimo, in cui emergevano testate introvabili, continuavo a fare due delle cose che mi riescono meglio: perdevo tempo leggendo centinaia di riviste e libri vagamente connessi al cuore dei miei interessi, e infastidivo persone gentili per farmi raccontare storie interessanti.

Man mano che il mosaico della vita di Oreste del Buono mi si ricomponeva davanti e assumeva una forma compiuta, mi sono reso conto che non avevo alcuna voglia di raccontare quell’uomo. Sarebbe stato difficile farlo senza litigare con tutti quelli che avevo intervistato, senza dire che non esiste alcun suo romanzo che non sia autobiografico, senza approfondire i sistematici accenni alle bassezze, alla codardia e alla cattiveria, senza soffermarsi sulle incredibili fregature che, nella sua vita, era riuscito ad accumulare, senza parlare della bigamia di fatto e della morte a Roma e della sepoltura a Milano, senza ricevere qualche denuncia.

Tutte le volte che avevo parlato con qualcuno di Giovanni Gandini, la chiacchierata era iniziata con una risata, si era srotolata in un’infilata di aneddoti, e si era conclusa con dichiarazioni di affetto. Certo, non erano mancate le critiche alle scelte commerciali folli o le segnalazioni delle solenni incazzature, ma, tutte le volte, ero tornato a casa con la consapevolezza di aver parlato di un sublime cazzeggiatore con cui mi sarebbe piaciuto perdere tempo.

Ogni volta che mi sono fatto raccontare Odb, il discorso è iniziato sempre sottolineando l’acume intellettuale, la rapidità, l’intelligenza, l’incredibile capacità di intercettare le cose meravigliose che gli altri ancora non vedevano. Poi, verso la fine della chiacchierata, il tono di voce si abbassava: «questa cosa però tu non dirla…». E, da lì in avanti, il racconto proiettava lunghe ombre su un individuo che più o meno tutti trovavano odioso e insopportabile.

Scrivere il libro su “Linus”, specchiandomi nella vitalità di Gandini, mi ha dato una gioia enorme. Mi sono sentito vivo, bello, buono e utile. Quell’idea giocosa di editoria mi ha reso euforico. Giovanni Gandini era il tipo che faceva “Linus” per flexare con gli amici: «Non scordo invece la gioia di avere un giornale e di raccontarci sopra tutto, in modo da poter affermare “io l’ho detto prima”.».

Raccontare Odb mi avrebbe costretto a confrontarmi con la mia pochezza umana e con i miei errori, specchiando le mie bassezze, la mia codardia, la mia cattiveria nelle sue.
Preferisco vivere.

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