La prima diecimila lire

Quasi | Visiting Professor |

di Tonio Vinci (compreso il disegno)

Guardando le foto leggermente ingiallite contemplo quella patina che proviene dagli anni Novanta. Una scrivania nemmeno tanto grande di un brutto color marrone, quadri scompagnati sui muri, una radio con cassette, una simpatica scritta: «vietato cosare». A lato una porta a vetri spessi e oscuranti. Sul tavolo immensi fogli Fabriano F2.
Al centro della foto un vecchio con un cardigan di lana, degli occhiali dalla montatura spessa e severa. Se l’avessi incontrato ai giardinetti non avrebbe certamente attirato la mia attenzione, almeno non più di quel pensionato delle poste seduto sulla panchina di fianco alla sua.
Eppure a vederlo bene, con il sigaro gigante e con lo sguardo magico, con l’accento molisano e i pantaloni uguali a quelli che disegnava coi suoi pennini, quel vecchio nelle foto ingiallite è, usiamolo pure questo termine ormai inflazionato, uno dei più grandi geni del Fumetto.

Non voglio soffermarmi su come abbia influenzato il mio disegno, sul fatto che, dopo aver sentito lui, anche nei miei disegni la luce proviene sempre da destra… sempre! E non voglio nemmeno dilungarmi sulle molteplici scatoline di Perry e Co. dell’inizio del secolo che ho acquistato su internet dopo aver letto che lui non ne trovava più. Troppo facile, troppo ovvio e non sarei nemmeno il più qualificato a parlare della sua tecnica.
La cosa davvero interessante sta in quello che Benito Jacovitti poteva vedere tutti i giorni seduto alla sua scrivania mentre grattava col pennino sui fogli. Sulla parete davanti al tavolino da lavoro, infatti, era affissa una gigantografia di una diecimila lire, che rimaneva silenziosa e sorniona mentre il Maestro lavorava. Lui la guardava, lei lo riguardava e gli ricordava.
Era la prima diecimila lire che aveva guadagnato facendo i FUMETTI, si era ripromesso di guadagnarne una ogni giorno. La banconota risaliva agli anni in cui le diecimila lire erano formato lenzuolo, ma Jacovitti ne volle fare una gigantografia, farla incorniciare e appenderla nel suo studio. Probabilmente perché aveva conosciuto la fame, la povertà e la banconota era lì per ricordargli che il suo era un lavoro.

Questa dimensione di concretezza, in mezzo al mondo di follia jacovittiana, mi ha sempre affascinato. La grandissima banconota mi porta subito alla realtà, quella fatta di “soldi che servono a tutti” (come diceva lui), di figli da far mangiare e bollette del gas per scaldarsi. Non fraintendetemi, perdersi nei propri disegni è una cosa essenziale, vagare in mezzo alle lische e ai salami è il nettare che ci fa vivere di questo continuo disegno pagina dopo pagina… Ma per farlo, per godere dell’estasi che c’è nell’entrare soli e per ore in questo beato silenzio, nelle migliaia di vignette, dobbiamo sempre ricordarci che è un lavoro, che dobbiamo dare un valore a questo continuo gettare inchiostro.
Questa contrapposizione tra il Jacovitti “folle”, che ballava il tip tap attimi prima di morire, che negli ultimi anni asseriva di essere Dio e l’importanza simbolica che dava a quella diecimila lire gigante, trovo sia uno dei dogmi che seguo fedelmente negli anni, forse riassumibile nella mia frase preferita: genio e regolatezza.
Sono certo che quella diecimila lire sia ancora lì, che giganteggia sul muro di fronte al Maestro.

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(Quasi)