Imprigionati dall’evasione: dodicesimo passo

Francesco Pelosi | Mappaterra del Mago |

I termini “intrattenimento” e “distrazione” riferiti alle narrazioni immaginarie (spesso usati come sinonimi e molto in voga al punto da essere ormai considerati un dato di fatto), sono il prodotto di un gigantesco fraintendimento, dovuto forse al “benessere” di stampo capitalista dell’ultimo secolo e alle mutazioni che ha prodotto nel nostro modo di vedere il mondo.
In quanto esseri umani non abbiamo nessun bisogno di essere intrattenuti, né di essere distratti (a meno che non si entri nell’ambito del pensiero complottista e in quel caso allora, sì, le narrazioni possono essere potentissime armi di distrazione di massa), ciononostante molti commentatori o “critici” di cinema, fumetti, videogiochi e narrativa in generale, si riempiono la bocca con questi termini, argomentando su come il dato film li abbia “intrattenuti” o la data serie li abbia “distratti”, assolvendo così alla loro ipotetica funzione.
In realtà, ogni cosa che guardiamo, leggiamo, giochiamo, in qualche modo ci cambia, e meno la nostra attenzione vigila su questo aspetto più il mutamento (micro o macro che sia) avviene nell’inconscio, con passi silenziosi e invisibili. È come con il cibo: i mondi immaginari che ingurgitiamo continuamente cambiano il nostro odore, il nostro corpo, i nostri escrementi e infine anche i nostri pensieri.
Non esiste nessun “intrattenimento”, esiste solo la cultura, nell’accezione più profonda del termine: ciò che forma il nostro essere e noi stessi nella nostra società.

Kenneth Anger, regista di cinema sperimentale, personaggio sfuggente e controverso, pone l’accento (chissà quanto consciamente) su questo aspetto pervasivo della pop-culture del XX secolo nella sua opera più celebre, Hollywood Babilonia, non un film bensì un libro.
Anger è davvero un personaggio indecifrabile. Ha sempre mantenuto un riserbo molto alto sulla sua vita personale come sulle sue credenze e, pur promulgando coi suoi film l’idea di un satanismo magico legato a riti e simbologie antiche, con riferimenti più o meno specifici ad Aleister Crowley, poco o nulla si sa di certo del suo pensiero (a parte il fatto che ha la parola “Lucifer” tatuata sul petto).
Dice di aver preso parte da bambino, nel 1935, alla trasposizione cinematografica di Sogno di una notte di mezza estate di Max Reinhardt e di aver cominciato a realizzare film all’età di dieci anni. Di certo, c’è che Jean Cocteau apprezzò moltissimo il suo primo film da regista, Fireworks, girato nel 1947, quando aveva vent’anni, e che da lì in poi la sua opera è sempre stata tenuta in grande considerazione dal mondo del cinema sperimentale.
Tra gli anni Sessanta e i Settanta diventa un riferimento per la controcultura, con amicizie e collaborazioni che vanno da Mick Jagger dei Rolling Stones e Jimmy Page dei Led Zeppelin (entrambi in quel periodo coinvolti dai temi dell’occultismo), ad Anton LaVey, il controverso fondatore della Chiesa di Satana, fino a letterati, artisti e poeti come William Burroughs, Brion Gysin e Robert Duncan. Il suo cinema è comunque sempre rimasto relegato al circuito sotterraneo  dell’avanguardia, e Anger salirà agli onori della cronaca proprio con la pubblicazione di Hollywood Babilonia, uscito prima in francese nel 1960 e poi finalmente in inglese nel 1966, così da raggiungere il vasto pubblico (e l’immediata censura).
Il libro, con un notevole apparato iconografico, non è altro che una grande raccolta di pettegolezzi, stranezze e veri e propri orrori a proposito dei grandi attori del cinema delle origini, quelli che Anger chiama, con afflato esoterico, “la Gente d’Oro”. La sua scrittura, divertente e divertita, è piena di giochi di parole e sberleffi ai vari divi, ironizzando spietatamente sulle loro disgrazie e perversioni e offrendo una lettura che è più dalle parti del rotocalco scandalistico che del saggio. Ma alla fine della corsa, dopo aver esplorato suicidi, tradimenti, morti misteriose, rapimenti, frodi e violenze sessuali, l’affresco di Anger, preso nel suo complesso, sembra davvero la cronaca della caduta di un grande impero, quello dell’immagine e dell’immaginario che già alla sua nascita portava in sé i segni della sua fine e del suo messaggio esoterico: tutto è finzione, e della peggior specie.

Le maschere che erano idolatrate come vere e proprie divinità, da Rodolfo Valentino a Greta Garbo e da Errol Flynn a Thelma Todd, si riducono a misere esistenze sofferenti e viziate, esattamente come quelle di molti di noi. Coloro che per decenni (e in molti casi ancora oggi) vengono contemplati come aspirazioni di vita e ammirati come espressioni impossibili del desiderio, sono in realtà nulla di più e nulla di meno degli occhi mortali che li guardano e li credono immortali.
Certo, qualcosa di eterno (quantomeno nella nostra limitata concezione del termine), questi “dèi” lo hanno: la persistenza dei loro volti nel nostro immaginario, le ore di intrattenimento e distrazione che ci hanno regalato alla modica cifra del nostro tempo e dei nostri sogni infranti. Ma quel tempo e quei sogni non erano per nulla intrattenimento e distrazioni, bensì indottrinamento e cultura. Le stelle del cinema stavano creando il futuro di tutti senza che nessuno ne fosse pienamente cosciente.
Hollywood Babilonia (la seconda città mitica del titolo viene dalla monumentale trasposizione cinematografica dell’episodio biblico che D. W. Griffith fece in Intolerance, come tentativo di autodifesa per le critiche che gli vennero dal suo film precedente, Nascita di una nazione, lungometraggio razzista che secondo alcuni ha ispirato la rinascita del Ku Klux Klan negli anni Venti), riporta sulla carta la vicenda segreta del cinema degli albori e il suo intento, se escludiamo l’astio da outsider che Anger sembra provare verso quel mondo, è proprio quello di alzare il velo e mostrare, come il Naked Lunch di Burroughs, il momento di consapevolezza nel quale realizziamo perfettamente cos’è il pezzo di carne morta infilzato dalla forchetta che ci stiamo mettendo in bocca.

Se Hollywood Babilonia è una riflessione su come l’immaginario cinematografico negli anni del suo massimo splendore abbia plasmato quello quotidiano, Cinema Purgatorio di Alan Moore e Kevin O’Neil ragiona invece su come i meccanismi intrinseci del cinema, ormai del tutto digeriti dall’inconscio collettivo, agiscano sui nostri procedimenti mentali e cognitivi, sostituendo in certa misura la realtà. In sintesi, su come la percezione di qualcosa sia più reale della cosa stessa.
Pubblicato fra il 2016 e il 2019, in diciotto episodi in bianco e nero di otto pagine l’uno per altrettanti numeri di un antologico che portava il suo nome (e che conteneva anche storie di Garth Ennis, Kieron Gillen, Gabriel Andrade e altri autori che come Moore in quegli anni gravitavano attorno alla casa editrice Avatar Press), Cinema Purgatorio si è affacciato sul mercato del fumetto e sull’intera produzione dello stesso Moore come una piacevole e complessa anomalia.
L’antologico nasce su volontà dell’autore, per dare sfogo alla sua passione mai sopita verso le riviste indipendenti (pochi anni prima aveva pubblicato anche “Dodgmen Logic”, un vero e proprio magazine underground) e per produrre qualcosa di inclassificabile all’interno del fumetto contemporaneo, e ha avuto un successo modesto, seppur autori e storie proposte fossero generalmente sopra la media. Cinema Purgatorio poi, a differenza delle altre serie della raccolta è davvero una lettura poco accomodante e difficilmente comprensibile al primo approccio, figurarsi leggendone solo poche pagine al mese.
Moore e O’Neil, nel solco di ciò che stavano già facendo su La Lega degli Straordinari Gentlemen, imbastiscono con piglio sarcastico e canzonatorio una baraonda di episodi a tema cinematografico, a volte incentrati su fatti storici e vicende di attori e attrici e a volte acrobatiche speculazioni metatestuali, affastellando nelle pagine strati di significati e riferimenti, come se a ogni vignetta esplodesse una bomba di informazione.

La grammatica di Cinema Purgatorio sembra collegarsi profondamente a quella dell’Hollywood Babilonia di Anger, a partire dal titolo che in entrambe le opere affianca due luoghi (il primo reale, dove vengono prodotte le illusioni, e il secondo, mitico più che illusorio, dove le stesse illusioni crollano e si è costretti a confrontarsi con esse), per arrivare agli aneddoti sulla “Gente d’Oro” che spesso coincidono nei due testi.
Per Moore il Cinema Purgatorio è una zona della realtà, forse onirica, forse no, in cui l’umanità è costretta ad assistere a film che, rappresentando disgrazie, vizi e efferatezze degli attori del passato, mettono lo spettatore davanti alle proprie, in un loop infinito e punitivo.
Il cinema – luogo fisico e astratto, zona immaginaria in cui la maggior parte di noi, umanità contemporanea, vive l’esistenza, assediata e assuefatta alle produzioni di immagini in movimento – è raccontato come una prigione senza uscita, dove lavoriamo e esistiamo quotidianamente senza alcuna possibilità di pausa né requie. Insomma, un’ “evasione”, una “distrazione”, che ci tiene prigionieri.
È il luogo che produce l’immaginario e che nel farlo pianta i semi che faranno germogliare il futuro. Un’auto-illusione su cui poniamo troppa poca attenzione, sminuendo le conseguenze decisamente reali che ha avuto e che avrà.
Nel quarto episodio di Cinema Purgatorio, dedicato alle molte mitologie create attorno alla “sfida all’O.K.Corral” tra Wyatt Earp, i suoi fratelli, Doc Holliday e i fratelli Clanton, viene detto che Tombstone, il leggendario paese dell’altrettanto leggendaria sparatoria, non è esattamente un paese, «è più la storia che hai sentito a proposito di un paese».
A pensarci bene, tutte le fedi e i credo dell’umanità, da Valentino a Madonna e dal cristianesimo al nazismo, funzionano esattamente nello stesso modo. Non crediamo nella cosa in sé o nelle persone che la promuovono, crediamo piuttosto in qualcosa di sfumato e confuso che nella nostra mente tende più ad assomigliare a ciò che abbiamo sentito di quella cosa o di quelle persone, piuttosto che a quel che sono veramente.
Se avessimo nei loro confronti, così come nei nostri, la visione spietata del Pasto nudo, probabilmente l’illusione crollerebbe impietosamente, e l’inganno non funzionerebbe più. Non ne saremmo più incatenati.

Di certo, se Moore ha mai nutrito qualche illusione verso il mondo del cinema, questa gli è crollata immediatamente, appena ha visto gli adattamenti di From Hell e La lega degli straordinari Gentlemen, due film che chiamare brutti è davvero poco. Da lì in poi, coinvolto anche in questioni legali al di là del suo volere, lo scrittore non ha mai nascosto il suo disprezzo verso Hollywood, non volendo mai più legare il suo nome a nessuna trasposizione delle sue opere (questa posizione causerà anche una rottura con Dave Gibbons, co-creatore di Watchmen, quando il fumetto verrà portato al cinema -ahinoi- da Zack Snyder).
Paradossalmente, il miglior Moore cinematografico (escludendo The Show, miniserie TV e poi film, scritti entrambi da lui stesso, e quindi, al di là della qualità, sicuramente suoi) lo si trova in una serie in cui lui non c’entra nulla. La prima stagione di True Detective infatti, creata e scritta da Nic Pizzolatto e diretta da Cary Joji Fukunaga, propone un mix di tematiche care a Moore, dalla magia alla quarta dimensione, mischiate con nomi e situazioni presi da Robert Chambers e Ambrose Bierce e stralci di filosofia nichilista da Emil Cioran, H. P. Lovecraft e Thomas Ligotti.
Nei monologhi del detective Rustin Cohle, interpretato da Matthew McConaughey, si può ritrovare qualcosa di molto vicino alla teoria dell’Eternalismo e dell’Universo Blocco, visti però in ottica pessimista. Là dove la vita concepita come un diorama di situazioni che si ripetono identiche in un ciclo infinito è raccontata da Moore come una possibilità per vivere al meglio il nostro tempo, Pizzolatto espone invece una visione infernale di questo loop cristallizzato, una condanna infinita. Un cinema Purgatorio.
È però nell’ultima puntata della serie che Moore viene chiamato in causa direttamente: l’ultimo monologo di McConaughey è infatti una parafrasi piuttosto fedele di un dialogo su luce e oscurità da Top Ten #8, fumetto della ABC, scritto da Moore per i disegni di Gene Ha e Zander Cannon.

Così come Pizzolatto in un’intervista si è detto profondamente colpito dai fumetti di Moore e Grant Morrison nelle sue letture di gioventù, così Moore ha spesso espresso la sua ammirazione verso il lavoro di Kenneth Anger.
In un’intervista del 2003 con Jay Babcock ne parla, soprattutto in relazione alla sua visione della magia:

«Kenneth Anger è uno di quelli verso cui ho molta ammirazione; lui e le persone che gli sono state accomunate anche solo un po’, come Maya Deren. Queste sono il tipo di persone che hanno preso le vecchie idee della magia e hanno pensato: “Perché non le applichiamo alla tecnologia che abbiamo oggi? È la stessa cosa che fecero tutti i maghi del passato”.
Il fatto che a noi oggi sembri tutto arcaico è perché le cose ERANO arcaiche nella vita reale [ride]. Se avessero avuto accesso alla stampa, video camere e equipaggiamenti per la registrazione sonora, li avrebbero usati. Sono sicuro che John Dee avrebbe pubblicato svariati CD dei suoi cori Enochiani. Non dobbiamo rimanere incatenati al passato. Kenneth Anger è stato abbastanza scaltro da capire che il cinema era, a suo modo, e come ogni forma d’arte, una tecnologia magica».

[continua]

Arnesi del cartografo

Hollywood Babilonia e Hollywood Babilonia 2 di Kenneth Anger, pubblicati in Italia da Adelphi, uno nel 1979 e l’altro nel 1986, sono entrambi ancora disponibili in ristampa, anche se il consiglio è quello di recuperare le prime edizioni cartonate di grande formato;

Cinema Purgatorio di Alan Moore e Kevin O’Neil è stato pubblicato da Panini Comics fra il 2016 e il 2019, in sei albi che raccolgono tre numeri dell’antologico l’uno, per poi essere raccolta in volume unico nel 2020.

Grazie a Marco Lori per la traduzione dello stralcio di intervista di Moore e per tutta la documentazione che mi ha fornito riguardo a Anger e al cinema sperimentale americano.

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