I giorni così di Claudio Calia

Paolo Interdonato | Para & Meta testi |

Qualche giorno fa Oblò ha pubblicato I giorni così di Claudio Calia, un albo a fumetti dal formato non allineato a quelli che puoi trovare in giro. Ammicca a Stray Bullets di David Lapham, certo, ma è evidente che le scelte di formato e di struttura della pagina facciano esplicito riferimento al tascabile nero italiano. Mi piace proporre qui la prefazione che ho scritto per quell’albo, perché sono convinto che sia giusto parlare di tascabili e di nero nel mese che QUASI dedica a Luigi Bernardi.
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I giorni così, vai QUI.

Diciamocelo con serenità: quella cosa che chiamiamo “fumetto” – o “comics”, o “bande dessinée”, o “manga”, o qualunque sia il nome che gli si dà nel paese in cui è pubblicato – ha la forma che gli viene impressa dal formato prevalente di pubblicazione, in quello stesso paese, nel momento della sua maggiore diffusione.

Negli Stati Uniti, per esempio, c’è una distinzione nettissima tra la striscia (“comic strip”), con le sue tre o quattro vignette allineate in orizzontale, e l’albo (“comic book”) da trentadue pagine stampate su carta da quotidiano. In Francia le avventure degli eroi seriali escono nel formato album, che si compone di 48 pagine a colori con copertina cartonata. In Giappone ci sono i tankobon, volumi in cui vengono raccolti fumetti precedentemente usciti a puntate su rivista. E così via.
In Italia, la ricerca di un formato prevalente è stata articolata. Un gioco di approssimazioni incrementali ed emulazioni. Poi, a un certo punto, il volumetto bonelliano, con le sue quasi cento pagine, in bianco e nero, da sei vignette per pagina, stampate su carta porosa, è diventato il formato prevalente. Con quella forma, il fumetto italiano ha subito una deriva avventurosa assai statica. A un certo punto, la locuzione “graphic novel” ci ha permesso un sospiro di sollievo. Chi, come me, voleva leggere fumetti senza sentirsi incastrato in una serialità adolescenziale, infinita e banalizzante, si è illuso di trovare una via di fuga verso l’età adulta, o almeno il divertimento. Poi, è andata come è andata.

Il formato “graphic novel” è diventato lo spazio perfetto per ospitare le narrazioni di individui lamentosi e poco dotati che ci hanno regalato storie sbrodolone, inconsapevoli e costruite abbastanza male. Certo, ci sono stati bei libri e abbiamo scoperto bravi fumettisti, ma, vagando nel reparto “graphic novel”, abbiamo scoperto che la percentuale espressa nella legge di Theodore Sturgeon («Il novanta percento di tutto è pattume») è un momento di ottimismo ingiustificato.

Sommersi da storie raccontate da persone che mancano di un’idea di fumetto, di disegno o di racconto e hanno troppe pagine a disposizione, ho iniziato a sospettare che mia madre non avesse tutti i torti, quando mi diceva che dovevo mollare quelle sciocchezze e crescere. Poi, siccome di diventare adulto non ho mai avuto troppa voglia, mi sono messo a cercare tutte quelle forme del fumetto che rifiutavano tanto la dittatura dei formati dominanti quanto la noiosa bolsaggine del “romanzo a fumetti”. Mi sono avventurato nel fumetto che rifiuta definizioni. Ho passeggiato nei boschi narrativi dei racconti illustrati, dei picture book, dei reportage fotografici, delle mappe, del #quasifumetto. In tutti quegli anfratti, fatti di editori capaci di progetti, autoproduzioni, microeditoria, associazioni, movimenti, case editrici – spesso militanti – indifferenti alle richieste del mercato, ci sono alcune costanti. Per esempio, Claudio Calia c’è sempre. Lo so per certo: da almeno vent’anni, abbiamo scontri che, con garbato eufemismo, definirei ruvidi.

Si parla spesso di “giornalismo a fumetti” in questi anni. Di solito, con quella denominazione, si indicano i lavori di persone che realizzano un paio di pagine su un periodico, alcuni libri noiosi oppure interventi d’occasione per riviste che raccolgono pagine bolse e poco ispirate. Claudio è il capostipite italiano di quella gente e, quando lo dico, non sto facendogli esattamente un complimento. Da qualche tempo, la sua pulsione al racconto di realtà, militante e dalla parte del torto, ha iniziato a fargli male: lui, che è un tipo che si infila in posti in cui io non andrei neppure sotto minaccia per raccogliere informazioni di prima mano, ha avuto dei problemi con il suo essere autore che racconta l’altrui dolore da posizione di conforto.

Ha dovuto prendersi una pausa, Ha deciso di dedicarsi a racconti di genere. È proprio vero che «si può far politica coi fumetti», come canta Gaber. Anzi, si deve. E, Claudio lo sa, se non stai raccontando una delle innumerevoli porcherie che tassellano la nostra storia recente, puoi fare uso di metafore. Puoi estrarre dal cilindro una serie di supereroi come “I Baccanti”, oppure puoi cercare nella storia dei formati del fumetto del tuo paese un modo che ora ha pochissimi esponenti.

All’inizio del 2022, Claudio ha inventato – con Marco Corona e Claudio Marinaccio – un «magazine portatile» che si chiama “Smoking Cat”. In ogni numero di questa rivista in PDF, inviata gratuitamente via substack a chiunque ne facesse richiesta – venivano ospitate dieci pagine di ciascuno dei tre autori.  A Claudio piacciono le sfide: ha deciso che si sarebbe dato delle regole rigide. Una storia lunga, serializzata in capitoli di dieci pagine, con due vignette ciascuna, realizzate in un solo giorno di lavoro (di ventiquattro ore, perché il nostro non ha un buon rapporto con il sonno). Ha scelto di raccontare una storia piccola, non lineare e decisamente post moderna. Per dire questa storia, che sente del primo Tarantino e di Stray Bullets di David Lapham, Claudio ha deciso di fare riferimento al tascabile italiano.

L’arrivo di “Diabolik” nelle edicole, nel novembre 1962, ha prodotto una piccola rivoluzione. Al “re del terrore” si sono progressivamente affiancati innumerevoli personaggi che offrivano ai lettori massicce dosi di sesso e violenza. Quegli albi, pubblicati con periodicità serratissima (i più importanti, nei periodi di maggior successo, erano quindicinali), avevano tutti il medesimo formato: centoventi pagine di fumetto, con due quadretti per tavola, pubblicate in albi tascabili ed economici. La realizzazione di quegli albi a ritmi vertiginosi costringeva i disegnatori a mettere in atto trucchi e strategie per velocizzare il lavoro. Il più grande di tutti, Magnus, per riuscire a rispettare le date di consegna e mantenere un altissimo livello qualitativo, aveva inventato un montaggio straordinario fatto di primi piani, silhouette, campiture nere e particolari. «Se in una vignetta devi disegnare uno sfondo e non hai tempo», diceva il maestro, «mettici una scala o una tenda».

Partendo proprio da quella lezione, Claudio ha costruito I giorni così. Un racconto denso, che sente di provincia e piccola criminalità. Un racconto come è difficile trovarne nel fumetto odierno. Un racconto che fa bene leggere. È pure istruttivo. Per esempio, io ho imparato che forma ha una trebbiatrice.

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