Immaginare il passato, Immaginare il ricordo

Emiliano Barletta | La cassetta degli attrezzi |

Spesso mi chiedo come venga percepita l’archeologia dall’esterno, da coloro che, oltre ad affermare che è stato il loro sogno fin dall’infanzia, non si siano mai chiesti cosa significhi davvero essere un archeologo. Qualche volta la risposta può arrivare attraverso storie di finzione che, in un certo modo, trattano il tema dell’archeologia.

È cruciale sottolineare come una storia che voglia parlare di archeologia debba per forza oltrepassare il resoconto sterile di uno scavo. Il punto centrale del racconto devono essere i personaggi e le loro storie. L’immedesimazione del lettore o dello spettatore con i protagonisti è fondamentale. Lo fa benissimo Alice Rohrwacher nel suo film La chimera (dedicato apertamente «agli archeologi di tutto il mondo custodi di ogni fine») e Manuele Fior, in modo simile, nel suo Hypericon.
Nelle due opere, l’archeologia è quasi un pretesto per narrare “altre” storie. Ma senza tralasciare quelle suggestioni misteriose di popoli scomparsi come gli etruschi o gli antichi egizi. Mentre il tempo presente del racconto è quello passato della realtà: i mitici anni Ottanta de La chimera e la fine del XX secolo in Hypericon. Si tratta del tempo del ricordo, che viene mostrato con uno stile artistico che si lega alla nostra memoria, o meglio, alla memoria indotta nell’immaginario collettivo: il 16mm in 4:3 del film della Rohrwacher e lo stile pittorico, con un tratto sfumato, di Fior. È come se la scoperta del passato fosse legata alla dimensione del ricordo analogico e non al presente digitale.

Poi ci sono i protagonisti delle due storie, gli “archeologi”: l’Arthur de La chimera e la Teresa di Hypericon. Centrali, in un certo modo, le loro storie d’amore: di assenza e di rimpianto quella di Arthur, mentre sensuale e piena di ardore è quella di Teresa e Ruben. Assenza e presenza. Due modi diversi di vedere il legame tra due persone, proprio come nella stratigrafia che è basata sulle relazioni tra le azioni umane rappresentate dagli strati. Quelle che possiamo definire azioni positive prevedono una relazione di presenza (lo strato che sta sopra copre sempre quello sotto e viceversa), mentre un’azione negativa prevede una relazione di sottrazione, di asporto (una fossa ne è un esempio pratico) ed è quello che accade a Teresa e Ruben alla fine del libro. Ma una fossa può anche essere ricoperta. L’assenza, allora, diventa così nuova presenza, un nuovo strato, come avviene per Arthur nella seconda parte del film.
Senza dimenticare l’immancabile scavo. Quello dei tombaroli nel film di Rohrwacher e quello di Howard Carter in Hypericon. Entrambi sono interessati a violare la terra per trovare ciò che è nascosto, l’oggetto di valore, più che a comprendere le storie sepolte negli strati. La terra e le sue storie, annidate nella stratificazione, diventano elementi secondari, quasi non esistessero.

Forse questo è il punto centrale di questa riflessione. La risposta alla domanda iniziale. Per il profano dell’archeologia, infatti, la terra è solo terra e l’archeologia non è nient’altro che un semplice processo di recupero di oggetti destinati a finire in un museo. L’idea stessa di archeologia come scienza, per costoro, potrebbe risultare inconcepibile.
Quindi, l’archeologia è solo questo? Una mera ricerca di oggetti? No, l’archeologia è una scienza, ma una scienza interpretativa, dove ogni interpretazione è soggetta a una reinterpretazione. Allora cosa vuol dire essere un archeologo? Vuol dire essere un cercatore di storie nascoste nella terra. Sempre pronto a scavare, esplorare, interpretare e reinterpretare, in un ciclo infinito di scoperte e apprendimento. Perché solo questo fa dell’archeologo davvero il custode di ogni fine.

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