Da strette fessure entra la pietà

Francesco Barilli | Il tradrittore |

Mi arriva una mail di Paolo. Anticipa il tema di febbraio, «Fra stracci e amore», e percula un po’ Boris perché, afferma Paolo il Delatore, lui pensava fosse una citazione di Guccini.

Soccorro Boris con una confessione. Pochi giorni prima mi sono scaricato un live di Loredana Bertè, eppure… anch’io quando leggo la mail istintivamente attribuisco il verso al Guccio! No, dico: ho appena ascoltato E la Luna bussò e piglio una cantonata del genere! Per ridimensionare il mio rincoglionimento t’assicuro che a realizzare la connessione corretta impiego pochi secondi. E vabbè, dici tu, hai appena ascoltato la canzone! Mica hai torto.

Comunque. Passano pochi giorni e leggo l’editoriale di apertura di febbraio e mi si accende una lampadina. Funziona spesso così. Leggo cosa dice la presentazione del tema mensile e la farfalla dell’ispirazione mi si posa accanto. No, abbassiamo di diverse tacche il lirismo espressivo: e qualcosa succede. Di solito l’editoriale traccia un percorso, fondendo immaginazione e tenerezza, poi arrivo io, con la stessa spensieratezza del monaco trappista che ammonisce Troisi in Non ci resta che piangere.

Ora che sai cosa t’aspetta possiamo cominciare. Vedrai che agli stracci arriviamo. Forse persino all’amore.

L’impossibile ma necessaria sintesi di un capolavoro

Il fumetto qua sopra c’entra niente. L’ho solo sfogliato alla ricerca di una scena specifica, contenuta nel Ballo del Plenilunio, ma ricordavo male, lì non c’è. È presente nel romanzo e puoi persino vederla qui (in russo ma con i sottotitoli):

Inutile sottolineare quanto sia bello Il Maestro e Margherita. Spero tu l’abbia letto, altrimenti rimedia appena puoi. Sul libro di Bulgakov si potrebbe scrivere per ore, ma non voglio allungare troppo il brodo. È con disagio e timore che ne scrivo una sinossi tirata via: troppo alto il rischio di banalizzarlo, ma se davvero non l’hai letto (che follia!) è necessario.

Nella Mosca degli anni Trenta del secolo scorso, nel pieno dello stalinismo e del «realismo socialista», arriva Satana, nei panni del professor Woland, esperto di magia nera accompagnato da bizzarri collaboratori fra cui spiccano l’attendente Korov’ev, il gatto Behemoth e l’assassino Azazello. Parallelamente, apprendiamo la vicenda di uno scrittore (Il Maestro) giunto alla pazzia a seguito del rifiuto del suo romanzo su Ponzio Pilato da parte della comunità letteraria russa, con corollario di giudizi feroci e di ostracismo ideologico (i critici considerano il suo romanzo un’apologia di Gesù Cristo).

Bulgakov guida il lettore su due piani narrativi. I fatti di Mosca degli anni Trenta sono sovente interrotti dal racconto del processo a Gesù e della conseguente esecuzione. Conosciamo così il rimorso di Pilato, tormentato dal pensiero di aver condannato un uomo che lo aveva colpito nel profondo. En passant: le pagine del «romanzo di Pilato» sono fra le più belle che potrai mai leggere.

Solo nella seconda parte del libro appare Margherita, l’amante del Maestro. L’uomo, a seguito del rifiuto del proprio lavoro, è entrato in una dura crisi depressiva ed è ricoverato in un ospedale psichiatrico. Margherita, all’oscuro della circostanza, è fermamente intenzionata a ritrovarlo.

Non ti annoierò raccontandoti i tormenti, sottili e crudeli, a cui Woland sottopone diverse figure della burocrazia letteraria sovietica del tempo. E neppure con i riferimenti personali (per sintetizzare: Bulgakov = Il Maestro, nella Russia stalinista) o con il finale complesso e stratificato del romanzo. Per quanto ci serve qui e ora ti basta sapere che Margherita a un certo punto viene avvicinata da Azazello. L’emissario di Satana ha una proposta: la donna potrà sapere qualcosa dell’amato, se accetterà l’invito di Woland a essere presente come Regina al Ballo del Plenilunio.

Il fazzoletto di Frida

Al ballo Margherita accoglie un’infinita schiera di personaggi, tutti macchiatisi di crimini atroci e usciti dai cancelli dell’inferno. Korov’ev affianca la Regina e la istruisce sul proprio ruolo. Sorridente e disponibile con tutti, deve evitare di soffermarsi con qualcuno in particolare, per non mostrare preferenze o, peggio, alimentare speranze in una sua intercessione. Margherita è perfetta nel proprio compito… Fino a quando la sua attenzione viene catturata da una donna dagli occhi irrequieti.

È Korov’ev a spiegare a Margherita la storia della ragazza. Frida lavorava in un caffè, aveva avuto un rapporto con il padrone e dopo nove mesi era arrivato il frutto indesiderato di quella relazione. Senza denaro per mantenerlo, aveva soffocato il bambino con un fazzoletto. Lo stesso fazzoletto che, anche da morta, le veniva lasciato sul comodino la notte. Frida, spiega Korov’ev, ha cercato in tutti i modi di liberarsene, ma non si sfugge al tormento di Satana. Quando si sveglia, il fazzoletto è lì, a perenne ricordo del delitto commesso.

Frida comprende di aver aperto una breccia in Margherita.

E infatti la Regina la invita, per quella notte, ad ubriacarsi e a non pensare più a nulla.

Al termine della cerimonia Margherita si ritrova con Woland e i suoi collaboratori. Satana riconosce alla donna di aver svolto egregiamente il compito di Regina e la invita a chiedere qualcosa come ricompensa. E la risposta della donna è sorprendente.

La richiesta viene esaudita. Meglio: Satana concede a Margherita il potere di liberare Frida dalla maledizione.

Poco dopo Woland fa un’affermazione apparentemente incomprensibile:

«Non resta che munirsi di stracci e tappare ogni fessura della mia stanza!»

È lui stesso a spiegare cosa VOLEVA DIRE. Del resto quale Tradrittore è meglio di Satana?

«Parlo della misericordia. Talvolta, nella maniera più inaspettata, si insinua nelle fessure più strette. Ecco perché parlo di stracci…»

Prima di congedarla, Woland esaudisce un altro desiderio di Margherita, stavolta più diretto, ricongiungendola col Maestro. Ma questa è un’altra storia. Perché anche per noi, come per la Regina del ballo, è ora di tornare alla realtà.

Non mi sgridi…

Credo tu conosca come me la terribile vicenda di Alessia Pifferi. No, meglio: io e te crediamo di conoscerla. Certo, è uno di quei casi di cui i media parlano molto. Ma la realtà, se non la conosci direttamente e l’apprendi de relato, è sempre nascosta da un velo. I fatti sono coperti da quel velo, che a volte non è neppure «invenzione», ma solo alterazione o accentuazione della realtà. E pure il nostro occhio è offuscato da una sorta di voyeurismo a cui, nel migliore dei casi, tentiamo di sfuggire, ma da cui mai possiamo liberarci del tutto.

Sforzandomi di allontanare il più possibile i veli ti dico quanto sappiamo e preferiremmo ignorare. Nel luglio 2022 Alessia abbandona la figlia Diana, di 16 mesi, nel proprio appartamento a Milano, per andare dal suo compagno in un’altra città. La lascia lì per sei giorni da sola, con un biberon di latte accanto. Al suo ritorno, com’è ovvio, trova la bambina morta. Davanti al Pubblico Ministero si è giustificata così: «Le chiedo gentilmente di non sgridarmi. Io pensavo che il latte nel biberon che le avevo lasciato in casa bastasse». Recentemente le cronache si sono spostate su un’inchiesta parallela, finalizzata a verificare se la Pifferi sia stata «imbeccata» dalle psicologhe del carcere per fornire dichiarazioni che dovrebbero evidenziare un deficit cognitivo e diminuire quindi le sue responsabilità penali.

Questo, l’essenziale. Puoi facilmente documentarti on line, se quel voyeurismo è ancora forte in te. Non ti sto giudicando, credimi, dico solo che io mi fermo qui.

Non vorrei tu pensassi che sono un buonista. Peggio, un perdonista. Dopo che l’altra volta ti ho parlato di Gesù e dell’adultera il sospetto potrebbe legittimamente venirti.

No, la massima attribuita a Buddha («Perdona gli altri, non perché meritano il perdono, ma perché tu meriti la pace») non riesco ad applicarla alla Pifferi. Però la sua implorazione verso il PM non mi lascia indifferente. Al di là di altre motivazioni, pragmatiche e difensive, mi sembra il tentativo disperato di rifiutare il biberon che ogni giorno, come il fazzoletto di Frida, le viene portato. E, seppure senza perdonarla, non voglio essere io a porgerglielo. Uno spiffero di pietà si insinua ancora dalle mie finestre.

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