«Se colpevole»

Francesco Barilli | Il tradrittore |

Dopo un po’ di tempo torno alla mission originale del Tradrittore, «colui che traducendo tradisce un po’ le intenzioni dell’autore, ma rimette dritto il senso del testo». E riparto da Matteo Salvini che HA DETTO:

Tu leggi questa rivista che, ormai è assodato, «leggono tuttə» e ti soffermi su questa rubrica. Già sai che seguo i precetti quando mi garbano. Pure i miei. Tranquillo, vivo bene le mie contraddizioni. A parte «mai scrivere da sobrio» ne rispetto solo un altro: dirti chiaramente quando mi accingo a non rispettare una promessa. Quindi, sappi, sono partito da un Salvini-pensiero, ma NON lo tradurrò né raddrizzerò. Mi soffermerò invece sulle inquiete vibrazioni che la sua frase, e più ancora i successivi sviluppi, mi hanno portato.

Il femminicidio di Giulia Cecchettin e il coraggio di Elena

Sono passati diversi giorni dal femminicidio di Giulia Cecchettin. Mi sbagliavo, a un’altra norma mi attengo scrupolosamente: mai seguire la frenesia dell’immediato, lascia che l’onda delle emozioni si plachi. Anche perché un fatto del genere dovrebbe continuare a farci riflettere e non scivolare nelle pagine di retrovia dei quotidiani.
Della vicenda sai già tutto. Puoi solo immaginare l’orrore che mi porta. Di più, puoi immaginare il senso di colpa che provo in quanto uomo, maschio eterosessuale, figlio consapevole del patriarcato. Che io considero una costola del capitalismo, ma ora lascia perdere i miei vezzi novecenteschi.
All’attuale Ministro delle infrastrutture ha risposto Elena, sorella di Giulia (fonte: Repubblica): «Ministro dei trasporti che dubita della colpevolezza di Turetta. Perché bianco, perché di ‘buona famiglia’. Anche questa è violenza, violenza di stato».
L’intervento ha costretto Salvini a tornare sulla vicenda: «Per gli assassini carcere a vita, con lavoro obbligatorio. Per stupratori e pedofili – di qualunque nazionalità, colore della pelle e stato sociale – castrazione chimica e galera. Questo propone la Lega da sempre … dopo una condanna stabilita in Tribunale augurandoci tempi rapidi e nessun buonismo, anche se la colpevolezza di Filippo pare evidente a me e a tutti». Elena Cecchettin ha saputo rispondere a tono pure in questo caso. Ma ora voglio passare oltre. A qualche giorno dopo.

Elena ha detto altre cose, belle e dure, durante una trasmissione Mediaset che non guardo, non menziono e non toccherei il telecomando con una canna da pesca da sei metri per selezionarla. Caso vuole che Paolo Interdonato sia stato colpito come me dalle sue parole. Giuro, non ci siamo sentiti e leggo il pezzo di Paolo mentre sto facendo uguale copia-incolla per il mio. Mica posso chiederti di fare lo slalom fra gli articoli di Quasi, per cui le frasi di Elena te le riassumo pure io, come lui, da Il Corriere del Veneto:

«Turetta viene spesso definito come mostro, invece mostro non è. Un mostro è un’eccezione, una persona esterna alla società, una persona della quale la società non deve prendersi la responsabilità. E invece la responsabilità c’è. I «mostri» non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro. La cultura dello stupro è ciò che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna, a partire dalle cose a cui talvolta non viene nemmeno data importanza ma che di importanza ne hanno eccome, come il controllo, la possessività, il catcalling. Ogni uomo viene privilegiato da questa cultura.
Viene spesso detto «non tutti gli uomini». Tutti gli uomini no, ma sono sempre uomini. Nessun uomo è buono se non fa nulla per smantellare la società che li privilegia tanto. È responsabilità degli uomini in questa società patriarcale dato il loro privilegio e il loro potere, educare e richiamare amici e colleghi non appena sentano il minimo accenno di violenza sessista. … Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere. … Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto.»

Avrai saputo di un tipo, che non merita menzione e da cui, come dalla trasmissione Mediaset, mi terrei lontano, che ha sproloquiato di satanismo partendo dalla felpa di Elena. Non è una novità che sorelle e madri di vittime vengano infangate. Un nome su tutti, quello di Ilaria Cucchi, per dire, ma l’elenco sarebbe lungo e ci porterebbe altrove. Tra le tante cose da fare c’è e ci sarà il difendere Elena da altri individui che cercheranno di screditarla.
Qui potrei pure smettere. Elena ha ragione e stop. Ed è legittimo che nella sua situazione non si soffermi su altro, su quelle parole del Ministro dei trasporti che, ti dicevo, a me hanno fatto ronzare le vibrisse e su cui voglio soffermarmi.

«Nessuno sconto di pena»

«Castrazione chimica»

«Carcere a vita»

«Nessun buonismo»

Prima però dissetati, al solito, e seguimi paziente in alcune divagazioni.

La Promessa di Friedrich Dürrenmatt. E una tardiva risposta a Boris

In questo articolo, Boris Battaglia parla di tante cose. Al link puoi leggere tutto il suo pezzo. Qui mi limito a quanto mi serve ora, alla sua ricostruzione de La Promessa di Friedrich Dürrenmatt. Eccola.

«Sul finire degli anni Settanta la televisione di stato produceva un sacco di sceneggiati. … Me ne ricordo uno con Rossano Brazzi che mi aveva affascinato particolarmente. Raccontava di un commissario [NDR: Matthäi] per il quale la ricerca dell’assassino di una bambina [NDR: Gritli Moser] diventava una tale ossessione da condurlo alla pazzia, con la tragica beffa che pur avendo intuito la verità, non avrebbe mai potuto catturarlo, perché l’assassino era morto casualmente in un incidente. Ricordo la brutale sorpresa della sequenza finale, in cui l’inconsapevolezza del commissario in attesa di catturare l’assassino seduto sotto la pioggia, si scontrava con la mia consapevolezza dell’impossibilità di quella cattura. … Quello sceneggiato era ispirato, come scoprii qualche tempo dopo, a un romanzo breve (e la sua brevità mi convinse subito a leggerlo) di Dürrenmatt intitolato appunto La Promessa e che recava un sottotitolo molto eloquente: Un requiem per il romanzo giallo.
L’opinione diffusa, quella che ti snocciola chiunque abbia dimestichezza con questa letteratura di genere, è che con questo romanzo Dürrenmatt abbia voluto mettere in crisi la struttura classica del romanzo giallo … In realtà l’interesse di Dürrenmatt è tutto epistemologico. Non è vero, come sostenuto da più parti, che l’intervento del caso impedisce di arrivare alla verità. La tesi di Dürrenmatt è esattamente contraria. L’ha esposta chiaramente ne Il giudice e il suo boia (romanzo del 1952). È proprio il caso «il quale tuttavia ha la sua parte in tutto… il motivo per cui la maggior parte dei delitti vengono immancabilmente alla luce». Con la logica si arriva solo a un passo dalla verità. Bisogna sapere guardare l’imperfezione per procedere verso la verità.
Il commissario Matthäi non impazzisce per il motivo di non avere scoperto l’assassino di bambine che imperversava per i Grigioni, impazzisce per essere venuto meno all’imperativo morale di non avere mantenuto una promessa … Matthäi la verità la scopre eccome, e praticamente già a metà del romanzo. E la scopre perché sa fare una cosa che gli altri non sanno, o non sono interessati a fare: sa guardare e decifrare un disegno. Quello che la piccola Gritli Moser ha fatto del suo assassino e stupratore, prima che egli si rivelasse tale, e che fa bella mostra di sé appeso nella classe della scuola elementare del paese dove la bambina viveva.»

Mica ha torto, Boris. Però il focus de La Promessa è (anche) un altro. Duplice, per di più.
La madre di Gritli, all’inizio del libro, forza il commissario a promettere di catturare l’assassino. Leggi…

È questo il nocciolo del libro. Ora non so e non ricordo (l’ho letto anni fa) se Matthäi sia credente, ma una lettura «religiosa» del testo farebbe pensare che il commissario commetta un peccato di presunzione. Non puoi promettere, neppure spinto dalle migliori intenzioni, ciò che non puoi essere sicuro di mantenere. Ma il secondo elemento è ancora più importante.
Quante volte avrai sentito un familiare di una vittima dire «spero che l’assassino sia catturato e paghi la sua colpa. Così mio figlio (o figlia) potrà riposare in pace».
Frasi del genere, strazianti e umanamente comprensibilissime, sono terribilmente erronee e hanno solo un valore illusoriamente consolatorio. Importante, chiaro (senza quella consolazione non si sopravvive) quanto vuoto. E la storia raccontata da Dürrenmatt è esemplare in questo senso.
L’assassino presunto di Gritli è morto all’inizio del libro.  Si è suicidato poco dopo l’arresto e i genitori lo sanno. Pure quello reale è morto, in un incidente stradale, ma questo invece i genitori non lo sanno. La loro piccola non riposa in pace. È morta e basta. Se consolazione c’è, esiste solo in una dimensione che a nessuno è concesso di conoscere.
Sotto questo punto di vista, il messaggio del romanzo ci dice non tanto, non solo, della fallibilità della giustizia umana, quanto della sua inutilità, almeno in termini di reale consolazione o risarcimento verso chi resta a piangere. Il fatto che la verità emerga, grazie all’osservazione o al caso, o non emerga affatto non conta nulla. Le frasi su certezza e durezza della pena («Nessuno sconto, carcere a vita ecc.») vengono smontate dal romanzo di Dürrenmatt e si rivelano per quel che sono: slogan acchiappa-consenso. Trasformare le carceri in fortezze ottocentesche dove i condannati spaccano pietre, catene alle caviglie, è una patetica vendetta. Anche se sono mostri. Che poi, te l’ha spiegato Elena, i mostri sono assai rari. Ti dirò di più, per me NON esistono.

Non è tanto il mostro in sé, quanto il mostro in me…

Hai mai conosciuto qualcuno che ha ucciso? A me è capitato.
Checcazzo, ora non ho voglia di cercarti il link di quando raccontavo che, sarà trent’anni fa, sono stato giudice popolare in Corte d’assise a Milano, seguendo tre processi per omicidio. E anche nelle mie attività di scrittore mi è capitato di parlare con persone che avevano scontato condanne per omicidio. Per dire, tornando ai tempi da giudice popolare, ricordo un collaboratore di giustizia. Interrogato da un avvocato che voleva screditarlo, a precisa domanda su quanti ne avesse mandati al creatore rispose candidamente che non lo ricordava. Tra i quindici e i venti, disse.
Il tipo, grazie allo status di collaboratore di giustizia (quelli che, nel linguaggio ipocrita e pregno di cristianesimo d’accatto, vengono chiamati «pentiti») era libero. Aveva cambiato identità, credo godesse pure di benefici economici dallo stato. Non scandalizzarti, così vanno queste cose. Quel che voglio dirti è che penso di essere il solo o uno dei pochi (fra noi e su Quasi) ad aver conosciuto assassini. E sai da cosa puoi riconoscerli? Da nulla. Niente nella posa, nei movimenti, nello sguardo. Negli occhi di un assassino vedi solo il tuo sguardo riflesso.
Ti sto parlando da un po’ di condanne, pene eccetera. E siccome il tema del mese è «Te piace o’ presepe», introduco un personaggio inaspettato. Del resto, ti piaccia o meno, del presepe è la star indiscussa. L’aneddoto che segue lo trova sempre protagonista, ma qualche anno dopo…

Gesù e l’adultera

Non giriamoci attorno. Puoi pensarla come ti pare su religione, cristianesimo, sulle atroci colpe di ogni fanatismo religioso. E non starò a ripeterti (oddio, lo sto facendo…) che non sono la persona più adatta o portata a citazioni evangeliche, né quella da cui te ne aspetti una. Però certe pagine dei Vangeli sono affascinanti, intense, attuali. Mica solo quelle degli apocrifi, pure quelle dei canonici. Una è questa.

«Gesù andò al monte degli Ulivi. Sul far del giorno tornò nel tempio, tutto il popolo venne a lui ed egli, sedutosi, li istruiva.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna colta in adulterio e, fattala stare in mezzo, gli dissero: “Maestro, questa donna è stata colta in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa; tu che ne dici?”. Dicevano questo per metterlo alla prova, per poterlo accusare. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere con il dito in terra. E siccome continuavano a interrogarlo, egli, alzatosi, disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva in terra.
Essi, udito ciò, e, accusati dalla loro coscienza, uscirono uno a uno, cominciando dai più vecchi fino agli ultimi e Gesù fu lasciato solo con la donna che stava là in mezzo. Gesù, alzatosi, e non vedendo altri che la donna, le disse: “Donna, dove sono quei tuoi accusatori? Nessuno ti ha condannata?”. Ella rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neppure io ti condanno; va’ e non peccare più”».

Siccome non sei a un corso di teologia ti dirò solo, a volo d’uccello, due spigolature interessanti. La pagina è tratta dal Vangelo di Giovanni, ma secondo molti studiosi apparterrebbe a quello di Luca. Per il suo contenuto fu a lungo ritenuta discutibile dagli stessi «padri della chiesa» e inserita nei quattro canonici solo dopo il Concilio di Trento (1545-1563). Ma veniamo al succo.
Scribi e farisei chiedono a Gesù un parere sulla pena da infliggere alla donna, ricordandogli che la legge di Mosè impone la lapidazione. Apparentemente cortesi, in realtà è palese la loro maliziosa crudeltà. A loro non interessa tanto il destino della donna, che ucciderebbero senza pietà, quanto indurre il giovane profeta a violare la legge della Bibbia.
L’atteggiamento iniziale di Gesù è indecifrabile. Tace e scrive sulla sabbia. Cosa scrive? Molti si sono arrovellati su questa domanda. Scrive i peccati degli accusatori? Il proprio verdetto? Rende esplicito con il proprio gesto la scrittura di una nuova legge? Troppi rovelli mentali. Ha ragione Gaber: «è per questo, per predicare il giusto, che io ogni tanto mando giù qualcuno, ma poi alla gente piace interpretare e fa ancora più casino». Ti dico com’è andata, secondo me.
Gesù mi sembra sconfortato e riflessivo. Lui sa, più avanti lo dirà esplicitamente, che la legge biblica è stata data «per la durezza del vostro cuore». Già conosce quella durezza di cuore, sa che pure lui ne sarà vittima. La sproporzione fra l’accusa e la pena lo spinge a voler dimostrare l’opportunità di un attimo di silenzio quando ci si accinge a disporre della vita di una persona. Senza timore d’essere tacciato come irrispettoso (anzi!) ti dico che non scrive nulla. Prende tempo. Forse per la prima volta si sente stanco e persino amareggiato.
Prima di parlare si alza. A dimostrare la solennità del momento, più che l’autorità della propria parola. E se ne esce con una delle sue frasi più provocatorie e destinata a diventare celebre. Scagli la prima pietra chi è senza peccato. Non nega la legge biblica, costringe i presenti a interrogare la propria coscienza.
A queste parole tutti si allontanano, mentre lui torna a scrivere per terra e resta solo con la donna. Si alza ancora e, constatando con lei l’assenza degli accusatori, la congeda con l’altra frase celebre: «Neppure io ti condanno; vai e non peccare più».
Quel «non peccare più» non mi piace, confesso. È proprio il concetto di peccato a essermi estraneo. Per un’adultera, poi. Però, facci caso, NON le chiede se sia pentita, se provi rimorso. Gli basta averla salvata, essere stato fedele alla sua missione (non è venuto per condannare, ma per salvare, dirà più avanti). Una bella lezione, dai, qualsiasi sia la tua inclinazione verso il cristianesimo. Ed è triste pensare che, ai tempi dei social, a quel «chi è senza peccato» sarebbe seguita una sgragnuolata di pietre che avrebbe seppellito l’adultera, Gesù e pure me che scrivo. «Nessun buonismo», del resto.

È ora di terminare…

La disumana fine di Susan John

Nel capitoletto precedente ti ho parlato di una donna condannata alla pena capitale, salvata solo dall’intervento di un uomo buono e sensato. Ora introduco un altro personaggio femminile, triste e dimenticato e ben più sfortunato, la cui tragedia voglio almeno testimoniare. Questo, sì, come un risarcimento.

Susan John era una donna nigeriana di 43 anni, morta in carcere a Torino agli inizi di agosto, dopo un mese di sciopero della fame. Era accusata di sfruttamento della prostituzione. Lei si diceva innocente. Non so se lo fosse e non è questo il punto. La sua protesta, giunta poi alle estreme conseguenze, non era volta tanto, o non solo, a rivendicare la propria innocenza, quanto a rivedere il suo figlio piccolo. Figurati, le notizie su una nigeriana morta in galera: non ho potuto nemmeno appurare se i figli rimasti orfani sono uno o due. Credo uno. Peraltro, nelle stesse ore e nello stesso carcere un’altra detenuta si è tolta la vita, Azzurra Campari di 28 anni. Forse ricorderai d’aver letto qualche trafiletto, ai tempi.
Non giriamoci attorno. Donna, nera, carcerata. Molecola dell’umanità brutta sporca e cattiva, incarnazione pratica del «nessuno sconto di pena, nessun buonismo ecc». Mica nessuno si muove o commuove. E magari era pure «cattiva», eh, mica lo sappiamo. Del resto la galera c’è per rassicurare me e te, che cattivi non siamo: siamo fuori, noi, eccheccazzo!
Avrei voluto mettere una sua foto. Ma non se ne trovano. Neanche un’immagine resta di lei.

Nessun vignettista o fumettista a farti un ritratto commosso, Susan. Boh, forse mancavano le reference. Nessun cantante a chiedere un minuto di silenzio o dedicarti una canzone in un concerto. I morti in carcere non portano voti, non acchiappano like. Non si unisca la mia tastiera alla squallida logica delle analisi di comodo. Mai scritto nulla perché faceva comodo. Beh, al diavolo. Susan, questo pezzo è anche per te.

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(Quasi)