Il Saraceno di Vincenzo Filosa: tutto per iscritto

Paolo Interdonato | Pantomime del Calisota |

Vuoi più bene al papà o alla mamma? Pur sperando che nessun infante si ritrovi più di fronte a questa domanda idiota, gioisco del fatto che le generazioni passate, dovendosi confrontare con questo paradosso, abbiano avuto modo di apprendere una lezione: non si danno voti all’amore.
La gioia che mi era parso di provare si attenua subito quando mi accorgo che quell’insegnamento non è valso a nulla: infatti sono qui, ancora oggi, oltre mezzo secolo dopo quella domanda sciocca, a parlarti del migliore fumetto italiano dell’anno scorso. Sicuramente quello che ho amato di più, ma anche il più bello e importante rispetto a una scala di valori e di attributi d qualità che desidero oggettivare il più possibile.

Il 2023 è stato un anno fortunato per il fumetto italiano. Sono state pubblicate storie bellissime. Alcune veramente straordinarie. Poi è arrivato Il saraceno di Vincenzo Filosa. E, per quel che mi riguarda, non è solo il miglior fumetto italiano dell’anno: è il fumetto più bello ed emozionante che abbia letto da un sacco di tempo. E lo è per vari motivi: bellezza, consapevolezza, intensità, onestà e coerenza.

Benché l’editore Rizzoli Lizard, con un inspiegabile cambio nel formato e nei materiali del libro, abbia fatto di tutto per nascondere questa evidenza, quel fumetto è il secondo capitolo del racconto della vita di Italo Filone, personaggio, indistinguibile dall’autore, cui Filosa aveva già dedicato il precedente Italo . Ma non siamo di fronte a un’autonarrazione sulla scorta dell’esempio – di grande successo – di Zerocalcare. Quello dell’autore romano è, con ogni evidenza, una simulazione di autobiografia: il personaggio è il protagonista della serie – ormai crossmediale – realizzata da Michele Rech. Il fatto che Rech abbia scelto il nome del personaggio come pseudonimo e giochi senza paura con la sovrapposizione tra autore e omino di carta che si muove dinoccolato sulla pagina, indossando una maglietta nera con il teschio, abilita un’illusione di autobiografia: il personaggio, è, in realtà, la proiezione attoriale di Zerocalcare, l’autore; è come se il disegno gli avesse fornito palco, sgabello e microfono; può fare la sua cosa di parole, immagini, rabbia, comicità, amore e recitazione.
Italo Filone è indistinguibile da Vincenzo Filosa nei comportamenti, nei movimenti e nelle scelte di vita. Leggo quei libri ripetendomi che è un personaggio di finzione, ma so che dannazione! – sono di fronte a una confessione disarmante, un atto di onestà doloroso.

Dopo la prima uscita italiana di Pillole Blu, ho avuto la fortuna di chiacchierare con Frederik Peeters. Gli ho chiesto come avesse fatto a raccogliere il coraggio per raccontare una storia così personale che avrebbe potuto scatenare contro di lui e la sua famiglia lo stigma della malattia e produrre un’onda di dolore capace di investire persone care. Peeters mi ha rivolto uno sguardo stupito e disarmante e mi ha detto che, banalmente, non aveva raccontato la verità. Mi ha fatto osservare che la vita è noiosa e poco narrativa e che, per raccontare una storia, bisogna fare scelte, elidere la ripetitività, le cose inutili, quelle realmente dolorose. Quella storia di malattia, amore, paura e rivalsa, pur somigliando, per sommi capi, ai suoi fatti biografici, era completamente falsa: perché il racconto, anche quando “tratto da una storia vera”, è sempre finzione.

Italo Filone non è Vincenzo Filosa. Eppure, cazzo!, lo riconosco. Continuamente. Fin dai risguardi, che, posti in apertura e chiusura di volume, racchiudono l’intero fumetto. All’inizio la normalità del protagonista, che corre verso il racconto, si trasfigura in eroismo; alla fine, quella corsa si trasforma in una caduta che precipita il personaggio nella miseria umana.

«… dici sempre che nei tuoi fumetti scrivi solo cose vere…»
«Sì, sì, giusto, è dovere di ogni artis…»

Queste sono le prime due battute del primo capitolo del Saraceno. Una dichiarazione di poetica che subito si infrange contro la consapevolezza del dolore che la verità può produrre. Altro che libertà! La frase di Gestì, citata da Giovanni («Veritas vos liberabit») si schianta schiumando contro il più concreto e prosaico verso di Caterina Caselli che, gridandomi addosso «nessuno mi può giudicare, nemmeno tu», mi accusa: «La verità ti fa male, lo so».

Un paio di pagine dopo, c’è un ricordo della nascita del figlio: un primissimo piano del neonato, un’immagine della madre, ancora nella camera dell’ospedale, con il bambino in grembo e un primo piano di Italo imberbe che si guarda intorno preoccupato. Una sequenza di fotorealismo spietato che mi fa pensare ai discorsi di Dave Sim sull’uso degli strumenti del disegno mentre analizza la costruzione delle strisce di Rip Kirby di Alex Raymond. Una ricerca della verità assoluta nei dettagli.

Il segno di Filosa è il risultato di un lavoro costante e continuo. Chi, come me, ha seguito la sua traiettoria dall’inizio sa che, pur essendo un autore consapevole fin dai primi fumetti, il suo non è un talento naturale (se mai ne è esistito uno). La sua conquista del disegno è stata lenta e inesorabile, frutto di una determinazione fuori misura.  

Sfogliando Il saraceno, attraversiamo forme e influenze diverse. Il fotorealismo raymondiano cede il passo alle deformazioni di molto manga (ci vedo Shigeru Mizuki, ma Filosa conosce – e ha metabolizzato – molti più fumettisti nipponici di me); poi esplode la riproduzione delle architetture fatiscenti di una Crotone insopportabile, e tutta quella archeologia industriale sembra essere stata disegnata seguendo la lezione di Paolo Bacilieri; e poi un succedersi inesorabile di omaggi tanto alla tradizione del gekiga (Yoshihiro Tatsumi, i fratelli Tsuge, Shin’ichi Abe…) quanto a quella del fumetto indipendente nordamericano (nella costruzione di quelle pagine vedo Charles Burns, Sammy Harkham, Adrian Tomine…). Tutte queste influenze, che si amalgamano in uno stile ormai personalissimo che non lascia vedere le cesure, esplodono nel primo inserto a colori. Quello che, all’inizio, dopo una copertina con scritte in caratteri ideografici, sembra un albo Bianconi degli anni Ottanta (tipo “Braccio di Ferro”, “Soldino” o “Geppo”) trasla progressivamente verso un ricordo di infanzia che si tinge di yokai giapponesi e “pruppi” calabresi.

Il dipinto del padre di Filone è impietoso. Un uomo terribile, di un’altra generazione, il padre che nessuno di noi vorrebbe mai essere, poco accudente, indifferente ai bisogni di un figlio, capace di atti di enorme egoismo e di azioni ricattatorie. Un padre come tutti, normalissimo, di quelli che, a un certo punto, forse per assolversi, potrebbero chiederti se vuoi più bene al papà o alla mamma. Un padre che può darti anche un insegnamento morale, apparentemente banale, forse addirittura un po’ stronzo, ma capace di salvarti la vita.

«Giusto per scrupolo, butta giù tutto per iscritto».

Pare proprio che Vincenzo, per nostra fortuna, quel consiglio lo abbia seguito.
E così facendo ci ha regalato un atto d’amore nei confronti di tre generazioni.

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