Questa roba delle “storie vere” ha preso un po’ la mano al cinema italiano.
Se dedichi almeno una sera alla settimana a infilarti in una sala, sai benissimo che mica riesci a trovare sempre un baraccone fracassone con mostri e fantasmi, un cocktail molotov di generi dove scontri adrenalinici scopano furiosi con l’orrore più strambo, una commedia demenziale che fa petting spinto con il romanticismo adolescenziale più tenero e goffo, un’apocalisse sovrannaturale raccontata alla velocità dello Shinkansen, un rutilare di cosmogonie del bizzarro, perversioni extrasensoriali, furti deliranti, anarchici che fanno esplodere pianeti…
Te lo confesso: al cinema spesso mi annoio a morte. Ma, siccome lavoro da quasi quarant’anni, ho un sacco di strategie per gestire la morte dell’anima che mi fa il nido poco sopra il diaframma. Mica la caccio: ci faccio pace.
Ho una strategia (Quasi) infallibile per sapere se vale la pena di vedere un film: se, entro i primi dieci minuti di proiezione, non scopano o non ci scappa il morto, probabilmente ho buttato i soldi del biglietto.
– Sei il solito esagerato!
– Ma come ti permetti?
– Se non c’è il morto ammazzato o il fiotto di sperma non vale la pena?
– Eros e Thanatos hanno spinte più divertenti di quel che la tua misera vita ti ha portato a credere!
– Eh?
– Ci sono un sacco di modi divertenti per scopare e per morire!
– E Quarto potere?
– Kane muore nella prima scena.
– I quattrocento colpi?
– Il pensiero magico di Antoine è un’insaziabile macchina del sesso.
– 2001: Odissea nello spazio?
– La mandibola…
– I sette samurai?
– Maddai!
– Ladri di biciclette?
– Ho detto (Quasi) infallibile!
Va bene. Adesso che ci siamo chiariti, possiamo continuare.
Siccome – in sala – mica ci trovi sempre le fracassonate che mi piacciono tanto, a volte mi infilo a vedere quello che c’è. E lì, per uno come me che non frequenta la critica del cinema, la scelta è quasi casuale. Approfittando della mia straordinaria adattabilità (te l’ho detto: quasi quarant’anni di lavoro mi hanno dimostrato che di noia non si muore), vengo trascinato a vedere qualsiasi cosa. Anche produzioni italiane.

Non ho un campione statistico significativo, intendiamoci. Alla fine, mi sparo una cinquantina di film in sala l’anno e quelli italiani sono meno di un terzo. Poca roba, eh, ma abbastanza da maturare una sensazione. Mi pare che ai cineasti italici, probabilmente per ragioni diverse (e, tra queste, c’è anche la ricerca dei finanziatori), piacciano “le storie vere”. Oh! Non so tu, ma io, nelle storie vere, non ci ho mai trovato mostri, fantasmi, scontri adrenalinici, orrore strambo, commedia demenziale, eccetera.
Pare quasi che, nel cinema italiano, si sia formata una frattura nettissima tra un mainstream fatto di #storievere e un sistema di cose minori – e a volte deplorevoli – che afferiscono al genere. Come se, all’esaurirsi del primo quarto del secolo ventuno, fossimo ancora qui a menarcela con questioni inerenti alla subletteratura, come se qualcuno dovesse ancora difendersi dal biasimo e dall’ignoranza di chi discrimina le narrazioni sulla scorta del mezzo su cui viaggiano, come se dovessimo tributare una qualche attendibilità agli idioti che criticano a prescindere la trap, i videogiochi o il cosplay.
L’altra sera ho visto un film italiano che mi ha colpito. È un film solido che non ha paura di oscillare tra i generi. Si chiama Testa o croce?, un western ambientato a Roma, tra Buffalo Bill e gli stornelli, diretto da Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, due registi trentanovenni.
Siccome sono una mente semplice, mi dico subito che sembra quasi che qualcosa sia cambiato nel cinema italiano, e in particolare in quello ambientato a Roma e dintorni. Affascinato dalla possibilità di identificare un Big Bang, mi dico che forse Gabriele Mainetti, nato dieci anni prima dei due, sta mostrando una via al cinema di genere nazionale, diversa da quella segnata, per esempio, dal lavoro dei Manetti Bros.
Mostra a tal punto la via che un regista di quasi autobiografie e drammi generazionali (roba che, nella mia mente semplice, afferisce al bacino bolso delle #storievere, insomma), come Gabriele Muccino, l’anno scorso ha fatto la sua versione – veramente dimenticabile – del thrillerone in cui succede #tuttoinunanotte #fuoriorario, Fino alla fine.

Sono un ingenuo: i tre film di Mainetti (Lo chiamavano Jeeg Robot del 2015, lo straordinario Freaks Out del 2021 e il deludente La città proibita del 2025) hanno un’incredibile coincidenza di date di uscita con i tre film di Rigo de Righi e Zoppis (Il solengo, documentario del 2015, Re Granchio del 2021 e Testa o croce? del 2025). Non riesco a togliermi dalla testa che stia succedendo qualcosa, ma, come sempre, lo gnommero che dà origine alle cose non può essere dipanato.
Ma torniamo a Testa o croce?.
Lo so, la metanarrazione ha rotto il cazzo, ma in quel film ci sono piani metanarrativi interessanti che si sviluppano in almeno tre direzioni.
Innanzi tutto, Buffalo Bill porta in giro per l’Italia uno spettacolo circense in cui mette in scena la conquista del West, fatta di indiani feroci, civiltà inculcata a suon di piombo e ferrovie che attraversano il continente. Perché quella storia di scoperte e civilizzazione assuma un aspetto più vicino alla realtà di conquista coloniale dovremo aspettare un sacco di tempo (e, ancora oggi, diciamocelo, non è che sia esattamente una narrazione condivisa).
Poi c’è un tipo che sta sempre accanto al grande circense americano e che scrive le sue storie perché siano trasformate in racconti popolari, romanzetti, subletteratura. Il racconto rielaborato dallo scribacchino differisce parecchio dagli eventi reali. Buffalo Bill è un ubriacone probabilmente matto che parla con i corvi e ottiene divinazioni. Quella follia tracima nella pagina come fosse magia reale.
Infine, ci sono gli stornelli dei butteri che raccontano quello che succede. E negli stornelli (improvvisati) la storia viene sempre un po’ travisata, usata, abbellita. Un ingenuo incapace di cadere da cavallo si traveste di eroismo solo per godere degli applausi.

Questi piani metanarrativi – lo spettacolo equestre, la cronaca scritta e il canto – finiscono per specchiarsi e smentirsi a vicenda. Tutti raccontano, tutti mentono, tutti creano un mondo più accettabile o più esaltante della realtà (che è comunque una finzione).
Sono #storievere che travisano la vera storia che chi è in sala ha davanti agli occhi. Alla fine, quando la protagonista butta nel falò il taccuino con “la storia vera” di Buffalo Bill, il film sembra dire che la verità non esiste: esistono solo i modi in cui la raccontiamo e la consumiamo.
E sembra sparare un vaffanculo fortissimo ai cultori del cinema «tratto da una storia vera».
E qui Rigo de Righi e Zoppis colpiscono qualcosa che va oltre il film.
Perché questa faccenda delle storie vere ci ha preso la mano. È diventata un’estetica. È lo stesso principio che ha trasformato la comunicazione politica in storytelling.
Le destre populiste non hanno più neanche bisogno dei fatti: raccontano un mondo di finzione, completamente indifferenti alla realtà che sovrascrivono. Ruggiscono #storievere – di invasori, ladri, bande, terroristi, minacce alla nostra cultura, comunisti che mangiano i bambini e cosacchi che abbeverano i loro cavalli nelle fontane di San Pietro – rivolgendosi al ventre molle di gente spaventata.

Da anni, per opporsi alla deriva populista, la sinistra racconta storie vere di sofferenza umana, di buone intenzioni, di comprensione. Non mostra più opposizioni radicali, ma compassioni esemplari. Si mostra empatica, non conflittuale.
E così, invece di dire «tassiamo i ricchi», «nazionalizziamo le produzioni», «proteggiamo i lavoratori», «accogliamo gli oppressi», «fermiamo le guerre», cerca mediazione, mostra sguardi comprensivi, rifiuta il conflitto e preferisce raccontare storie edificanti, dove il dolore è esperienza e non rivendicazione.
Quelle richieste radicali, oggi, si sentono solo fuori dalle sedi istituzionali: nei cortei, nelle occupazioni, nelle piazze dove sfilano ragazzi e ragazze che sono, nel senso pieno del termine, di sinistra, ma non riescono più a dirsi tali. Hanno idee radicali, confuse magari, ma vive.
Ci fanno paura questi ragazzi, con la speranza negli occhi, con le bandiere della Palestina, con gli slogan (a volte difficili da condividere) gridati con rabbia. Sono un mare nero che può occupare le scuole, le piazze, i binari e le tangenziali. Sono ingenui, certo, ma, mentre il centrosinistra si dibatte nel suo eterno campo largo di mediazione e riformismi, quei ragazzi – un po’ folli e confusi (come la protagonista di Testa o croce?) – non hanno alcuna paura di bruciare i taccuini delle #storievere nel falò della narrazione.

Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).