In una notte di mezza estate

Paolo Interdonato | Bagatelle per un Alph-Art |

Mica tutti abbiamo avuto la fortuna di essere riformati. Tra noi, nati oltre mezzo secolo fa, c’è anche qualcuno che è uscito dalla visita al distretto militare con un foglio che diceva “abile e arruolato”. E mica era così importante la tua volontà: eri stato precettato e, in un modo o nell’altro, ti sarebbe stato sottratto un anno di libertà.

Nel luglio del 1991 viaggiavo in treno, a spese dello stato, verso Merano e verso la caserma in cui avrei trascorso la quarantena che, mascherata da Centro Addestramento Reclute, mi avrebbe trasformato in un soldato. Colmo di rabbia e di nausea, tenevo sulle ginocchia una copia di Neuromante di William Gibson, in un’edizione tascabile appena pubblicata, che non sarei riuscito a leggere per diverse settimane.

Mi piacerebbe poter raccontare uno spirito ribelle che ha opposto una strenua resistenza alle gerarchie e agli ordini. Non è andata così. La rabbia e la nausea mi sono rimaste dentro per un mese intero, durante il quale ho dato mostra di obbedienza e disciplina. Merano è un bel posto che non rivedrò mai più: la mia capacità di perdono ha dei limiti facili da raggiungere.

Definire accogliente quella città sarebbe mistificatorio. Un luogo caldissimo, posto in una conca tra le alpi in un luglio infernale, abitato da gente che mal tollerava la cagnara prodotta da sciami di postadolescenti rumorosi, facilmente riconoscibili per il taglio dei capelli e la scarsa attitudine all’igiene personale.
Ne parlo come se avessi potuto visitarla, quando invece ero recluso in una caserma, con i capelli cortissimi, la barba sempre rasata, costretto a indossare una divisa che mi rendeva indistinguibile da tutti gli altri. Privato di ogni intimità dovevo condividere ogni momento della giornata con altri ragazzi identici a me. Dormivo in una stanza con dodici posti letto, tutti uguali, che dava su un corridoio che si apriva, su entrambi i lati, verso altre stanze tutte uguali.
Le mie giornate erano scandite da un addestramento idiota che mi portava a marciare, correre e fare strani giochi militari nel cortile della caserma, sotto il sole anche quando era a perpendicolo, per otto ore al giorno. Attorno a me altri corpi stanchi, sudati e incazzati indistinguibili dal mio.
L’unico momento in cui mi veniva riconosciuta una parvenza di individualità era quando qualcuno gridava il mio cognome per appelli e contrappelli o per assegnarmi un servizio utile alla comunità, come ramazzare un cortile o pulire i cessi.

Avevo scoperto che, con la solita dose di fortuna che mi caratterizza, ero riuscito, in quel periodo di delirio, a finire nel risicato gruppo di individui cui veniva impartito un addestramento particolare perché potenzialmente selezionabili per il corpo degli alpini paracadutisti. In quei tempi i parà erano considerati i più esaltati tra i militari della leva d’obbligo; degli alpini paracadutisti non parlava nessuno, ma avevo scoperto che facevano tutto quello che facevano gli altri paracadutisti, ma portandosi dietro la ridicola penna sul cappello e dei confortevoli sci in spalla. Il mio buonumore, già messo a dura prova dalla situazione, ne aveva ulteriormente risentito.

Al termine dell’addestramento era prevista, come d’uso, quella cerimonia farsesca e fascistoide chiamata giuramento. Una distesa di ragazzetti che fanno una marcetta in piazza, sotto il sole giaguaro di mezzogiorno, e rimangono fermi immobili ad ascoltare proclami e discorsi, per poi gridare giuramenti di fedeltà alla patria. Se non fosse stato per i brividi che ti davano i tuoi vicini, quando stramazzavano svenuti, sarebbe stato mortalmente noioso. E dopo il giuramento un po’ di libertà.

Ero andato in edicola, sfidando gli sguardi feroci della popolazione altoatesina e quelli indifferenti dei turisti anestetizzati dal caldo e dal pranzo a base di canederli agostani. Avevo trovato il nuovo numero di “Nova Express” pubblicato e diretto da Luigi Bernardi ed ero tornato a rifugiarmi nel fresco della caserma finalmente deserta: tutti i miei commilitoni erano in giro e le stanze in cui si dormiva erano deserte. Avevo indossato i vestiti del soldato: t-shirt verde militare, pantaloni della mimetica, calzettoni anche in estate e scarponcini con la suola di gomma. Sdraiato sulla rete della branda e con la schiena appoggiata al materasso piegato e chiuso con la coperta, in quella strana costruzione che, in quell’ambiente alieno, si chiamava “cubo”, mi ero immerso nella lettura.

Bella copertina di Roberto Baldazzini, resa meravigliosa dalla grafica di Roberto Ghiddi. Poi, l’editoriale di Luigi, “In una notte di mezza estate”, che disquisiva della difficoltà di fare una rivista che preferiva la qualità alla quantità e della oscena coglioneria dei suoi colleghi editori. E quindi si entrava nel vivo del giornale con una puntata, in bianco e nero, di Give Me Liberty di Frank Miller e Dave Gibbons. Era una storia che avevo già letto (nel 1991, se eri un lettore di fumetti che frequentava le fumetterie e ti eri fatto scappare Give Me Liberty, fatto da due autori i cui nomi avevi letto su Il ritorno del cavaliere oscuro e Watchmen, avevi sicuramente qualcosa che non andava).
Ero arrivato alla pagina in cui la pantera e l’aquila si fronteggiano e, a colori, non mi era sembrata così brutta. Qui si vedevano chiaramente i limiti di Gibbons: un’immagine costruita male, un brutto disegno, che occupa l’intero spazio della pagina. Eppure, mentre affondavo in Watchmen, quel disegno mi era sembrato necessario, perfetto. Una macchina narrativa infaticabile che trovava sulla pagina il difficile punto di equilibrio tra le parole e le immagini. Ero immerso in quel pensiero che finalmente mi riapriva alla lettura e godevo del mio essere lettore. Dopo settimane di ordini, marce e fatica, mi sentivo finalmente un individuo. Respiravo ed ero vivo.

«TOPO DELLA MERDA! TIRA FUORI I PORNAZZI!». Mi piacerebbe non ricordare che l’individuo che era entrato minaccioso nella stanza, sbraitando insulti, aveva un marcato accento tedesco. Mi piacerebbe poterlo pensare come un semplice idiota che cerca di risolvere la terribile noia di un fine settimana in caserma. Invece no, dannazione! Era un altoatesino, stupido, sporco e tutto intento a far pesare la sua anzianità di militare prossimo al congedo sulla recluta spaventata che è rimasta in caserma.
La rabbia monta. Vorrei andasse via. Gli dico che non ho porno e non mi muovo. Lui si avvicina e continua a gridarmi insulti e minacce usando il gergo della caserma: «NON TI PASSA UN CAZZO, TOPO DELLA MERDA! LA VECCHIA VUOLE I PORNAZZI!». Gli ripeto che non ne ho e continuo a rimanere fermo. Si avvicina, mi strappa la rivista dalle mani e la lancia in mezzo alla stanza. FLAP! Atterra aperta sulle piastrelle.

Mi alzo e lo guardo. È il 1991, ho ventitré anni e lui, forse, diciannove. Negli ultimi dieci anni sono andato in palestra quasi tutti i giorni, accumulando un sacco di ore di combattimento. Nell’ultimo mese ho corso e marciato sotto il sole. Sono un nodo di rabbia. Gli vado incontro e capisco che si prepara a fare a botte. Gli scarico un ushiro geri, una tallonata da mulo, sullo sterno, senza neanche minacciarlo. Lo vedo volare in mezzo alla stanza: ha il volto pieno di paura. Lo guardo come mi ha insegnato il mio maestro: zanshin, atteggiamento. Gli passo accanto, mentre cerca di ricominciare a respirare, e recupero la mia rivista. Torno al mio posto sulla branda, fingendo di ignorarlo. Lo ascolto mentre riconquista la respirazione; dieci minuti interminabili. Aspetto che smetta di tossire. Lo vedo con la coda dell’occhio mentre si alza. Arranca verso la porta. Prima di uscire mi sibila un’ultima minaccia, ma non riesce quasi a parlare. Quando sono sicuro che è uscito dal corridoio, inizio a piangere. La rabbia se ne va con le lacrime, la vergogna per quella reazione spropositata è ancora qui, trent’anni dopo, mentre ti racconto questa storia.

Anni dopo avrei scoperto che, in quegli stessi giorni, Magnus era entrato nell’ufficio di Luigi Bernardi sbraitando rabbioso. Teneva in mano quello stesso numero di “Nova Express”, il quarto, e lo sfogliava rapidamente per trovare la pagina della pantera e dell’aquila. «GUARDA CHE SCHIFO! PENSI CHE GALEP AVREBBE DISEGNATO COSÌ QUESTA SCENA?». Una rivista che mirava alla qualità che poteva sovrastare la quantità doveva gestire la rabbia di autori geniali che non potevano tollerare cedimenti. [Onofrio Catacchio, di recente, mi ha spiegato che lo scontro era nato perché Magnus aveva scoperto che i diritti per l’Italia di Gibbons avevano, a pagina, un prezzo più alto di quello riconosciuto per la prima pubblicazione delle Femmine Incantate. Magnus non l’aveva presa bene e, diciamocelo, aveva ragione.]

Ripenso alla rabbia di Magnus e recupero un po’ di serenità. Per svuotarmi dell’oppressivo senso di vergogna, riprendo in mano quel vecchio numero di “Nova Express” e lo sfoglio. Con calma. Cerco di estrarre il senso delle riviste di Bernardi, che ho sempre amato, guardando quel singolo numero. Dopo Miller e Gibbons, un articolo su come si leggono i manga, un fumetto di Jean-Pierre Dionnet e Beb Deum, una chiacchierata tra Antonio Faeti e Lorenzo Mattotti seguita da due tavole di quest’ultimo, una storia di Garth Ennis e Glenn Fabry, un pezzo sullo stato della satira, un episodio di 31-12-1999 di Roberto Baldazzini e Lorena Canossa in cui compaiono corpi eroticissimi, un racconto di James Crumley illustrato da Catacchio, e, poco prima della distesa di notizie e recensioni con cui si chiude il numero, arriva l’illuminazione. Il pornazzo, tanto ambito dal mio sgradevole commilitone, ce lo avevo in mano.

Il quarto episodio di Black Kiss di Howard Chaykin è il cuore nerissimo di uno dei pochi, pochissimi, capolavori che la pornografia abbia mai prodotto. Dagmar, Beverly e Cass vanno a letto: un threesome secondo la precisa classificazione tassonomica dei portali di pornografia. Mi concentro sul volto stupito di Cass quando scopre a cosa si riferisce Dagmar quando parla di «cosa possono fare 18 centimetri montati su un metro e settanta di biondo ardore».

Dannazione! Ce li avevo i pornazzi per quell’idiota. Non serviva colpirlo e vergognarsi per tutta la vita.

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