Heaven is a place on earth

Mabel Morri | Play du jour |

Tutto sommato, è stata un’estate fresca. Una di quelle nelle quali fa caldo, certo, ma a riva tira quel leggero venticello che fa stare bene anche sotto l’ombrellone a leggere. È un’estate strana questa.  L’hanno definita “un’estate italiana”, immemori – tranne forse i giornalisti sportivi – che trent’anni fa, con lo stesso slogan, iniziava il Mondiale di Italia ‘90.
Disegno.
Porto avanti il fumetto nuovo, il cui secondo volume è ambientato nei primi anni ‘90 e gli accadimenti politici, storici e sociali mi orbitano in testa. Il Mondiale, la Bolognina, l’ultimo congresso del P.C.I. a Rimini, gli uffici della STASI a Berlino assaltati, la ginocchiata di Boban a un poliziotto durante il derby Dinamo Zagabria – Stella Rossa Belgrado che, di fatto, segna l’inizio di quella guerra nei Balcani, definita silenziosa ma che scioccherà l’Europa, o quantomeno me. E i libri e i fumetti che leggevo nella mia costante ricerca e curiosità, attraversando tutti i generi, dal giallo alla fantascienza e tutto ciò che ci sta in mezzo; e poi i film e la musica.
Se c’è stato un momento nella mia memoria, in cui il mondo ha sfiorato la perfezione è proprio quello, tra la caduta del Muro di Berlino con la speranza di un mondo unito e migliore e l’inizio di Tangentopoli, quando quella mia speranza si infranse con le monetine lanciate al Raphael, a cui seguì il primo vero cambiamento dopo il ventennio fascista, che avrebbe poi, di nuovo, affossato il paese: Berlusconi, e il suo partito.
E lo scrivo da milanista, ammirandolo come Presidente, con quella folle visionarietà di progetto calcistico, ma dal quale separo l’uomo, e il politico.
Cerco un film su Raiplay, ma per un caso che non riterrò tale a ripensarci, càpito su Rai Sport. Trasmettono, nella noia estiva limitata e sospesa dalla quarantena da coronavirus, una delle partite che ancora oggi viene ricordata per un gesto tecnico che, insieme alla rete a slalom di Maradona nel Mondiale di Messico 1986 contro l’Inghilterra – il secondo dopo quello della mano de Dios – è stato scelto come gol del secolo: il 2 – 0 di van Basten nella finale di Euro 1988 Olanda – URSS.

Ho di nuovo 12 anni.

È l’estate del 1988. Sono una ragazzina sprovveduta e sognatrice, che ha letto Leopardi, ponendosi domande sulla vita alle quali, trent’anni dopo, non ha ancora trovato risposte. Il calcio è parte integrante della mia vita. La cameretta è tappezzata di poster del Milan, Belinda Carlisle canta Heaven is a place on Earth e, in quel giorno di luglio, io, quella ragazzina, sono davanti alla TV, e l’heaven è l’Olympiastadion di Monaco.
La voce vellutata di Bruno Pizzul mi accompagna nei 90 minuti che seguiranno.
Mi accompagna ancora.
Ci sono voci che non ci lasciano più. Ci sono state quelle di Ciotti e Ameri; in anni più recenti quella di Riccardo Cucchi in radio, come anche i doppiatori dei film degli anni ‘80 e ‘90. Ma la voce di Pizzul ha scandito gli anni del calcio che ho amato di più. Era la voce di un nonno che ti fa sentire a casa, che ti abbraccia e che ti tiene al sicuro. Era la voce del nonno durante le partite trasmesse a 4:3 in televisione e il Televideo come fonte d’informazione principale.
L’Europa del 1988 respira l’aria primaverile della Perestroika di Gorbacev e purtroppo respira anche e ancora le radiazioni di Chernobyl per quanto si cerchi di nasconderle giorno dopo giorno. In Germania Ovest, nazione organizzatrice del torneo, si cullano sogni di riunificazione, ma sono una ragazzina e queste faccende da grandi non mi interessano e non le capisco, anche se la verdura proprio a causa delle radiazioni continuiamo a mangiarla poco o niente, gioco a pallone e disegno. La politica la incontrerò da adulta, presumibilmente sbagliando, nell’ennesimo tentativo di dare sempre quelle benedette risposte.
I russi sono l’URSS, sono Ivan Drago e il suo «Ti spiezzo in due»; sono sempre i cattivi dei film e sono comunisti che mangiano bambini, sono, soprattutto, la corazzata del generale colonnello Lobanovsky; sono quelli che hanno interrotto il cammino della giovane ed effervescente Nazionale del nuovo Commissario Tecnico Azeglio Vicini, che ha avuto il merito e l’onere di dare una passata di vernice, lasciando in bacheca Bearzot e i campioni del mondo dell’82, dai quali salva i giovanissimi (Franco Baresi su tutti) e Alessandro Altobelli (unico superstite del campo del Bernabeu).
I russi sono quella squadra che negli anni ricorderemo bella, perché lo era e perché semplicemente non esiste più. Una squadra sgretolata dalla politica e dalla globalizzazione imminente. Un’altra di quelle indimenticabili squadre che hanno vinto poco e nulla, ma sono rimaste nel cuore, come la Jugoslavia del 1990 che di fatto era quella che avrebbe dovuto partecipare all’Euro 1992, dal quale venne esclusa per colpa della guerra. Era dal 1968 che i “brasiliani d’Europa”, come venivano chiamati gli jugoslavi, erano belli e forti, ma questo era il loro destino, un destino inconcludente, quello del detto slavo “Umìrati ulepòti”, “morire nella bellezza”, talmente belli da finire come Narciso.
È la Nazionale, quella italiana, che forse mi rappresenta maggiormente. Anche se la squadra della mia contemporaneità, sarebbe stata quella del 2006, fu quella del 1988 ha portare con sé la sensazione che si stava proiettando sul decennio successivo: quella della vita davanti, della generazione, la mia, che doveva essere the new best thing e che invece, due decenni più tardi, avrebbe fallito miseramente, con due dei suoi massimi rappresentanti nella politica moderna, Matteo Salvini e Matteo Renzi.

Ho 12 anni e guardo giocare van Basten e Gullit.

Sono appena arrivati al Milan e hanno vinto lo scudetto. Van Basten si è infortunato subito a quella maledetta caviglia, mentre a Gullit è stato assegnato il Pallone d’Oro. Ecco perché sugli spalti dell’Olympiastadion ci sono bandiera arancioni alternate a quelle del Milan: uno dei prodotti più venduti quell’anno, indossato da succinte veline in perfetto stile berlusconiano, è il cappellino da baseball con attaccate le treccine finte alla Gullit. In arrivo poi, e questo Europeo è la vetrina ideale, il terzo acquisto dell’estate, un altro olandese di nome Frank Rijkaard.
Non potevamo saperlo allora ma stavamo assistendo alla costruzione di una squadra, quella rossonera, che avrebbe fatto ammettere perfino a Valentino Mazzola che non sarebbe stato male averli, quei tre sono fenomeni, dall’altra parte di città, quella nerazzurra. Ci proverà l’Inter ad avere dei fenomeni olandesi, dopo i tre tedeschi di quella fine decennio: due che non erano male, in fondo, Dennis Bergkamp e Wim Jonk che, nonostante la stagione travagliata, una Coppa Uefa la solleveranno al cielo.
Il calcio del 1988 è ancora quello del passaggio dietro al portiere che può prendere il pallone tra le mani, è ancora quello del calcio d’inizio col tocco in avanti, è ancora quello delle maniche lunghe dei portieri anche in estate e dei cuscinetti sui gomiti, è quello dei pantaloncini inguinali, è quello nel quale il merchandising non è ancora importantissimo per cui il pallone, per esempio, è una riedizione di un modello fedele a se stesso dal 1978, è quello degli scarpini neri le cui icone sono le Adidas Copa Mondial e le Puma King – le scarpe di Pelè, Crujiff e Maradona – con le loro linguette che venivano racchiuse dai lacci o gli stessi legati intorno alla caviglia, è quello dei numeri dall’1 all’11 senza nomi sulle magliette, è quello del braccio alzato di Franco Baresi per avvisare di un fuorigioco.

È un calcio che amo alla follia.

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