Lettera aperta alla Fantascienza

Francesco Pelosi | Ritratti |
disegno de La Came

Cara Fantascienza,

forse non te l’ho mai detto, ma mi annoi a morte.
Certo, sono stato uno di quei bambini che hanno visto Il quinto elemento al cinema e lo hanno adorato. E visto che leggevo i fumetti, sempre in quel periodo ci son rimasto sotto anche con Nathan Never e la saga dei Tecnodroidi. Ma in generale ti ho sempre trovata un po’ fuori tempo, già vecchia prima di avverarti.
Stormi di cingoli e creste colorate male, arti bionici e impianti ottici, macchinari tecno-organici e teorie sul futuro mai del tutto azzeccate, hanno invaso l’immaginario solitamente scadente dei tuoi epigoni (c’è da dire, molti dei quali a fumetti: te li ricordi i Marauders o Cable negli albi degli X-Men?). 
In mezzo a tutto questo però, per quanto mi riguarda, almeno c’è stato Alejandro Jodorowsky.

Una cosa bella che ricordo di te infatti, cara Fantascienza, è Jodorowsky’s Dune, il documentario dove viene ripercorsa l’incredibile storia dietro al fallimento del più grande colossal fantascientifico mai immaginato.
Siamo all’inizio dei ’70 del secolo scorso, e quel gigione di Jodo ce l’aveva messa tutta per rendere il progetto imprescindibile e leggendario, anche nel caso fosse abortito. E così fu, a partire dalla presenza di Dalì, scelto per il ruolo dell’imperatore, che pretese cachet milionari per ogni minuto in cui doveva essere filmato, arrivando al mitologico storyboard a cui parteciparono Moebius, Chriss Foss, HR Giger e Dan O’Bannon, e che, una volta archiviato il progetto, divenne serbatoio di idee e scenografie per i successivi Blade runner, Alien e il quasi contemporaneo Star Wars (e quindi per la maggior parte dell’immaginario fantascientifico di lì a venire).

Bella anche la storia che Jodorowsky racconta su come gli sia venuto in mente di coinvolgere Moebius. Leggenda vuole infatti che al futuro psicomago capitarono in mano contemporaneamente un paio di volumi di bande dessinée, uno di Blueberry e un altro di fantascienza (forse Le Bandard Fou). Jodo rimase profondamente colpito dal tratto e dalla regia utilizzati da Jean Giraud nella serie western («questo tipo è la mia macchina da presa!», esclamò) e dall’immaginazione visionaria di Moebius in quella fantascientifica. Ovviamente di lì a poco avrebbe scoperto che i due autori erano la stessa persona. 
«Tutti quelli che lavoreranno a questo script dovranno essere guerrieri spirituali. I migliori, io li troverò», afferma nel documentario. E a quanto pare, seguendo il picassiano «io non cerco, trovo», Jodorowsky e Moebius si incontrarono per puro caso, poco tempo dopo, negli uffici dell’agente pubblicitario del primo (forse non andò tutto esattamente così, ma questa versione, converrai anche tu, è davvero interessante).
Dire che il Dune di Jodorowsky è un progetto abortito non è però del tutto vero. Dalla carcassa del colossal infatti, a parte l’indigesta versione che ne ha dato David Lynch e quella speriamo notevolmente migliore che ne darà a breve Dennis Villenueve, sono germogliate almeno tre opere fondamentali per ciò che sarebbe venuto poi.
Dalla noia delle pause di lavorazione del film è così nato The long tomorrow di Dan O’Bannon e Moebius, il fumetto breve che ha letteralmente cyberpunkizzato l’immaginario collettivo (nonché Paolo, come ha raccontato QUI) e, poco dopo la chiusura del progetto, ha visto la luce Gli occhi del gatto, altro racconto breve di Moebius e Jodorowsky. 
Pochi anni dopo, infine, mentre Ridley Scott e George Lucas ne avevano già saccheggiato lo storyboard (si dice che ne esistano solo tre copie, tutt’ora custodite da qualche parte a Hollywood), quello che Dune sarebbe potuto essere si palesò finalmente, ma a fumetti, nel roboante e allucinatorio L’Incal, e poi in tutti i suoi fratellini successivi, fra Metabaroni e Tecnopadri.
In questi fumetti di Jodorowsky tutto è trattato metaforicamente e l’attenzione è spesso puntata sulla fisicità, sui corpi e sull’atto sessuale in quanto energia creativa, desiderio e paura. Come nella sua psicomagia e nella conseguente psicogenealogia, i comportamenti dei personaggi sono tutti definiti dai legami familiari e dai traumi che questi hanno procurato. 

In mano a Jodorowsky, rumorosa e vetusta Fantascienza, sei diventata allora un’immensa epopea analogica, dove miti e simboli vengono usati continuamente per delineare una visione del mondo complessa e imprevedibile, e dove frammenti di spiritualità e siparietti grotteschi sono l’elemento unificante del folle e frenetico affresco (en passant, è bello ricordare che Jodorowsky, per sua stessa ammissione, rintracciabile in qualche libro o conferenza, quando è a corto di idee si dipinge i genitali di rosso, colore della sessualità e per osmosi della creatività).
I personaggi, tutti profondamente marchiati dagli avvenimenti della loro nascita e dal retaggio familiare, hanno spesso malformazioni fisiche o turbe psichiche importanti e invasive, infliggono o subiscono violenze impensabili e grazie a queste però intraprendono poi il loro cammino di vita. Evolvono. Rinascono.
Si sa che Jodorowsky ha praticato e seguito varie discipline e che fra tutte lo Zen è quella che l’ha conquistato. Le sue storie si presentano allora come racconti iniziatici da santo burlone: ci si possono trovare allo stesso tempo insegnamenti e fregnacce, c’è un po’ di tutto, come in fin dei conti piace a lui, e hanno il sapore dei koan, gli indovinelli dei monaci, all’apparenza assurdi, la cui risoluzione intuitiva apre a nuovi stati di coscienza. 

L’assunto di base che viene raccontato ogni volta in modo differente è sempre lo stesso: la carne e lo spirito non possono essere divisi. Per innalzarsi spiritualmente bisogna entrare sempre di più nellamateria, senza rifiutarla come invece fanno gli asceti o i religiosi. 
Ed ecco allora gli orrendi mostri, le matrone pluripartorienti, gli uomini deformi e maleodoranti, gli accoppiamenti fra giganteschi insetti dai molti sessi, la violenza estrema, il sangue, gli orrori, l’emotività esacerbata. Il tutto per costringere i suoi personaggi – e probabilmente, nel suo intento, i lettori – a prendere coscienza e superare le difficoltà, doppiando loro stessi, apprendendo da una parte l’arte del controllo e dall’altra quella del lasciarsi andare.
Per Jodorowsky sembra non esserci salvezza nell’alto dei cieli che non sia anche nell’atto sessuale qui sulla terra. Non c’è evoluzione al di là dell’unione e della comprensione profonda del nostro essere spiriti dentro a un corpo. L’essere supremo, il “risvegliato”, raccontato nelle sue storie è infatti sempre l’Androgino, colui che ha riunito in sé il maschile e il femminile, lo spirito e il corpo.

Devo dire a questo punto, adorata e nauseabonda Fantascienza, mentre ci accomiatiamo, che vestita come ti han vestita Jodorowsky e Moebius (ma anche Zoran Janjetov, Juan Giménez, Fred Beltran e Josè Landronn) non mi sei più tanto antipatica. Quasi mi piaci. Al di là dei dialoghi stucchevoli e artificiosi, un po’ di gioia dalle tue pagine riesco a coglierla.
Se poi ripenso anche a Jill, la ragazza pallida con i capelli e le labbra blu che ti ha regalato Enki Bilal nella sua Trilogia Nikopol, devo confessarti che mi esalti proprio. Quasi mi fai innamorare. 
Per cui, long live Fantascienza! Sgraziata, cadente e grossolana, come solo gli atti d’amore possono essere. Mi annoierai pure a morte, ma ogni tanto puntuale, ritorno da te.

P.S.

Qualche anno fa, a Napoli, partecipai a un seminario di Jodorowsky. Eravamo circa duecento persone. Lui entrò, curvo, vestito con un completo nero, trascinando il peso dei suoi 86 anni. Si mise in mezzo a noi, ci guardò con quel fare sornione tipico suo, sorrise appena e poi, dopo un lungo inspiro, cominciò a parlare. Di colpo aveva trent’anni di meno, gli occhi gli brillavano e la voce era potente e calda. Per nulla quella di un vecchio (chissà se anche quel giorno si era dipinto i coglioni).
Fra tutte le cose che disse in quelle due giornate, questa me la segnai. Te la dedico, cara Fantascienza:

«Alla base della materia c’è un’energia: la vacuità. Ma chi vi vuole spiegare cos’è la vacuità è un bugiardo. Questo è tutto quello che dobbiamo sapere. Il resto è conoscenza intellettuale. A cosa ci serve sapere che tutto è vuoto quando dobbiamo prendere l’autobus al mattino o andare a mangiare una pizza? A vivere sereni. Ad abbandonare i problemi. Ad avere desideri tranquilli come un mare calmo.»

Fai bei sogni (senza pecore elettriche).

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)