E lo stellone?

Paolo Interdonato | Bagatelle per un Alph-Art |

1977, l’estate dei miei nove anni.

La scuola è finita e i nonni siciliani sono un’isola di ospitalità e calore, di cibo buono e ozio in giardino, di cani galline e pomodori, di scirocco salmastro che ti si impasta addosso caldissimo e ore che non finiscono mai. Un’isola nell’isola.

Li raggiungo con un interminabile viaggio in treno, durante il quale scopro i primi turbamenti erotici per la ragazzina che dorme nello stesso compartimento con cuccette. Poi, già sul traghetto, la prima granita («mezza al limone e mezza al caffè», ordina il mio accompagnatore, ottenendo due bicchieri colmi fino all’orlo di ghiaccio finissimo, uno giallo quasi bianco e l’altro marrone quasi nero, e sconvolgendo le mie credenze matematiche).

Poi arrivo a Messina, nella casa dei nonni e, dopo l’affetto e i convenevoli, inizio un trimestre di pausa scolastica, durante il quale il mare è un lusso domenicale.

Per il resto del tempo mi annoio, dondolo sul pergolato, assisto mamma gatta nella cura di cuccioli che saranno presto uccisi, mi trafiggo il tallone con un chiodo arrugginito, sbircio innamorato la ragazzina con i capelli rossi che mi ignora dal giardino accanto, vedo film di kung fu in un cinema pulcioso, porto a spasso i cani, infastidisco gli adulti e leggo qualche fumetto.

Quando arrivano i miei genitori, sono lì da quasi due mesi e mi sono completamente adattato e, quindi, inselvatichito. Il giardino è un giungla, piena di pericoli e avventure, da cui non voglio allontanarmi.

Una mattina mio padre, ostentando l’indifferenza tipica dei genitori estivi, mi lascia scivolare tra le mani tre riviste pescate a caso da una bancarella mentre tornava a casa. Sa che mi piacciono i fumetti e con quelli, ottenuti con una spesa modica, mi terrà a bada per un po’. Quello che non sa è che con quel gesto, mosso con studiata noncuranza paterna, mi sta cambiando la vita. Per sempre.

I tre albi sono un “Linus” e due “Alterlinus” usciti l’anno prima. Io, bambino di provincia, non ho mai visto nulla di simile. La mia dieta fumettistica si compone di albi dei supereroi Marvel-Corno, di “Topolino”, di “Diabolik” e di altri giornaletti emersi, quasi per magia, dalle “Buste sorpresa” che, in edicola, offrono il miglior rapporto quantità-prezzo. Nessuna coerenza collezionistica, nessuna fedeltà, nessun amore impossibile. Alla fine degli anni Settanta sono pochi i bambini che hanno letto tutte le puntate di una storia: i buchi li riempiamo come possiamo e per decenni non ho saputo come finisse Zio Paperone e il casco d’oro di Romano Scarpa, avendo così qualcosa di cui lamentarmi con gli amici.

Quelle tre riviste, comparse all’improvviso, sono piene di storie interrotte: racconti a puntate di cui mi accontento con gioia.

Innanzi tutto c’è “Linus”. Sulla sua copertina uno stranissimo anfibio chiede a un suo simile intento a scrutare il cielo: «… E lo stellone?!?»

Già. Lo stellone nel giornale non c’è, ma sfogliandolo trovo altro.

Leggo una puntata di una sola pagina di Corto Maltese, da Corte Sconta detta Arcana, in cui il marinaio, mentre è minacciato da soldati cinesi a cavallo, pensa a un sonetto in veneziano di Eugenio Genero. Scopro Vaughn Bodè mentre mette in pagina i suoi anfibi intenti a scrutare l’orizzonte con un binocolo: cercano forse lo stellone e si imbattono con insistenza nelle «disgustose protuberanze innaturali e penzolanti» di due bellissime donne nude (che a me ricordano quelle, altrettanto innaturali e penzolanti, che guarnivano il petto acerbo della ragazza che condivideva il mio comparto cuccette sul treno. Richard Corben mi mostra cosa succede a un prete in pieno delirio di onnipotenza e a una hippie bella e spudorata Quando i sogni si scontrano.

I due “Alterlinus” innescano in me un’esplosione ancora più fragorosa.

Su una copertina ci sono tre robot che lanciano silenziosamente il loro urlo metallico in forma di arco voltaico che scocca dalla sommità delle loro teste. Sull’altra, c’è una sconvolgente donna nuda che, in un fiorire di stereotipi, giace lasciva su una lettiga e si fa trasportare da piccoli africani rappresentati in accordo ai dettami del “minstrel show” (roba che, di questi tempi, Netflix censurerebbe). Tra quelle pagine mi accolgono alcuni degli autori che mi ossessioneranno per il resto della vita e capisco che con il fumetto si può raccontare tutto. Tutto.

La donna carnosa che ammicca in copertina si chiama Blanche Epiphanie ed è protagonista di un fumetto scritto da Jacques Lob e disegnato dal fumettista più erotico al mondo, Georges Pichard. Accanto alle pagine che raccontano le storie di quella femmina straordinaria ci sono pagine che mi mostrano che il fumetto è un gioco di equilibri: tra parole e immagini, tra bianchi e neri, tra segni e carta, tra idea e racconto, tra felicità e sicurezza. Ci sono Chester Gould con un classicissimo Dick Tracy, Jean Claude Forest e Paul Gillon con I naufraghi del tempo, Silverio Pisu e Milo Manara con Lo scimmiotto, Philippe Druillet con l’illuminante Aaarrrggg, Richard Corben con Going Home e Rolf e, infine, ci sono Dan O’Bannon e Moebius con la seconda parte di The long Tomorrow.

Arrivo con il cuore in gola a quest’ultimo fumetto. Troppe storie e poi ho sbirciato e ho scoperto che mostra ciò che non si deve mostrare: due corpi nudi e avvinghiati, il sesso.

Sobbalzo quando vedo il terrore sulla faccia del detective privato Pete Club; grido quando la donna bellissima adagiata sul corpo dell’investigatore si rivela un alieno mutaforma; impazzisco, letteralmente, quando il mostro che continua a essere conturbante si rifiuta di staccarsi dall’altro corpo rimanendo avvinghiato con i tentacoli al pene turgido che disperde il seme nell’aria.

Da quel momento non mi è stato più possibile leggere i fumetti ingenuamente. Una trasformazione irreversibile che mi ha colpito partendo dalle pagine di una rivista, dalla scelta di fumetti potenti e inaspettati, dall’accostamento di meraviglie distanti e impreviste, dalle scelte di una redazione attenta, guidata dallo sguardo vorace di un intellettuale della levatura di Oreste del Buono.

Oggi il formato rivista non esiste più. Non esistono quella periodicità, quell’imprevedibilità, quella capacità di raccogliere frantumi di immaginario distanti, accostandoli grazie alla sensibilità di un direttore illuminato. Le estati dei nove anni, per non essere solo noiose e dolorose, devono trovare altri mezzi dirompenti per cambiare la vita di un bambino.

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)