Le osterie

Francesco Pelosi | Fuori tempo |

La tarda adolescenza l’abbiamo passata in osteria. Claudicanti e stranieri al nuovo millennio, cercavamo qualcosa laggiù, tra quegli anfratti bui e quegli odori di alcol e di usato. Fuori tempo massimo, certo, ma consci di essere nel luogo che ci apparteneva.
Immersa nell’umidità di una cittadina di provincia, la nostra osteria si chiamava La Pina. Il nome era quello della proprietaria che la gestiva insieme alla figlia, e che l’aveva rilevata dall’oste storico, tale Lino, pioniere della birra alla spina e seguace di quella religione non scritta che vuole burbero e caustico ogni uomo dal lato sbagliato di un bancone. L’osteria non era niente di più che uno stanzone quadrato pieno di tavoli e sedie, con una seconda saletta interna, lunga e stretta, dove amavamo rifugiarci noi, con i nostri miti, l’acne e la chitarra.

La chiamavamo “Terme La Pina”, perché l’alone grigio azzurro del fumo delle sigarette copriva i tre quarti dell’ambiente, dal soffitto fino quasi all’altezza del naso, costringendo tutti a costanti inalazioni di nicotina e creando uno straniante effetto Fata Morgana che, sommato con il vino in corpo, rendeva  la permanenza fra quelle mura un’esperienza quasi psichedelica.
Al pomeriggio il locale era frequentato solo da alcuni sparuti vecchi, le cui facce, imporporate dai bianchini e dal vino rosso frizzante, agivano su di noi come sacri amuleti. Quei musi intagliati e crudi, che portavano le stesse rughe dei tavoli sui quali sbattevano con rabbia l’asso di Bastoni, la Pita o l’Angiolèn (Denari e Spade), ci laceravano nell’anima.
Li guardavamo, curiosi e irridenti, chiedendoci segretamente in quale di quegli archetipi umani ci saremmo infine trasformati. C’era Ernest Borgnine nel finale del Mucchio Selvaggio, Burt Lancaster coi piedi nella merda di vacca in Novecento, Gabriele Ferzetti, il Mister Ciuf-Ciuf di C’era una volta il West, e persino Marty Feldman, gobbo, strabico e incartapecorito, che ogni giorno, dalla metà del pomeriggio fino a notte fonda, girava in bicicletta tutti i bar della zona, come una ronda, caracollando infine contro il muro lì  davanti o vomitando per la strada. Di lui si diceva che avesse una moglie, anch’essa gobba, e persino un’amante, una vecchia donna di vita ormai a riposo.  

Col buio, poi, arrivavano gli ubriachi, con le loro frasi e il loro passo, sempre uguali, e i loro occhi arrossati e rotti. C’era quello intellettuale, che stava in disparte ad ascoltare i discorsi degli altri e che ogni tanto provava a rimorchiare qualche studente. C’era quello che piangeva chiuso in bagno, guardandosi dritto nello specchio. C’era il muratore meridionale, sempre allegro, che offriva bicchieri a tutti. C’era il milanese, uscito dritto dritto da un film di Steno o Monicelli, che alla fine trovava sempre il modo di litigare. E c’era il postino, quello con cui legammo di più, tragico nella sua malcelata dolcezza, quello che poi è morto.
Le donne che affollavano quel mondo sotterraneo e carbonaro, invece, erano strane. Lontanissime da quelle che vedevamo a casa o per la strada. Le poche che arrivavano non accompagnate, erano sbilenche, incrostate, e infeltrite, oppure fluorescenti, dipinte come un muro di periferia e sboccate. Ridevano come i cavalli, in mezzo al nugolo di mosconi che provavano a rimorchiarle, e anche loro bevevano forte.
Il bancone in marmo aveva le tacche sul bordo, perché un tempo, ci insegnò la Pina, si mettevano giù i metri di Campari, e poi a turno si offriva “il giro”. Su quel marmo rimanevamo appollaiati come bertucce anche noi imberbi, quando a fine serata lei si sedeva a fianco della cassa e, con in mano il suo beverone di acqua, ghiaccio e gin, ci raccontava la sua vita, come un romanzo d’appendice, in attesa che il destino ineluttabile abbassasse la saracinesca, e ci rispedisse tutti a casa.

Spesso ci trovavamo a suonare nella saletta interna, con la chitarra e gli spartiti. Tutte canzoni d’altri tempi, orfani com’eravamo di qualcuno che ci parlasse con la poesia, nei desolati anni Novanta in cui eravamo cresciuti.
Una volta il postino si avvicinò e ci disse: «Fatemi Lontano Lontano!». E noi, ignorantissimi – che conoscevamo a memoria De Andrè, De Gregori e Guccini, ma figurarsi se avevamo mai ascoltato Tenco – pensammo a Molto lontano di Paolo Conte, quella dove dice «lontano, lontano, oltre Milano». Il postino, con gli occhi fradici di arcobaleni sotto le pesanti lenti a fondo di bottiglia, sbottò allora, scocciato: «Ma che, oltre Milano! Va beh… Fatemi un Sol Totale, che ve la canto io!»
Il Sol Totale, accordo alchemico e segreto di una impossibile teoria musicale da santi alcolizzati, ci ha tormentato per tutta la vita. Più e più volte l’abbiamo ricercato sulla chitarra, così completo, avvolgente, infinito: totale, appunto. Ma non l’abbiamo mai trovato.

La Pina chiuse due o tre anni dopo che avevamo cominciato a frequentarla. E una volta che la serranda su quell’occhio di bottega in Borgo Onorato fu abbassata definitivamente, anche noi ce ne andammo, ognuno per la propria strada. Ma alla domanda su cosa cercassimo laggiù, oltre al mito, oltre al romanticismo, oltre a Bukowski – maledetto lui –, ho saputo rispondere solo anni dopo. Percorrevamo quella nostra catabasi personale per le storie. Erano loro a portarci lì.
Il racconto spontaneo che fanno di sé le vite amare, antico e inarrivabile, ci legava indissolubilmente come fuoco e falene. E per qualche anno dimenticammo persino i fumetti, vivendoli. Nessuna quarta parete, nessuno sceneggiatore da criticare o disegnatore da osannare. Solo il vino, le canzoni, le donne, la morte, più reali del reale.
Andavamo in cerca degli odori immortali che ci avrebbero per sempre riportato lì, al sicuro, nel più fittizio dei mondi concreti. La nostra bugia per sfuggire alla memoria: lo facevamo per le storie.

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