Il tradrittore – 4

Francesco Barilli | Il tradrittore |

Francesco “baro” Barilli è il nostro tradrittore, colui che traducendo tradisce un po’ le intenzioni dell’autore, ma rimette dritto il senso del testo.

Ha detto/scritto (Chi? Boh… Qualcuno, son sicuro, l’ha detto o scritto o almeno pensato)

«Bah, Paolo Rossi… Ma come fai a farti abbindolare ANCORA dal calcio. Peggio! Dai ricordi del calcio, simboli nazionalisti e reazionari (ricordi Buffon, anni più tardi, accanto allo striscione «fieri di essere italiani» con tanto di croce celtica?). Dico di più: nazionalisti e reazionari nel migliore dei casi, fascisti nel peggiore.»

Voleva dire/scrivere

Vedi sopra. E non è privo di senso, ma…

[N.d.A.:
Facciamo un gioco. Prometto, guardo Google UNA VOLTA sola, per una data, perché sono incerto fra il 4 e il 5. Poi basta, scrivo quello che mi viene. Il senso sarà chiaro alla fine, spero. Un pizzico di credibilità credo d’essermela guadagnata finora, dunque credimi quando dico: ciò che leggerai saranno i miei ricordi, senza aiuti esterni o tecnologici, e potrai controllarne la precisione. Vedrai, sparerò ben poco lontano dal centro…

Ecco la data: 5 luglio 1982.
Giuro, me lo sentivo. Che avremmo battuto il Brasile e avrebbe segnato Paolo Rossi. A dirlo adesso faccio la figura dello sborone, ma è vero. Come è vero che ricordo tutto di quella partita.
Il cross di Cabrini per l’inzuccata del primo vantaggio. Il gol di Sócrates
pochi minuti dopo, la nuvoletta di gesso che il pallone solleva dalla linea di porta, infilandosi fra la gamba sinistra di Zoff e il palo. Il resto è epica sportiva, sarebbe dispersivo dettagliarla.
Ti basti sapere che, sul 2-1 per noi, ricordo pure che Paolo Rossi sbaglia un gol più facile degli altri (ne aveva già fatti 2 e avrebbe realizzato il terzo e decisivo). Solo davanti al portiere, una roba da mangiarsi la palla e le palle. Meno male che, dopo il pareggio di Falcao, fa dimenticare l’errore con una deviazione sottoporta, sull’UNICO calcio d’angolo che tiriamo. 3 a 2.
Poi c’è il gol di Antognoni. Sarebbe il quarto, viene annullato per un fuorigioco che, se c’è, è millimetrico. Per certi versi è giusto così: il destino a volte cerca la perfezione di un segno, e quella partita DEVE essere ricordata per la tripletta di Pablito, al limite per la parata al novantesimo di Zoff (uhm… qua tiro davvero a caso… su colpo di testa di Zico???), che altrimenti sarebbe pleonastica.

Mondiali 1982. I primi che vedo a colori. Io quell’anno vedo morire Villeneuve in bianco e nero (8 maggio maledetto, qua non avrò MAI bisogno di googlare) e il povero Paletti a colori. E, ça va sans dire, mio papà ha preso la TV nuova per quei mondiali. Prima del 5 luglio c’era stata l’Argentina. Dopo verranno Polonia, Germania, «Campioni del Mondo!» (detto 3 volte), Pertini in tribuna eccetera.
Io di quei giorni ricordo due sensazioni su tutte. La gioia (perfino banale dirlo) e la condivisione con mio padre. Che con lui, devi sapere, andavamo d’accordo su niente, era un gran musone e rompiballe, il classico tifoso super-critico, per lui tutti erano brocchi e via dicendo. In fondo tutto ‘sto gran discorso mi è servito per dire solo: di Italia-Brasile ricordo l’episodio meno importante, il gol sbagliato di Rossi dopo che ne ha fatti due, perché in quel momento scatto dalla sedia, mi accascio (letteralmente) in ginocchio a terra, e mio padre mi mette una mano sulla spalla e dice: «Tranquillo, vedrai che ne FACCIAMO un altro!».
Che a te sembra una cosa normale, ma non lo fu. Ma manco per un cazzo. A maggior ragione per il plurale.
«Ne facciamo un altro». Io e lui, l’Italia e Pablito: secondo me quello, intende.

Ora, avanti al 2006, mondiali in Germania. Mio papà non c’è più dal ’96. La finale Italia Francia la vedo con mio figlio Matteo, 11 anni all’epoca.
Per me la vittoria 2006 è mooolto meno sentita. C’è anche un risvolto politico, in questo differente “gradiente del sentire” (vedi sopra: lo striscione con la croce celtica, in generale un delirio che ha il sapore della gioia, sì, ma pure di un nazionalismo urticante) ma c’è anche meno grandezza agonistica. Quella coppa la vinciamo perché nella cabala dei rigori Trezeguet estrae la pagliuzza corta e mette il penalty sulla traversa.
Veniamo al punto.
Dopo i rigori che decretano «il cielo è azzurro sopra Berlino» e dopo le interviste post partita (quindi, uhm… mi sa che siamo verso le 23:00 o giù di lì) io e Matteo tiriamo fuori dal frigo le lasagne fatte da Maria e ce le scaldiamo. Due piatti di lasagne e stappiamo pure la Coca (non storcere il naso! Undici anni aveva, mica ci bevo ‘na Guinness!!!). Mangiamo davanti alla tele che rimanda ancora immagini di quella partita. Mio figlio lo racconta spesso, ancora oggi.

Parlare di sé è della propria vita è una forma di narcisismo, più o meno sottile. È l’ergersi giudice del proprio vissuto, promettendo un’obiettività che non sarà possibile mantenere. Forse dovevo confessarlo prima. Vabbè, ho rimediato ora, mentre ti chiedo di riavvolgere la cassetta del tempo. No, non 1982. Stavolta fermati al settembre 1996. Ancora mio papà, una delle ultime volte che l’ho visto. E’ in ospedale per controlli, ma butta già male. È un mese prima del secondo infarto, che lo porterà via.
Quando entro nella stanza è a letto, sta guardando una foto che gli ho lasciato: ritrae lui assieme a Matteo, di pochi mesi, l’unico nipote che potrà conoscere. Ripone la foto sul comodino, si asciuga gli occhi con una mano, ma molto velocemente. E’ un uomo “di una volta”, ex partigiano, poi poliziotto e poi ancora operaio tornitore (per un comunista è troppo difficile restare in polizia, raccontava le poche volte che ne parlava). Uno così non piange, specie davanti al figlio maschio.
Parliamo tranquillamente. Beve dell’acqua a collo dalla bottiglia, me ne offre un bicchiere. Non gli dico nulla, né allora né poi, di come l’ho visto poco prima: bene così.
A volte delle persone care che sono scomparse ricordiamo l’ultima volta che le abbiamo viste e ci convinciamo che loro sapevano della fine imminente. Di solito è solo un’impressione, il cedere alla tentazione di essere stati profeti del futuro altrui e poter così pensare di saper essere indovini anche del nostro. Altre volte non è un’illusione: quel giorno vidi nei suoi occhi il rimpianto per quel po’ di vita che avrebbe voluto e che – sapeva – gli stava per essere tolto. Perché mio padre era un piccolo pezzo d’uomo (novanta chili compatti, due mani come tenaglie) ma aveva un cuore ingenuo e, a settant’anni, già troppo stanco.

Fai scorrere ancora avanti la cassetta. Poco, un mese, stoppa subito, 13 ottobre 1996…
Quando è morto ricordo che stavo mangiando un budino al cioccolato. Uno speciale, l’aveva fatto Maria con una ricetta trovata su qualche rivista. Col cioccolato fondente, brandy e scorza di limone.
Poi la telefonata, come uno schiaffo. Sono arrivato a Cremona, trafelato. Ricordo poche frasi. Alcune dette, altre solo pensate. Dov’è mia madre? Dov’è lui? Ha sofferto? Devo vederlo. Non lo vedrò più.
Poi più nulla, fino a quando hanno sollevato il cristallo della bara e il trapano ha cominciato ad avvitare. In quel momento è sembrato A ME di riavvolgere il nastro. E ho visto, trent’anni prima, un uomo giovane e forte guardarmi mentre, appena nato, sto strillando. Guardarmi e gioire perché sono un maschio, perché al terzo tentativo è arrivato il figlio col pisellino fra le gambe. E bere e offrire da bere, per festeggiare. Il cuore gli batte all’impazzata, ma è un cuore giovane, non ancora stanco.

Adesso rewind. Torna al 1982.
Ricordo le magliette attillate, senza nomi scritti dietro, solo i numeri, belli grossi. Quelle magliette vestono fisici secchi secchi, diversi da quelli scolpiti e palestrati di oggi.
Credimi, non mi frega nulla di fare del nostalgico reducismo sportivo, di parlare degli scarpini differenziati oggi, degli sponsor sulle magliette, e quanto erano belli i nostri tempi e tutto era più semplice e vero e giravano meno soldi e le partite si giocavano tutte alle 15 e sentivi i risultati alla radio e si mangiava pane e salame e al posto del doping c’era l’ovetto sbattuto col marsala… Lascia stare ‘ste cazzate.
Dico solo che erano fisici secchi secchi e normali come me, come te, e c’era l’odore degli zampironi (all’epoca unico baluardo contro le zanzare) che attaccavano in gola e la voce di Nando Martellini e le partite sapevano di vino bianco secco e polpette acide in un bar. E di una festa, poi, che aveva solo bisogno di un motivo per dire che c’era da fare festa.
Io non so davvero se essere umani significa essere sempre coerenti. O se siamo fatti anche delle nostre contraddizioni, di momenti che restano nel vissuto al di là di un’importanza oggettiva, di gioie che si pensa passeggere e, invece, si fanno pietre d’inciampo nell’anima.
1982. Gilles vola via, ma in bianco e nero. Lo trovano senza scarpe all’esterno della Terlamen Curve di Zolder, il sedile ancora attaccato alla schiena, il volo gli ha spezzato collo e vita. E mio padre vede in me un ragazzino abbattuto. Forse pensa che è esagerato, forse non capisce del tutto come o perché o quanto lo sono, ma decide che ci vuole una TV nuova.
Perché, fra poche settimane, dobbiamo vedere un grande mondiale. E dobbiamo vederlo insieme e a colori.]

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(Quasi)