Vittime e carnefici

Paolo Interdonato | Affatto |

Quando mi dichiaro ateo, sto mentendo. Sono devoto, proprio come lo si è al dio di una qualsiasi religione, a Kilgore Trout, scrittore dozzinale, ciarlatano, genio innegabile, maestro d’etica e personaggio ricorrente dei romanzi e dei racconti di Kurt Vonnegut. Nella mia vita, la sua presenza è stata una costante: c’è sempre stato quando ho imparato tutte le cose importanti che so. Per esempio, era con me quando Billy Pilgrim mi ha spiegato la vita e la morte. In Mattatoio 5, l’uomo racconta la sua esperienza presso i tralfamadoriani in una serie di lettere indirizzate al “News Leader”:

«La cosa più importante che ho imparato a Tralfamadore è che quando una persona muore, muore solo in apparenza. Nel passato essa è ancora viva, per cui è molto sciocco che la gente pianga ai suoi funerali. Passato, presente e futuro sono sempre esistiti e sempre esisteranno. I tralfamadoriani possono guardare ai diversi momenti come noi guardiamo un tratto delle Montagne Rocciose. Possono vedere come siano permanenti i vari momenti, e guardare ogni momento che loro interessi. È solo una nostra illusione di terrestri quella di credere che a un momento ne segue un altro, come nodi su una corda, e che una volta che un istante è trascorso è trascorso per sempre.
Quando un tralfamadoriano vede un cadavere, tutto quel che pensa è che il morto è, in quel particolare momento, in cattive condizioni, ma che la stessa persona sta benissimo in una quantità di altri momenti. Ora, quando io sento che qualcuno è morto, alzo le spalle e dico quel che dicono i tralfamadoriani dei morti, e cioè “Così va la vita”.»

Mentre si percorre un sentiero, qualsiasi sentiero, non esiste un’interruzione più brusca e radicale della morte. «Dura di più la morte o la vita?», mi chiede l’amico Andrea, in uno dei soliti giochi macabri che usa per tenere a bada la noia. Lo sai tu, lo so io, lo sa perfino Andrea: è una domanda senza senso. È come chiedersi se dura più l’essere o il non essere. Chiedimelo quando non ci sono e stai pur certo che non ti risponderò. Perché, come dicono i tralfamadoriani, «Così va la vita».

Waka Hirako, che immagino essere molto giovane, esordisce con un fumetto straordinario, intercettato con attenzione incantevole da J-Pop, che continua a essere l’editore di manga che mi dà più soddisfazioni. Il volume, che è uscito in Giappone l’anno scorso e che, da qualche settimana, è disponibile anche in italiano, s’intitola My Broken Mariko. Durante la pausa pranzo, Shiin scopre dal telegiornale che la sua migliore amica, Mariko, si è suicidata e, da quell’innesco, parte il racconto di un’amicizia, di una vita di abusi e violenze e di un viaggio. Nella raffinatissima segmentazione dei pubblici del manga, questo fumetto è definito josei e si rivolge specificamente a giovani donne per dire loro di studentesse o di giovani entrate da poco nel mondo del lavoro. Non so se serva a qualcosa segmentare con così tanta precisione il proprio pubblico, a me queste classificazioni interessano molto poco, ma è certo che le dimensioni e lo stato di salute del mercato del fumetto giapponese danno ragione a questa ossessione tassonomica.

So pochissime cose di giapponese – quattro, non a caso – e le ho imparate tutte frequentando un dojo di karate. Con queste poche nozioni – e rischiando di prendere una terribile cantonata – non posso fare a meno di notare un paio di elementi niente affatto accessori: il nome della ragazza, Shiin, contiene “shi”, che significa “quattro” ma anche “morte” e il fumetto si compone di quattro capitoli benché quel numero, per i giapponesi, porti pure più sfortuna del tredici o del diciassette.
Avvolta da questo presagio di morte, Shiin decide di affrontare il dramma e salvare la sua amica dal suo carnefice. Tenendo sotto braccio l’urna colma delle ceneri di Mariko, affronta un viaggio allucinante nella speranza di ottenere chiarimenti e di ritrovare la pace.
Il registro drammatico ed emozionale si mescola, con una maestria rara, a quello grottesco e quell’urna cineraria tende a sovrapporsi a quella del Grande Lebowski di Joel ed Ethan Cohen.

Benché l’autrice, nell’unica intervista che ho trovato in rete, citi un elenco di fonti di ispirazione canonico e variegato, che abbraccia classici (Osamu Tezuka e Tetsuya Chiba), innovatori (Taiyo Matsumoto e Daisuke Igarashi) e strani stranieri (Shel Silvestein e Jillian e Mariko Tamaki), non posso fare a meno di affiancare quel lavoro a quello delle amate Ai Yazawa, Fuyumi Sōryō e Moyoko Anno. Una prossimità di stile e di registro da cui non riesco a liberarmi che mi fa capire quanto in Giappone il sistema dei generi e la segmentazione commerciale per cluster demografico si traducano in vincoli ineludibili anche per gli autori più capaci. Mentre mi dico che vorrei che qualcuno analizzasse quel sistema di regole che accrescono la creatività come se fossimo di fronte ai “contraintes” dell’Oulipo di Raymond Queneau, Italo Calvino e Georges Perec, torno a sfogliare il volume.

Vado avanti e indietro cercando le cose che mi sono rimaste addosso. Mi accorgo che la sequenza che mi ha fatto piangere avrebbe dovuto, per costruzione, scatenarmi una risata. Te la racconto. (Il seguito contiene uno spoiler, ma senza di quello ciò che voglio dire non avrebbe senso. Siccome ti sto per raccontare la parte che mi ha fatto piangere, secondo me è meglio se ti fermi qui e, se vuoi, torni quando avrai letto quel fumetto.)

Shiin ruba l’urna cineraria al padre stupratore di Mariko, minacciandolo con un coltello, e parte per Capo Marigaoka, posto di mare in cui liberare le ceneri dell’amica. Giunta sul luogo, la ragazza, distrutta dall’angoscia, va a ubriacarsi in un bar. Qui apprendiamo che in paese c’è uno stupratore seriale. Lo incontreremo nel momento meno opportuno: il tentativo di suicidio di Shiin (forse solo inscenato, al culmine della disperazione causata dall’impossibilità di ottenere chiarimenti dall’amica, prima che le sue ceneri siano sparse dalla scogliera) viene interrotto da un personaggio misterioso (un ragazzo che continua ad apparire e ad aiutare la protagonista). Poi anche il tentativo di salvataggio viene interrotto dalle grida di un’altra ragazza che è stata assalita dallo stupratore che gira indisturbato per il paese. Shiin, senza esitazione si lancia sul carnefice e lo abbatte colpendolo con l’urna.
La scena è paradossale almeno quanto lo è lo spargimento delle ceneri di Donny sul volto di Walter e Lebowski. Ed esattamente come nel film dei fratelli Cohen, nel momento in cui dovrei ridere, l’angoscia mi stritola.

Il violentissimo colpo inferto con l’urna contro il casco dello stupratore è un gesto di rivalsa e giustizia. Non c’è vendetta. Nell’intervista cui ho già fatto riferimento, Waka Hirako dice che, per My broken Mariko, si è ispirata alla storia della madre che, da bambina, ha subito violenza e abusi da entrambi i genitori e che, per tutta la vita, avrebbe voluto aiutare, modificando il passato e diventandole madre o almeno amica nel momento del bisogno. Un dolore insanabile che si concretizza in una definizione: «my mother, who is an abuse survivor herself».
Alice Sebold, in Lucky, ci dice chiaramente che c’è una differenza fondamentale tra essere la vittima di uno stupro ed essere sopravvissuta a uno stupro. Ci spiega che essere “vittima” è una condizione momentanea, in alcun modo negativa, che identifica il fatto che ci sia un colpevole che ha commesso un atto volontario. Definirsi “sopravvissuta”, invece, implica che un singolo evento definisca la vittima e la costringa a indossare un abito di sofferenza.
Non so che parola abbia usato Hirako in giapponese, ma mentre le ceneri di Mariko, tenute insieme da un contenitore duro e materico, si abbattono fragorosamente sul casco dello stupratore, la cooperazione tra due donne – nessuna delle quali è sopravvissuta – ne salva una terza da una violenza, un atto criminale aberrante.

Quell’impatto è il punto di contatto tra le vite di tre donna in tre momenti diversi, nei quali sono sempre chiaramente identificabili le vittime e i carnefici. Non ci sono incidenti cui si può sopravvivere sopravvivere. Ci sono atti volontari e determinati, da parte di tutti gli attori. C’è la violenza della realtà e un sistema aberrante di opinioni, pregiudizi e stigmate sociali (proprio quello che investe Shiin nel chiacchiericcio del bar in cui cerca di ubriacarsi in santa pace) dal quale non riusciamo a liberarci.

«Così va la vita».

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