Fagioli riscaldati

Francesco Pelosi | Fuori tempo |

Su La strada di Cormac McCarthy, Il gusto del cloro di Bastien Vivès e L’ombra di Walt di Marco Corona

1.
Creare narrazioni attraverso tecniche di narrazione, pur avanzate o acrobatiche che siano, produce solo narrazioni mortifere e morte. Storie per animali in gabbia.
Questa certezza mi ha sopraffatto dopo aver letto, incidentalmente di fila, La strada di Cormac McCarthy e Il gusto del cloro di Bastien Vivès.
Pur con un’istruzione diffusa a livello capillare, nella nostra società si sono prodotti, casualmente o no, un livellamento della cultura media teso al ribasso e una capacità di analisi e approfondimento sempre più povera.
Il benessere, le comodità della vita nei paesi tecnocratici, hanno reso innecessario l’approfondimento della vita stessa, sostituendolo o scambiandolo – credendolo equivalente – con un’iperspecificità tecnica.
Banalmente: non sappiamo più nulla, o quasi, di ciò che concerne il vivere, l’essere, il gestire noi stessi, i nostri desideri e la nostra emotività – che vengono invece continuamente nutriti, ingozzati, creando vere e proprie obesità psichiche – ma sappiamo tutto di come funziona un social network, un’applicazione del telefono o una macchina per costruire qualche altra macchina.
È il regno del fare. L’essere non viene preso in considerazione perché, forse, considerato già acquisito e risaputo. Anche per questo, i miliardi di narrazioni di cui siamo circondati, che trattino piccole quotidianità asfittiche o grandi viaggi magico-fantascientifici, scivolano immote sulla superficie delle cose, incapaci di farsi ispirare da una qualsiasi musa che non sia quella del risultato finale.
Dobbiamo invece desiderare, pretendere e creare, narrazioni da rabdomanti dell’immaginazione. Parafrasando Raoul Vaneigem, narrazioni senza fine.
Prima di proseguire: La strada è un romanzo breve del 2006, scritto da un americano settantenne, dove si raccontano i tentativi di sopravvivenza di un padre e del suo bambino, mentre vagano nel nostro mondo dopo che l’ecosistema è collassato e la popolazione si è quasi del tutto estinta. Il gusto del cloro è un fumetto del 2008, scritto e disegnato da un francese poco più che ventenne, dove si racconta l’incontro fra un ragazzo e una ragazza in una piscina pubblica. Entrambi sono realizzati in modo impeccabile, e anche se il primo mi è piaciuto moltissimo e il secondo quasi per nulla, consiglierei certamente la lettura di  tutti e due.

2.
Perché amo le storie di Alan Moore e detesto quelle di Grant Morrison? Perché Moore usa la tecnica al servizio dell’immaginazione. Morrison invece fa l’esatto contrario, l’immaginazione al servizio della tecnica. Narrazioni tecnocratiche per sfortunati nativi digitali. Popoli cresciuti in assenza di mistero, sulla cui coscienza grava, come una maledizione, l’infinita riproducibilità tecnica e l’abbaglio che le sue possibilità hanno creato.
Una delle finalità della tecnica, oltre all’aumento esponenziale della potenza, è quella di distruggere il mistero. Abolirlo, annichilirlo, cancellarlo. Perché nel mistero sta la paura ma anche la creazione. Nel buio sconosciuto cresce la vita. E la tecnica, quando è fine a sé stessa o quando diventa irrinunciabile, è tutto ciò che sta invece agli antipodi della vita. L’infinito paesaggio di ferro e plastica che abbiamo costruito lo dimostra bene.
Guardiamoci negli occhi: veramente, nel profondo di noi stessi, stesse e stess*, consideriamo il profitto e il successo come l’apogeo della nostra esistenza? Non voglio crederci nemmeno per un attimo ma, se così fosse, se davvero c’è qualcuno che si è così profondamente inchinato nel suo intimo alla morte del mercato, del capitale e della tecnica, allora che questo sia definitivamente il nostro mondo, il migliore dei mondi possibili come, da questo punto di vista, oggi, è.
La maggior parte delle narrazioni contemporanee, completamente asservite al mercato e alla tecnica narrativa del mercato, aiutano solo a rimanere soggiogati all’interno della gigantesca narrazione mortifera che è la vita contemporanea. A esserne schiavi e custodi.
Quei lettori a cui un libro non ha mai cambiato la vita (dico libro, ma il concetto è allargato a tutte le altre opere narrative), non sono altro che morti putrefatti. Consumatori di prodotti pensati per intrattenere. Le narrazioni contemporanee, di concerto con questi consumatori, non puntano a cambiare la vita ma a conservarla così. Asservita. Narrazioni di plastica per spiriti al botulino. Cadaveri ripieni di hamburger e merendine che non torneranno mai alla terra.
Intrattenimento è senza dubbio una delle parole più schifose che esistano. Io, in quanto essere, non ho bisogno di essere intrattenuto. Ma in quanto sottoposto e schiavo inconsapevole, sì, ne ho bisogno. Lo voglio. Le “opere di entertainment” sono l’immondizia della cultura e, come immondizia reale, stanno sommergendo il mondo.
Il fatto che molti “artisti” e “critici” ne parlino come di una cosa normale, considerando “l’intrattenimento” lodevole e necessario, mi fa accapponare la pelle. Scavano la loro stessa tomba e la nostra con loro.

3.
Qualche settimana fa ho partecipato a un incontro online sul tema della critica nel fumetto. A me e agli altri ospiti è stato chiesto, fra le altre cose, cos’è un critico e qual é il suo ruolo. Io ho risposto che la critica deve essere – è – un’opera a sé. Ora, mi sento di aggiungere anche che il critico deve essere un fiutamutande, come il detective di un romanzo noir, nell’accezione esatta che ne danno i Baustelle nella loro canzone Colombo, quando cantano: «arriva un investigatore e ci deduce l’anima, la nostra cognizione del dolore illumina».
Il fiutamutande critico deve dedurre la propria anima e quella di un mondo, esattamente come l’opera o l’artista di cui sta parlando. Far luce sulla cognizione del dolore.
La critica è un gioco. Un gioco noioso e annoiato se fatto dentro il calderone della tecnica e se ai suoi requisiti risponde; un bel gioco se invece va in cerca di gnommeri da districare o ingarbugliare, con spirito libero e diagonale, fuori dal seminato.
Per giocare e divertirsi, però, c’è da tenere ben presenti il dolore e la morte. Ma, di nuovo, molte narrazioni contemporanee fuggono la morte, non hanno cognizione del dolore e, in definitiva, credono che il loro arido razionalismo sia immortale.
Solo sulle macerie si può ricostruire. Solo dalla putrescenza c’è rinascita. In un mondo immortale, non c’è posto per la vita.
La distanza fra un’opera come La strada e una come Il gusto del cloro, mi pare allora stia tutta nel botta e risposta di Amici miei, quando, visitando con il Conte Mascetti il suo nuovo e povero appartamento, il Necchi gli dice: «Bè, è lo stile moderno: pare che ‘un c’è nulla e invece c’è tutto». Ma il Mascetti, lucido e sconsolato, lo detourna, rispondendo: «Eh… Pare che c’é tutto, e invece ‘un c’é nulla!».
Il parco giochi nel quale ci troviamo a sopravvivere nell’ultimo mezzo secolo, sembra esattamente questo.

4.
Una terza lettura casuale, infine, ha rimesso tutto in ordine nei pensieri e nell’animo. Mi è capitato fra le mani L’ombra di Walt di Marco Corona. Non voglio – ma d’altronde nemmeno potrei – ridurre questo fumetto a una sinossi, per cui basti sapere che ci sono un cane che fa il pittore, un’oca, alcune prostitute e la morte (ma anche altre cose).
Trovo fra quelle pagine una sentenza così perfettamente oscura, da risuonare immediatamente di vita:

«Parassiti e prostitute, il futuro gli appartiene. Per tutti gli altri un passato irrimediabilmente passato e un presente di fagioli riscaldati. Nei sogni nessuna consolazione.»

E per fortuna, risponderei a Marco, se lo conoscessi. Non abbiamo bisogno né di consolazione né di speranze. Abbiamo bisogno di mistero e di rabdomanti pronti ad immergervisi, come te o come McCarthy quando scrive La strada. Abbiamo bisogno di desiderare fuori dal seminato. Desiderare narrazioni vibranti desiderio.

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