«Uno solo, per me, è diecimila»

Francesco Pelosi | Ritratti |

«Josif Kohen è un fumetto mitico per gli ammiratori di Carlo Bologna: l’ex ingegnere votato alla bande dessinée lo ha infatti lasciato in sospeso ormai vent’anni fa. Apparso per la prima volta nel 1994 con L’età dell’ innocenza di Josif K, pubblicato nel classico formato franco-belga a 48 pagine, il racconto è proseguito nel 1997 con il secondo episodio, La giovinezza di Josif K., raddoppiandola foliazione, per poi interrompersi bruscamente. Ora, il terzo episodio, Josif K. sotto il ponte di pietra, è finalmente previsto per l’anno prossimo. 
La nostra speranza è che quest’attesa decennale non venga delusa, e che il segno del Maestro non abbia risentito del tempo trascorso, conservando quella distante raffinatezza che lo ha sempre contraddistinto. Fortunatamente, durante questi vent’anni, Bologna ci ha comunque regalato quello che può già essere considerato il suo capolavoro: L’internazionale, terzo libro dedicato all’ex agente dei servizi segreti David Marx, alle prese con gli scenari della Guerra Civile Spagnola».

da Fumetto. Un canone necessario di Alessandro Paoli (Oblò APS, 2017)
disegno di alpraz

Prima.
Nelle cavità del silenzio avanza un suono. Un piccolo suono d’acqua e polvere. Non senti nulla quaggiù. Non esisti. Finché quel piccolo suono non si fa più consistente. Più duro. Più vero. È un suono di passi, passi sulla terra di una caverna. E allora, anche tu cominci a sentirti, cominci a sentire.
Apri gli occhi.
La prima cosa che vedi è la luce. Poca, ma intensa. Poi le tue mani. Le hai avvolte attorno alla pancia. Le alzi, e sotto di loro un grande taglio ricucito ti percorre il busto orizzontalmente, da parte a parte. Il suono, la luce e ora i ricordi. Il gigante ti ha mangiato, tranciandoti in due di netto. Credevi di aver capito come fregarlo, come salvare te e tutti i tuoi amici di quel bar che non c’è. Ma loro sono scomparsi. E a te è andata peggio.
«Dove sono?», ti lasci scappare dalle labbra, come a confermare con la voce che ancora sei.
«Siamo nella pancia del gigante», ti risponde un’altra voce. Una voce piccola come i suoi passi, che avanzano verso di te.
Un ragazzino scalzo, con addosso un pigiama giallo a puntini rossi, è lì in piedi. In mezzo all’oscurità e al silenzio di quella caverna che è un ventre. 

Sono ore che camminate ormai, tu e il ragazzino col pigiama giallo.
«Vieni», ti ha detto. «Vieni. Ti porto da loro».
Loro sono quelli che ti hanno ricucito. Loro vivono quaggiù da sempre, ma quaggiù -la pancia del gigante- non è sempre qui.
«Non è nemmeno sempre adesso, se capisci cosa intendo».
No, non capisci. Ascolti il bambino col pigiama giallo («Piacere, mi chiamo Josif, e tu?»), ma non capisci davvero cosa dice. Puoi solo seguirlo, non hai altra scelta. E forse è meglio così: l’ultima volta che hai scelto, il mondo è finito.
«Mi sono ritrovato a vivere nelle scelte altrui», racconta Josif mentre camminate. «Già da bambino, quando non sapevo nulla del mondo e delle leggi degli umani, queste mi hanno dominato. Mio padre fu arrestato perché era un refrattario, così dicevano. È morto in carcere e io, nato negli agi, nella cultura e nella ricchezza, sono stato catapultato nella vita dei poveri. La vita del lavoro che sfianca e rapina le ore del giorno. La vita dell’insicurezza, delle possibilità negate, dell’orizzonte amputato. La vita della maggior parte della gente, come ho capito poi. La lotta di classe è ciò che definisce in nuce la società che abbiamo creato. Non c’è nessun dubbio in questo».
I passi di Josif sono leggeri, sembra camminare sospeso sulle onde della realtà. Le sue parole invece, ti si piantano nella pancia lacerata come sassi.
«Crescendo, proverò risentimento verso quegli uomini che mi hanno rubato la vita. Li odierò e diventerò come loro, un approfittatore, un servo silenzioso e dolente del sistema. Ma da qui, da questa eterna fanciullezza consapevole che questo luogo concede, vedo i miei errori futuri. E se non posso cambiarli, posso almeno fermarmi. Non andare oltre».
Poi si ferma, e si volta verso di te. Ti fissa coi suoi occhi scuri.
«Mi aiuterai?»
Non sai che dire. Lo ascolti e non puoi fare a meno di notare la distanza fra le sue parole e i suoi abiti. Il pigiama giallo a puntini rossi di un bambino che sogna. Continuate a camminare, ma per poco. La penombra della pancia-caverna è diventata ora una stanza circolare, dove al centro sta un immenso essere composto solo da tre facce.
«Eccoci», ti dice Josif. «Questa è la Galleria Dozzinale, l’istante-luogo in cui nasce tutto». 

In silenzio, con stupore, ti avvicini a quei tre volti immensi. Non c’è dubbio: conosci quelle facce. Le conosci bene. Milos Baffo, Errantes e Il Biondo. I tuoi autori preferiti. 
«Noi siamo eterni. Celestiali. I signori del quarto mondo, di quelli seguenti e dei precedenti allo stesso modo».
Li ascolti con la bocca aperta, come gli scemi davanti al cielo. 
«Non temere, se non capisci. È difficile descrivere una dimensione superiore con i termini di una inferiore. O anche il contrario».
Le loro voci, che sembrano una, ti rimbomba nel corpo. 
«Per alcuni c’è un sopra, un sotto e un di lato. Per altri c’è un fuori e un dentro. E poi ci sono quelli che hanno la visione d’insieme, ma che fatalmente non la riescono ad esprimere. E forse anche questo fa parte di quella stessa visione. Potremmo definire questo luogo una persistenza temporale, come quella di cui ha parlato Philip K. Dick… O anche Platone, no?
Vuoi dire qualcosa, ma Josif ti fa segno col dito. «Ascolta».
«Siamo nel mondo giù dal tuo e su verso il tuo. Se stessi leggendo un fumetto, la dimensione in cui ci troviamo ti apparirebbe come una pagina in 3D. Ti servirebbero gli occhialini verdi e rossi, hai presente? Una serie di immagini 3D… Ma non in sequenza. Tutte insieme nello stesso istante. Come nella ruota delle vite egizia. Tutte le dimensioni coesistono contemporaneamente, una persistenza temporale, appunto. È questo il motivo per cui ai tuoi occhi abbiamo tre facce e ci esprimiamo al plurale. Ma quanti e quali volti, lo hai scelto tu. Se hai letto Alice, La storia infinita, Narnia, Pinocchio e anche Flatlandia dovresti aver capito, no? La balena, l’armadio, la tana del coniglio, il libro… Non sono altro che buchi neri. Idee talmente dense da essere collassate su loro stesse e aver aperto un varco fra le dimensioni. Puoi chiamarlo buco nero, Stargate, Intuoscienza, o Porta Magica. Ti ha preso in bocca e ora sei qui. Nel suo ventre. Siamo tutti qui».
Baffo, Errantes e Il Biondo ti scrutano ora. Come il cielo scruta gli scemi. E aspettano. Vogliono qualcosa da te.
«Cosa… Cosa devo fare?»
Sorridono. 
«Devi porre rimedio a ciò che hai causato. Non lasciando che il gigante divorasse quelle vecchie e stanche storie al bar, hai ucciso l’immaginazione. Non gli hai permesso di rinnovarsi. Hai spezzato il cerchio. Il gigante doveva sterminare i vecchi archetipi perché i nuovi nascessero… Ma ha mangiato solo te. Dunque, è a te che sta, ora».
Hai già capito, ma lo chiedi ugualmente.
«A me? Dovrei…»
«Si, devi ucciderci. Estirparci dall’inconscio collettivo. Dobbiamo rinnovarci, e dobbiamo farlo alla svelta. Ma non temere, ti aiuteremo. Ti daremo il vestito e le armi. E ti indicheremo le vittime. La prima è già al tuo fianco».
Ti volti verso il piccolo Josif, e da qualche parte nella tua memoria rispuntano le definizioni che Jung ha dato degli Archetipi universali. Il primo era proprio lui, L’Innocente.
Il bambino ti guarda dai suoi occhi scuri e sorridendo, ancora una volta, ti chiede:
«Mi aiuterai?»

[continua] 

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